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Litigo, quindi sono. Perché il dissenso fa bene

di Claudio Risé - 27/04/2021

Litigo, quindi sono. Perché il dissenso fa bene

Fonte: La Verità


In barba alla dottrina del pensiero debole, in questi tempi «castranti» emerge come vitale la capacità di sfogarsi. Tanto che l'istinto alla ribellione, che coincide con l'affermazione di un sé autonomo, deve essere preservato (con dei limiti) fin nei bambini più piccoli

Litigare fa bene e un po' d'aggressività è indispensabile per stare al mondo. Queste semplici e evidenti verità bussano con forza alla porta dell'opinione pubblica, da dove furono cacciate con l'avvento dell'epoca falsa e lamentosa del politically correct, rimasta al potere da più di 50 anni. Ora però si riscopre in ogni campo la funzione del dissenso, provocando interessanti scricchiolii in modi di pensare ed equilibri di potere che qualcuno cominciava a supporre ormai eterni. A gettare nuova luce sul valore del conflitto, che le civiltà classiche conoscevano già perfettamente, sono oggi campi di ricerca di avanguardia come le neuroscienze e la psicologia dello sviluppo. Sono loro a sgombrare dal terreno con cortese fermezza le molte superstizioni del "pensiero debole", una moda di mezzo secolo fa, ma ancora proposta dai media. Fu allora che prese forma l'immagine di un essere umano fragilissimo, incapace di reggere qualsiasi frustrazione senza riportarne gravi danni. Ispirando così una psicologia dell'infanzia e adolescenza dove la dolcezza è sempre e comunque obbligatoria e il genitore che perde la pazienza o manifesta la propria stanchezza diventa poco meno di un mostro che non si rende conto dei danni irreversibili prodotti nei figli.
Questa visione viene ora ribaltata da Ed Tronick uno dei massimi studiosi delle neuroscienze dello sviluppo, docente all'Università del Massachusset e alla Harvard medical school, nel recentissimo: Il potere della discordia. Perché il conflitto rinforza le relazioni (Cortina editore) scritto assieme alla collega dell'Università del Massachusset e pediatra Claudia Gold, presenta una più realista visione. Anche se il pensiero occidentale queste cose le sapeva già da Socrate in poi infatti, la società dei consumi con il suo bisogno di consenso diffuso erano riuscite negli ultimi decenni a capovolgere tutto, e a considerare il dissenso un problema educativo gravissimo, e nella maturità un potenziale generatore di dissensi sociali e crimini d'odio. Non che sia del tutto finita: vedi ad esempio, in Italia, l'insistenza sull'approvazione della legge Zan, malgrado  i suoi  evidenti rischi per la libertà di pensiero sulle questioni legate al genere e alla riproduzione naturale, fermamente avversata dalle  ideologie dell'omologazione obbligatoria.   
La rivalutazione psicologica ed educativa della discordia di cui parlano Tronick e Gold segnala tuttavia un cambiamento molto significativo rispetto alla oggi dominante Cultura del piagnisteo politicamente corretto, sbeffeggiata da Robert Hughes nel suo libro degli anni '90 (Adelphi ed.), che per questo fu poi duramente ostracizzato dall'intero establishment culturale.
È nell'osservazione clinica delle reazioni dei bambini, anche piccolissimi, ai problemi di relazione con gli adulti che si occupano di loro (la mamma, il papà, chi è lì con loro), che si scopre come la discordia, la mancanza di intesa, il vedere e vivere diversamente le cose, non sia una tragedia destinata a creare chissà che problemi, ma anche qualcosa di  normale. Anzi svolga precise e indispensabili funzioni: è lo stesso senso di sé e "la capacità di stare vicino agli altri che si sviluppa accogliendo la discordia". È insomma la differenza dall'altro che ti insegna a riconoscere chi tu sia e a diventare capace di affermarlo e dimostrarlo nelle tue relazioni con il mondo. Le fondamenta di questa attitudine vengono gettate nell'infanzia, nella relazione con la madre, o di chi si trova a farne le veci occupandosi del bambino piccolissimo. Il quale è sì totalmente dipendente da lei, nel senso che senza il suo sguardo amorevole avrebbe molta difficoltà a sviluppare una personalità autonoma e in grado di relazionarsi liberamente con il resto del mondo. D'altra parte però è anche dotato, fin dalla nascita, della capacità di superare gli inevitabili momenti di allontanamento o apparente abbandono della madre, a condizione che la madre torni poi al più presto l'essere amoroso che lo ha generato.  
La grande diversità tra la psicologia dello sviluppo presentata da Tronick e Gold e gran parte di quella dominante in Occidente negli ultimi cinquant'anni è il valore riconosciuto alle esperienze di conflitto nelle quali, come l'esperienza clinica dimostra, il bambino scopre e valorizza la sua capacità di farcela "da solo". Sono proprio queste situazioni difficili infatti che, mettendo il piccolo in difficoltà, lo aiutano ad attivare la sua abilità nel cavarsela, rafforzando gradualmente la sua autonomia e aiutandolo a cercare e riconoscere le proprie risorse. Il contrario insomma dell'"educazione permissiva", sempre terrorizzata che il bambino non ce la faccia, e ansiosa di anticipare le sue mosse e i suoi sforzi. È in queste esperienze, anche di forte contrapposizione, della primissima infanzia, che nasce la personalità e prende forma la capacità di resilienza, oggi molto invocata come fosse un bene perduto. "Usiamo l'espressione ‘resilienza quotidiana’, o di tutti i giorni per descrivere questo processo evolutivo", spiegano Tronick e Gold.
Nel bambino e nell’adolescente le prove continueranno poi con un'educazione affettuosa e presente, ma sempre attenta a non sostituirsi all'iniziativa personale nell'affrontare la situazione. Come dimostrano le numerosissime storie umane raccontate nel libro è infatti su questo che poggia l'indispensabile "farcela" della vita quotidiana, base poco celebrata e tuttavia indispensabile di ogni ulteriore progresso. Anche il pediatra e psicoanalista Donald Winnicott riconosce come sia attraverso questi inevitabili traumi che l'essere umano acquista gradualmente la coscienza di sé. Non devono durare troppo, e la ferita deve essere poi "riparata" con un'esperienza affettiva positiva, perché altrimenti si sviluppa un senso di blocco. Se però il bambino non viene mai messo alla prova, il senso di sé  e del proprio valore non riesce affatto a prendere forma, e ciò è anche peggio. È proprio di questo malessere che si nutre poi il narcisismo contemporaneo, con la sua apparente onnipotenza, sempre impegnata a mascherare la propria inconsistenza personale.
Rinunciare alla mamma, accettare la solitudine e il conflitto, prima per pochi secondi e gradualmente sempre più a lungo, è durissimo. Ma ci regala la libertà.