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Per una teoria della felicità

di Livio Cadè - 28/05/2023

Per una teoria della felicità

Fonte: EreticaMente

Felicità versus società
Pare pleonastico porsi domande sulla felicità. Perché desideriamo esser felici? Non c’è un motivo. È il desiderabile per definizione, senza ragione, anche se di fatto non serve a nulla. V’è un’aura di nobiltà nell’essere inutili, e certo è segno di libertà il non servire. Ma questi poetici valori non si conciliano con l’utilitarismo della nostra società. L’infelicità può stimolare le nostre energie, indirizzarle verso la ricerca e la costruzione di un mondo migliore. Una persona felice è appagata, perché dovrebbe lottare e darsi pena? Il regolare funzionamento sociale è assicurato quindi da gente che si sente infelice e che immagina di poter trovare nel futuro ciò che ora le manca.
La felicità è un mito, l’utopia che giustifica il nostro essere provvisoriamente infelici, l’orizzonte irraggiungibile verso cui tendere i nostri sforzi. È l’infelicità a far girare il mondo, l’olio che ne lubrifica gli ingranaggi. La gente felice serve a poco, non fa la guerra, non prende medicine, forse neppure crede ai mass-media. La politica perderebbe ogni ragion d’essere se sparisse un malessere generale cui promettere cambiamenti positivi a breve o medio termine. Perciò i governi si mobilitano per rendere la salute pubblica cagionevole, per alimentare lo stress, i sensi di colpa, le ansietà e le insoddisfazioni, l’odio verso qualcuno ecc. E se non fosse che è necessario salvare le apparenze, una legge vieterebbe già da tempo d’esser felici.
Anche l’economia prospera grazie all’infelicità della gente. Le persone serene non sentono il bisogno di comprare cose di cui non hanno bisogno. Questo atteggiamento contiene in germe la distruzione del mercato. Perciò tanti specialisti si preoccupano di creare in noi desideri e frustrazioni che possiamo placare solo seguendo i consigli della pubblicità. Una persona felice non potrebbe mai aderire al pensiero rovesciato tipico del nostro sistema consumistico, ovvero: imporci domande che nessuno si è posto per darci risposte che nessuno ha chiesto. Schema che per altro offre al nostro dolore un sollievo effimero: il momento beato dell’acquisto, il piacere caduco del possesso, una breve euforia e nulla più. Anche la felicità va regolata dal principio dell’obsolescenza programmata, affinché il consumatore torni rapidamente a essere infelice e a bramare altre cose inutili.
La felicità sarebbe fatale anche alla filosofia, alla psicologia e alla scienza, deleteria per la nostra ricerca intellettuale quanto lo è l’esser sani per l’industria farmaceutica. La felicità è inconscia, irrazionale, non incita all’introspezione. Come la salute, è silenziosa e discreta, non chiede che te ne curi. Ti accorgi di lei solo quando non c’è. È l’infelicità, come la malattia, che attira su di sé ogni attenzione, ci rende autocoscienti, ci costringe a interrogarci, a lambiccarci il cervello. L’infelice si scruta, si analizza, vuol capirsi, scoprire cause e rimedi. Questo arricchisce enormemente la conoscenza dell’uomo e del mondo. La felicità frenerebbe il progresso umano, che invece avanza trionfante sull’onda del nostro malcontento.
Ovviamente la felicità priverebbe della loro ragion d’essere anche le nostre istituzioni etiche e religiose. Se non vivessimo in una valle di lacrime, le varie religioni non potrebbero offrirci dottrine di salvezza, paradisi e consolanti aldilà. Come convincere a seguire un cammino di virtù, un’ascesi morale, chi è già contento del suo stato? Anche l’idea di raggiungere il dominio di sé, o d’essere iniziato a qualche esoterico potere, affascina solo chi si sente impotente e alla mercé delle cose. È sempre il dolore che ci pungola, che frusta il nostro cavallo e lo fa correre veloce. Se siamo quello che siamo, come individui e comunità, lo dobbiamo a questo tarlo che ci rode, all’ombra famelica, malinconica e ferita, che dentro ci tormenta. La felicità ci calma, ci fa sentir bene dove siamo, non indica mete da raggiungere.

L’istinto della felicità
Un’idea comune vuole che la felicità nasca dalla soddisfazione dei propri desideri. Questo presuppone che l’uomo desideri solo ciò che gli giova, il che è palesemente falso. Si dice infatti che quando vogliono punire un uomo gli Dei ne esaudiscano i desideri. Il problema è che non sappiamo a priori cosa ci renderà felici, ma solo a posteriori, e di solito per caso. Ciò nonostante facciamo a riguardo piani e progetti. Ma avendo da tempo perduto il nostro salutare istinto, i nostri desideri si ritorcono contro di noi. Di fatto, l’infelicità è una cosa che impariamo cercando d’esser felici.
Solo un neonato possiede ancora un’esatta conoscenza a priori di cosa lo rende felice. Il suo sapere è inconscio e immediato. Per esempio, quando è affamato non sa che gli serve il latte, ma un’intelligenza sublime lo guida. Perciò piange, simile a un uccellino che pigola e strilla. Entrambi, senza saperlo, hanno il presentimento che qualcuno potrà sentirli e sfamarli. Ed è meraviglioso che agiscano così senza aver nessuna idea di cosa significhi ‘qualcuno’. V’è in loro una certezza che non segue percorsi logici ma è incontaminato intuito (e forse, quando un uomo prega, ripete quegli istintivi lamenti di cuccioli).
Anche una volta attaccato al seno, il bambino si sente felice senza capire il perché. Non mette quella piacevole sensazione in relazione col capezzolo e il succhiare. Ma provando più volte i morsi della fame e il benessere della poppata si risveglia in lui un’idea di causalità e di relazione logica. Allora, nei suoi primi rudimentali sillogismi, intuisce che il pianto fa apparire qualcosa che lo sazia e lo conforta. Col tempo impara che è una mammella e che dietro la mammella c’è ‘qualcuno’. A quel punto può farsi un’idea razionale della sua felicità e del modo di raggiungerla. Si impegna così in un processo d’apprendimento sempre più problematico, perché i suoi bisogni si complicano, da semplici necessità fisiologiche evolvono in complessi appetiti simbolici.
In fondo quel bimbo che riposa sazio e felice nelle braccia della mamma sembra dar ragione a Lemesle, che diceva: “condizione indispensabile della felicità è una buona digestione”. E a ben vedere, il senso stesso della vita è legato alla nostra “digestione”. Tutto nasce da quella prima fame che chiede d’esser soddisfatta, che ci impone di prendere qualcosa fuori di noi e assimilarlo. Ci convinciamo così che la nostra felicità dipenda dal mondo esterno. Il bambino scopre pian piano nel latte, nella mammella e nella mamma delle realtà autonome, di cui non può disporre liberamente, a suo piacere, ma che può in qualche misura controllare. L’adulto trasferisce la stessa relazione su un’infinità di oggetti, sui quali proietta i suoi sogni.
Il neonato, che dapprima non deve far nulla per avere il latte – forse su questo si fonderanno un giorno le sue idee di ‘dono’ e di ‘grazia’ – dovrà in seguito imparare la dura legge dello sforzo e del baratto. Scacciato dal suo piccolo Eden, privato del ‘potere magico’ grazie al quale bastava volere una cosa per ottenerla, concepire un desiderio per vederlo realizzato, capisce che piangere non serve, che la felicità se la deve meritare, come risultato di una difficile equazione. Questo, che parrebbe renderlo sempre più indipendente e in grado di badare a sé, in realtà lo fa dipendere sempre più dal suo ambiente. La sua vita diviene il riflesso di utilità sociali, di convenienze economiche e politiche, di modelli, desideri e bisogni che altri scelgono per lui.

La ricerca della felicità
È logico che una società il cui l’infelicità è funzionale al ‘progresso’ sviluppi in sé una serie di contrappesi fisici e morali, pratici e ideali, che le evitino derive disperate. Chi è disperatamente infelice non produce, non combatte, gli viene a mancare quell’ottimismo della volontà che spinge l’umanità verso più grandi conquiste. Perciò, perché non affoghi nel suo brodo infelice, bisogna gettare alla gente un salvagente, cioè farle credere che è un suo diritto esser felice. Basta che tale privilegio risulti, nei fatti, perfettamente illusorio, formalizzato in un eudemonismo teorico. Esistono all’uopo numerosi esperti e manuali che coprono ogni settore della vita – spiritualità, sesso, vacanza, cucina, fitness ecc. – con una fitta rete di inutili consigli e ricette, segreti rivelati, iniziazioni alla felicità.
Questo enorme apparato pedagogico è fallimentare a priori, perché presuppone che la felicità sia un fenomeno volontario, come alzare un braccio. Quindi promette all’infelice che guarirà se compirà volontariamente un’azione che ha natura involontaria: il timido deve diventare impavido, l’ansioso deve restare calmo, l’avido deve accontentarsi, l’egoista non pensare a sé stesso ecc. Ma è come voler sollevare la sedia su cui si è seduti. Perciò, dopo vani sforzi, molti vi rinunciano. Ecco allora l’ultimo, surreale suggerimento: “devi accettarti come sei”, ovvero: “devi essere spontaneo”. Dopo aver seguito queste paradossali guide alla felicità ognuno si trova più frustrato, ansioso e infelice di prima.
Teoricamente, a me pare che la comune teoria della felicità sia viziata da tre pregiudizi fondamentali: 1) credere sia il possesso di qualcosa a renderci felici, 2) credere che esser felici richieda una correzione del carattere 3) credere che la felicità sia un particolare tono dell’umore. Si fa dipendere la felicità da un’operazione economica o psicologica, come fosse l’effetto di un adattamento a schemi sociali o religiosi, o un bene che le cose contengono in sé stesse, mentre è una qualità connaturata al nostro essere. Con ‘essere’ non intendo un’astrazione ma la nostra concreta coscienza, la nostra libertà, l’espressione di quell’energia spontanea che chiamiamo ‘amore’. Perciò la vera felicità sta nel sentirsi liberi e nell’applicare i nostri talenti a ciò che amiamo.

Felicità ontologica
La nostra società – alienante, servile, violenta – esprime quindi una lontananza dall’essere e il suo oblio. Ha cristallizzato il nostro sistema di vita in un demonismo negativo nel quale siamo tutti bloccati, di modo che anche chi lo contesta e ne denuncia le colpe ne assorbe e ne alimenta la negatività, spingendoci verso il non-essere. Ciò ha comportato di fatto una rimozione collettiva del senso della felicità – rimozione in senso freudiano, come qualcosa di disturbante che va nascosto alla coscienza – e prodotto le nostre nevrosi sociali, lavorative, familiari ecc. Questa consapevolezza negata è appunto la percezione del proprio essere, di una libertà fondamentale che obbedisce solo alla propria natura e che può trovare solo nell’amore la propria soddisfazione.
Il senso reale della felicità è oggi evacuato e ridotto a una banale convergenza col piacere e la soddisfazione del desiderio. Ma la felicità è presente anche nel dolore. Non perché ci allieti essere ridotti in miseria o messi a cuocere nel toro di Falaride. Occorre distinguere la felicità intesa come percezione di un vissuto positivo e variabile emotiva, da quella originaria beatitudine dell’essere (ananda, direbbe un indù) che ne forma il substrato, la sostanza. Potremmo paragonare quest’ultima a un fiume carsico, che per lunghi tratti scorre sotterraneo e invisibile agli occhi; a un sole che può esser coperto di nuvole; alla coscienza d’esistere, che nel sonno scompare. A quel bimbo che, una volta saziato, è felice perché torna a riposare nella fondamentale serenità del suo essere. Dissipate le nubi della fame, la sua calma luce interiore torna a irraggiare.
La percezione della felicità non dipende dunque dal mettere ma dal levare, come si tolgono le impurità all’oro o si ripulisce una perla dal fango. È un’acqua cristallina in cui possiamo specchiarci, finché qualcosa non la agita e la intorbida. Si dirà che ipotizzare questo puro e inalterabile fondamento non serve a esser felici. La felicità conserverà la sua nobile inutilità, la sua poetica libertà, mentre noi resteremo infelici senza poter mettervi rimedio. Non avremo niente di più che una teoria. Come passare dal lirismo delle parole al pragmatismo dei fatti? Fossimo neonati sapremmo esattamente cosa fare. Ma ormai l’abbiamo dimenticato, e forse ce ne ricorderemo solo quando saremo molto vecchi, col mondo ormai alle spalle. O forse ci serve la grazia di un Maestro.
Potremmo anche chiederci: se il nostro nucleo irradia felicità, perché la vita ci riserva tanti problemi e sofferenze? Perché soffriamo di infelicità acute e croniche? Se la nostra coscienza ha in sé una vocazione alla felicità perché non fa come il corpo, non ripara da sé i danni ai suoi organi e tessuti, non ritrova da sé gli equilibri delle sue funzioni, non mette in atto processi di auto-guarigione?
Forse perché s’è creata in noi una lontananza sempre più estesa tra il nostro io profondo, calmo come la profondità del mare, e l’io superficiale, in balìa di onde e correnti. Tutte le nostre istituzioni politiche, economiche, religiose, testimoniamo di questa radicale alienazione. Noi cerchiamo di riempire il vuoto con le cose, di sfamarci con le nostre illusioni, e questo ci rende sempre più futili, estranei a noi stessi. Cercare la felicità è dunque come cercare la strada che ci riporta a casa. Come direbbe Laozi, è una via piana e diritta, ma noi ci perdiamo tra sentieri tortuosi.

Per un’allegoria della felicità
La felicità somiglia a un uomo che vede una farfalla nel suo giardino. Cerca allora di catturarla con un retino da entomologo. Ma quella sfugge, vola via con rapide danze, si posa su qualche fiore lontano. Lui la insegue, la ritrova, la vede mentre tranquilla sugge il dolce nettare. Pensa sia ormai sua, un rapido movimento del braccio, la rete quasi l’avvolge. Ce l’ha fatta! No, eccola là, che scappa un’altra volta. E lui di nuovo a rincorrerla. Ma non ha ali, una legge greve lo inchioda al terreno, mentre lei volteggia liberamente nell’aria, dove non può raggiungerla. Corre, corre, finché esausto si ferma, le gambe stanche, affaticate da quei lunghi inseguimenti. Si siede e guarda l’orizzonte, dove il sole sta calando nell’incendio del tramonto. È lontano da casa. Lo sconforto lo assale mentre pensa a quella caccia infruttuosa.
E mentre ricorda i ripetuti fallimenti, la farfalla gli si posa sulla mano. L’uomo trattiene il respiro e la guarda. È bellissima nella sua livrea variopinta e vellutata. Potrebbe forse afferrarla. Forse è la sua ultima occasione. O gli sfuggirà ancora una volta? Ma perché catturarla? Per vederla rinsecchire dietro il vetro d’una teca, inchiodata a uno spillo? Meglio lasciarla libera, ammirarla senza volerne fare un triste trofeo. I suoi occhi si colmano di meraviglia. Mentre affannosamente le correva appresso non poteva contemplare i magnifici colori delle ali, distinguere gli eleganti disegni. Quanta grazia v’è in lei! La osserva in silenzio, rapito dal mistero di quella bellezza. Getta via il suo inutile retino. Poi distoglie lo sguardo, appagato, sapendo che è lì, posata sulla sua mano, come una carezza divina. Aspetterà finché scenderà la sera, o finché la farfalla riprenderà il suo volo. Poi tornerà a casa, senza rimpianti.