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Occidente in agonia: il ritorno del reale

di Giancarlo Cutrona - 05/03/2022

Occidente in agonia: il ritorno del reale

Fonte: Progetto syllabus

La favola dell'Occidente finirà. A dire il vero è già finita da un pezzo, ma troppo presi come siamo stati a cannibalizzare le ultime scorie di ilarità, gli ultimi echi di festoso prestigio e di presunta egemonia sul mondo, non ce ne siamo accorti. Non vogliamo ancora farlo.
E l’ostinazione è tale che persino l’attuale conflitto tra la Russia e l’Ucraina viene analizzato in tutte le direzioni possibili, salvo una, la più importante: la recessione agonizzante di tutti i simulacri votati al potere e il ritorno, in grande stile, del reale.  
Ma occorre essere più precisi: non vi è nessun conflitto. O almeno non nei termini e nelle condizioni in cui tutti lo immaginano e lo descrivono. C’è qualcosa di più grande che merita la nostra attenzione. Qualcosa che trascende la superficie dei fatti interpretabili e che ci porta dritti al cuore della questione. Ovvero questa: il fatto che non siamo davanti a uno scontro fratricida tra paesi un tempo uniti, né alle porte di un conflitto nucleare tra superpotenze. Ciò che il susseguirsi degli eventi dispiega davanti ai nostri occhi non è altro che questa “apocalisse ontologica” delle due entità in contrapposizione. La perentoria e definitiva resa dei conti tra il carattere reale dell’una (la Russia) e quello concretamente virtuale dell’altra (la NATO). È su questo terreno che infatti prende vita il gioco, che si delineano le sagome e i veri confini del conflitto in corso. Tutto è foriero di un segreto inconfessabile, premonitore di un nuovo inizio e di una nuova fine: il drastico ritorno del reale, con la sua violenza, con la sua forza, con la sua praxis micidiale, e l'incandescente declino del virtuale, della sua reputazione tragicamente inconsistente, della sua innocua potenza votata all’aleatorio e all’inoffensivo.
Se per Canetti “l’uomo nulla teme di più che essere toccato dall’ignoto”, noi potremmo dire, parafrasandolo, che l’Occidente nulla teme di più che di essere toccato dal reale. E se l’uomo può essere liberato da tale timore solo nella massa, anche l’Occidente, a sua volta, trova un corrispettivo, cioè il corrispettivo della massa, nella NATO: questa roccaforte artificiale il cui effetto apotropaico è però oggi giunto al capolinea.  
Nel concreto, c’è questo: tutte le azioni di “soft power” intraprese fin qui dall’Occidente non sono che espressione lampante di una paura più grande del conflitto stesso: la paura di morire. Il terrore di doversi mettere in gioco davvero, di andare in rotta di collisione con il reale e così facendo, assistere, in prima persona, all’agonia del virtuale. La matematica certezza di non saperci fare con la guerra vera, di non saper gestire la vendetta del reale, che ora torna dagli abissi della storia, come un boomerang, per fracassare le istanze politiche di chi è ancora appeso alla fuliggine di un mondo immaginario.
Si vis pacem, para veritas. È a questo che deve prepararsi l’Occidente. Questo è l’ineludibile bivio nel quale esso ora si trova. Ma cosa significa prepararsi alla verità? Significa innanzitutto andare a ritroso, tornare alle origini del tutto e riconsiderare il proprio posto nel mondo.
La NATO è stata fondata nel 1949 in chiave antisovietica, ma non si è mai misurata militarmente — nel senso classico del termine — né contro quest’ultima, né contro nessuna altra potenza reale, in un conflitto reale, propriamente detto. Tutte le volte che la si è vista all’opera è stato con potenze di quart’ordine, alla cui base, vi era sempre un drastico dislivello nei rapporti di forza. Nello specifico paesi il cui tessuto tecno-economico era assai precario rispetto a ogni singolo paese occidentale. Ciononostante, la storia di questa coalizione è una storia di insuccessi e concreti fallimenti sul cui bilancio umano, politico ed economico, pesano ingenti perdite. Si veda a tal proposito la storia dei Balcani e dell'Afghanistan. Ma non solo: tutto il Medio Oriente è attraversato da una lunga cicatrice che brucia ancora lungo i bordi di quelle lande vilipese.
Le “potenze europee” non combattono una guerra all’interno dei loro stessi confini dal 1945. Sono settantasette anni di inerzia e reputazione. Settantasette anni in cui, tra le altre cose, si è passati dall’analogico al digitale, dal reale al virtuale. E non è certo colpa dell’edonismo dilagante di questi anni (o almeno non solo quello) se l’occidentale medio ha più familiarità con un videogioco, che con un’arma da fuoco reale, delle esplosioni o del sangue reale.
Il fatto è che qualcuno gli ha venduto una narrazione mortale che lo ha indebolito sotto ogni punto di vista. Questo qualcuno gli ha fatto credere di vivere tra i giusti, nella parte più tecnologicamente avanzata del mondo, dove i forti si sarebbero presi cura di lui e della sua cultura.
Chi? Gli stessi che poi  l’hanno di fatto attaccata e distrutta in favore dell’indifferenziato universale. E per questo, oggi, delle nazioni occidentali non rimangono che nomi e bandiere prive di corrispondenza, di visione, di potenza, di principio di realtà. La stessa sorte pare sia toccata alle loro istituzioni, che col tempo hanno assunto sempre più la sembianza di un guscio d’uovo svuotato del suo contenuto originario. E così i loro governanti e i loro funzionari, volti e corpi senza funzione ora interscambiabili, ora sovrapponibili con la loro replica. Oggi, tuttavia, ci si confronta con lo specchio, con l’antitesi al di là del podio, che è brutalmente reale. In tal senso l’Italia rimane,  più di tutti, il paese-emblema: da tempo qui non vi è più il funzionario, il politico educato al realismo della guerra e della conoscenza geopolitica del mondo, ma il suo l’ologramma svuotato della sua funzione.
Su questa stessa cornice  è gemmata l’intera narrazione pandemica:
una guerra virtuale, mediatica, antiscientifica, il cui risultato finale è stato la messa in opera della più gigantesca e spettacolare operazione di simulazione bellica mai vista nella storia. Ma ecco che le bombe russe su Kiev sono, per quest’ultimi, un amaro risveglio. È l’effetto del reale che si vendica e crea voragini spaziali nelle nostre coscienze resettate, nel nostro immaginario virtuale. Questo sarà infatti il paradosso dei paradossi, la più mortale di tutte le circostanze: il fatto che la guerra raggiungerà il suo apice dal momento in cui il reale irromperà nel virtuale. Cioè quando il conflitto comincerà a viaggiare sui binari dell'informatico producendo un’ecatombe. Non le atomiche. Sono i codici informatici tutto ciò che più di ogni altra cosa bisognerà temere. Perché è dalla combinazione degli uni e degli zeri che nascerà l’arma letale capace di mettere in ginocchio interi quartieri, città, nazioni.