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Masafuera rayadito passero sull’orlo dell’estinzione

di Francesco Lamendola - 16/05/2018

Masafuera rayadito passero sull’orlo dell’estinzione

Fonte: Accademia nuova Italia

È possibile che una comunità di circa seicento persone, per il solo fatto di esistere, metta gravemente in pericolo l’equilibrio ecologico di uno dei luoghi più belli e importanti al mondo dal puto di vista naturalistico, come il remoto arcipelago cileno di Juan Fernández? E non stiamo parlando degli operai di un polo petrolchimico o degli addetti a una industria siderurgica; nemmeno dei lavoratori di una azienda agricola intensiva o dei taglialegna di una grande segheria, impegnati ad abbattere sistematicamente le foreste tropicali primeve. Si tratta degli abitanti dell’unico insediamento di tutto l’arcipelago, per lo più dediti alla pesca delle aragoste; c’è anche una modestissima attività turistica, ma i visitatori che giungono dal lontano continente (a 680 km. in linea d’aria) e atterrano sul piccolo aeroporto isolano, o che giungono, ancor più raramente, con qualche nave di passaggio, non sono in numero tale, né svolgono attività tali, da minacciare seriamente la natura dell’ambiente, caratterizzato in buona parte da colline e rilievi montuosi ammantati di una densa foresta subtropicale. Gli abitanti, poi, conducono un genere di vita relativamente sobrio, di basso impatto ecologico, con un unico centro “urbano”, in realtà poco più di un semplice villaggio, con pochissime automobili e poche strade: eppure, il fatto che tengano con sé un ceto numero di cani e gatti, per non parlare delle capre, capaci di arrampicarsi ovunque alla ricerca di erba e fronde, rappresenta una vera catastrofe per la sopravvivenza di un grandissimo numero di specie viventi, sia animali che vegetali, sviluppatesi in un ambiente estremamente isolato e perciò quanto mai fragile dal punto di vista dell’equilibrio ambientale. E questo senza contare gli ospiti involontari della comunità, come i ratti, che si diffondono e si moltiplicano a ritmo spaventoso e che rappresentano una minaccia mortale per le uova degli uccelli e per tanti altri abitanti originari delle isole; o come le erbe infestanti giunte dal continente sudamericano, e anche dall’Europa e perfino dall’Africa, le quali prosperano a danno delle specie indigene, dotate di un sistema riproduttivo assai più delicato, dal momento che per secoli e millenni esse non hanno avuto alcun serio competitore proveniente dall’esterno e quindi si sono meno attrezzate nella dura scuola della lotta per la vita. Si aggiunga che il danno arrecato dalla presenza umana, direttamente o indirettamente, si estende anche altre alle altre isole del gruppo: oltre all’isola maggiore, Robinson Crusoe (95 kmq. e 915 metri sul mare; fino al 1966 denominata semplicemente Mas a Tierra, cioè “più vicina alla terra”), ove sorge il villaggio di San Juan Bautista, vi sono la piccola e vicina isola di Santa Clara (5 kmq.) e la lontana isola di Alejandro Selkirk (85 kmq.  e  1.650 m.; già Mas a Fuera, anche nella variante Mas Afuera, ossia “più lontana dalla terra”), la cui vegetazione presenta già, a causa della notevole altitudine, alcuni carattere alpini (un tempo i botanici dicevano “subantartici” o “patagonici”) accanto a quelli tipicamente subtropicali o mediterranei delle zone costiere e delle valli inferiori.

Abbiamo già parlato di questo luogo eccezionale in un saggio piuttosto esteso, il più ampio esistente sull’argomento – a quel che ci risulta - in lingua italiana: Un santuario della natura unico al mondo: le Isole Juan Fernández, pubblicato parzialmente sul sito di Arianna Editrice il 11/01/2008, e integralmente sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 023/12/2017) e in alcuni altri articolo (fra i quali La flora sub-antartica di Mas a Fuera, pubblicato sulla rivista geografica Il Polo, Fermo, n. 1 del 1989, e sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 04/01/2018). Vogliamo tornare a parlarne a proposito di un piccolo uccello che abita nelle dense foreste di felci al di sopra degli 800 m. d’altezza, esclusivamente nell’isola di Mas a Fuera, il Rayadito, ossia “piccolo rigato” (in spagnolo rayado significa “rigato”) nome scientifico Aphrastura masafuerae, la cui popolazione è ridotta probabilmente a meno di 100 esemplari e quindi ormai vicinissimo all’estinzione. Eppure l’isola è, ed è sempre stata, pressoché disabitata. Solo nel 1909-13 il governo cileno fece un debole tentativo di colonizzarla, installandovi una colonia penale che, però, venne ben presto abbandonata. Attualmente l’isola è frequentata da una ventina di pescatori di aragoste provenienti dall’isola Robinson Crusoe, che però non vi soggiornano permanentemente, ma solo nella stagione di pesca, da ottobre a maggio (le stagioni dell’emisfero Sud sono rovesciate rispetto alle nostre). A ciò si aggiungano i pochi visitatori di spedizioni scientifiche, come quelle botaniche del prof. Federico Johow alla fine del 1800, o del prof. Carl Skottsberg nei primi due decenni del 1900, o il soggiorno solitario dello scrittore americano Jonathan Franzen, che ne ricavò il saggio Farther Away, nel 2012. Eppure, anche i radi visitatori, che si sono avvicendati per intervalli, talvolta, di interi decenni, sono stati capaci di provocare alterazioni impressionanti nell’ecosistema dell’isola. I navigatori del XVII e del XVIII secolo, per esempio - pirati e bucanieri che la usavano come base d’appoggio per le loro scorrerie contro le colonie spagnole della terraferma, e poi, nel XIX, cacciatori di foche che portarono le loro prede all’estinzione -, hanno introdotto la capra selvatica, e anche il cane, il quale si diffuse al punto che l’isola, un tempo, era nota come isla de los perros, “isola dei cani”. Le capre, poi, con la loro abilità nell’arrampicarsi anche nei luoghi più impervi – e Mas a Fuera è veramente un mondo impervio: immaginatevi una specie di frammento delle Dolomiti scagliato nel mezzo del Pacifico meridionale, con una costa che precipita al mare, a perpendicolo, con un solo balzo di oltre 1.500 metri, sul versante occidentale, e con delle valli strette e profondissime, separate da dorsali montuose di tipo prettamente alpino – arrivano a brucare le foglie degli alberi anche a una notevole altezza, e danneggiano la corteccia in un modo tale che la pianta finisce per morire.

Il caso del Rayadito è decisamente emblematico. Intanto, osserviamo che questo piccolo uccello dei Passeriformi, descritto dal naturalista tedesco-cileno Rodolfo Amando Philippi (1808-1904) e dall’ornitologo tedesco Christian Ludwig Landbeck (1807-1890) nel 1866, e dunque conosciuto dalla scienza da appena un secolo e mezzo, appartiene alla famiglia Furnaridae, genere Aphrastura, il quale è rappresentato da due sole specie in tutto il mondo. Stiamo parlando un grazioso uccello, estremamente piccolo, che si può tenere nel cavo di una mano, dal piumaggio marrone chiaro e che un profano dei nostri climi scambierebbe senz’altro per un comune passerotto, di quelli che si attirano spargendo le briciole sul davanzale della finestra, solo per godere della loro timida e fuggevole presenza e del loro rapido cinguettio. Oltre ad Aphrastura Masafueae, vi è un’altra specie, un poco più grande (quattordici centimetri, coda compresa), l’Aphrastura spinicauda, presente sulla terraferma cilena. Questa seconda specie, nota agli scienziati da molto prima, cioè dal 1789, non corre attualmente pericolo di estinzione: è diffusa su un’area molto vasta, che va dal 28° al 33° parallelo di latitudine Sud, anche se alcuni studiosi ipotizzano che la sua aera fosse ancora più ampia e che, un tempo, essa abbia incluso l’arcipelago delle Falkland/Malvine, nell’Atlantico, cioè oltre il versante opposto delle Ande meridionali. Il suo habitat sono le foreste temperate della fascia sub-andina occidentale, con un clima piovoso e piuttosto fresco, quasi freddo nella stagione invernale. Ma per quanto riguarda il Rayadito di Mas a Fuera, la situazione, da preoccupante, si è fatta addirittura drammatica: alcuni censimenti effettuati nel corso degli ultimi anni indicano una progressiva diminuzione, e ormai la specie è giunta a un punto di rarefazione da cui difficilmente si può tornare indietro, scongiurando il pericolo della estinzione definitiva e irreparabile. Il suo habitat è costituito dalle foreste umide delle zone montane, dominate dalla felce arborescente Dicksonia externa e dalla pianta di felce Lophosoria quadripinnata, la quale prospera fra 800 e 1.300 metri d’altitudine, ma con la tendenza ad abbassarsi durante a stagione invernale, che, come abbiamo detto, va da ottobre a maggio. Il piccolo Rayadito di Mas a Fuera vive in coppia e si nutre prevalentemente di artropodi; frequenta il sottobosco e lo strato di foglie cadute sul terreno, mentre nelle stazioni montane sopra i 1.200 metri nidifica in piccole fessure naturali fra le ricce, al riparo dai venti impetuosi che soffiano dal mare aperto.

Una stima effettuata negli anni ’80 del secolo trascorso ha valutato la presenza di un numero d’individui fra 500 e 1.000; ma nel 1992 la stima era scesa ad appena 200 esemplari, e dieci anni dopo, nel 2002, era ulteriormente scesa ad appena 140. Le cause di questo inesorabile, e ormai sempre più rapido, declino, sono da ricercarsi sia nel degrado complessivo dell’ambiente, provocato soprattutto dalle capre che scorrazzano ovunque e calpestano il terremo in ogni senso, spingendosi fin nei recessi più inaccessibili, ma anche nell’azione predatoria diretta, esercitata dai ratti e dai gatti selvatici. Lo studio fondamentale in materia è quello di Javier Gonzalez, dell’Istituto di Biochimica e di Biologia dell’Università di Potsdam, Philogenetic position of the most endangened Chilean bird: the Masafuera rayadito (Aphrastura masafuerae; Furnariidae), Tropical Conservation Science, vol. 7 (4), pp. 677-689 del 29/07/2014: uno studio splendido, estremamente dettagliato e completo, arricchito da una serie di grafici e da una vasta bibliografia ornitologica di circa 50 titoli, che fortunatamente è consultabile anche sulla rete (ma è necessaria la conoscenza della lingua inglese, perché il testo risulta troppo lungo per il traduttore automatico; il quale. comunque, come sa chi abbia un minimo di pratica in materia, non dà alcuna affidabilità di precisione, specie trattandosi di un testo a carattere scientifico).

L’autore calcola che il Rayadito di Mas a Fuera deve essere vissuto sull’isola per qualcosa come 600.000 anni, in perfetto isolamento dal resto del mondo, e ciò dà un’idea di quanto traumatico deve essere stato, per lui, il sovvertimento dell’habitat prodottosi negli ultimi quattro secoli, cioè in un tempo “brevissimo” in termini biologici. Si tratta di variazioni che un visitatore umano, specialmente se non è un botanico o un naturalista, fatica ad apprezzare ad occhio nudo, o meglio, probabilmente non riesce neppure a cogliere. Infatti quest’isola disabitata, che si eleva a perpendicolo sull’oceano e spinge la sua vetta fino a 1.650 metri d’altezza, non presenta segni evidenti dell’arrivo dell’uomo: a uno sguardo superficiale, la foresta può sembrare ancora pressoché intatta, e gli animali introdotti dall’uomo, e poi inselvatichiti, come cani e gatti, non sono poi così numerosi da attirare l’attenzione di un estraneo. Ma la verità è un’altra. I rovi e le erbe infestanti provenienti dall’esterno hanno profondamente modificato la struttura originaria della foresta, anche se la cosa può sfuggire a chi non abbia le necessarie conoscenze su come si presentava la vegetazione originaria; e la sostituzione del manto vegetale primevo con nuove specie, venute da tutt’altro ambiente, si ripercuote fatalmente su tutto l’ecosistema, a cominciare dai piccoli animali invertebrati che si nutrono d’insetti e dei quali si nutrono, a loro volta, gli uccelli. Ed ecco in che modo l’arrivo di semi di piante da terre lontane finisce per sconvolgere il delicatissimo equilibrio su cui si regge, da centinaia di migliaia di anni, la vita di un piccolo uccello, come il Radyadito. Ad ogni modo, rimandiamo a questo studio di Javier Gonzalez il lettore desideroso di maggiori informazioni: è un bel saggio di prosa scientifica ed è anche, purtroppo, l’occasione per una quantità di malinconiche riflessioni sui danni irreparabili che l’antropizzazione reca con sé, anche nel caso in cui sia estremamente moderata, perfino nelle zone più isolate e solitarie del pianeta. In pratica, l’uomo è in grado di causare l’estinzione di specie viventi anche in un’isola che non è mai stata abitata in modo permanente, solo per avervi introdotto alcuni animali e alcune piante, non sempre in maniera intenzionale. Una volta acclimatatisi e adattatisi al nuovo ambiente, questi nuovi arrivati conquistano rapidamente il territorio e, grazie alle loro superiori capacità di riprodursi, non lasciano scampo ai vecchi inquilini, il cui destino è stato segnato dal momento in cui la prima nave si è presentata davanti a quell’Eden sperduto: il che, nel caso delle Juan Fernández, si verificò nel 1563, ad opera dell’omonimo navigatore spagnolo. Dicevamo che gli abitanti dell’intero arcipelago, tutti concentrati sull’isola Robinson Crusoe, sono appena 629: precisamente, 364 uomini e 265 donne. Cristian Estades, un ornitologo dell’Università del Cile, afferma che la vicenda delle Isole Juan Fernandez è “un caso da manuale di come degradare un ecosistema”; e questo benché l’intero arcipelago sia stato dichiarato, fin dal 1977, Riserva della Biosfera dalle Nazioni Unite. Esso ospita attualmente almeno 137 specie di piante che non si trovano in alcun’altra parte del mondo, fra le quali la Dendroseris gigantea, un albero di cui si conosce un unico esemplare vivente: e ciò basterebbe a rendere l’idea di quanto sia prezioso e, nello steso tempo, delicato il sistema ecologico dell’arcipelago. Tra le specie in pericolo di estinzione si contano 49 specie di piante e 7 di uccelli, fra i quali ultimi va ricordato anche il Colibrì di Juan Fernandez, di cui pare resistano un migliaio d’individui (certo, un numero ben più consistente di quello cui è ridotto il Rayadito). Il governo cileno ha varato dei piani di salvataggio per tener lontane le specie estranee e aiutare quelle locali a riprendersi, ma ci vorrebbero delle somme molto più consistenti di quelle attualmente disponibili. Dovremo assistere alla silenziosa scomparsa del Rayadito, senza poter fare nulla per scongiurarla?