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René Girard, il capro espiatorio arma del potere (II)

di Roberto Pecchioli - 29/07/2025

René Girard, il capro espiatorio arma del potere (II)

Fonte: EreticaMente

Se l’imitazione, il desiderio mimetico, spiegano – nei termini esposti nella prima parte dell’elaborato – le motivazioni profonde di molte condotte individuali – rivelandosi elementi distintivi della psiche, la categoria di capro espiatorio descritta da René Girard fornisce un’ interpretazione della tendenza umana all’esclusione, all’identificazione di un nemico comune e al desiderio collettivo di punirlo con l’eliminazione, senza cercare di comprenderne le ragioni. “È criminale uccidere la vittima perché essa è sacra, ma la vittima non sarebbe sacra se non la si uccidesse”, osserva Girard. Questo circolo vizioso si incontra quando si esamina la realtà del sacrificio, il suo legame con la violenza e con la categoria rimossa del sacro. Il potere manipola la mente dei sudditi perché ne comprende i meccanismi e prepara il ritorno surrettizio del sacro nella forma della violenza esercitata sull’innocente, il capro espiatorio. Questi può essere il deviante, il diverso per razza, idea, visione della vita. Ogni epoca o situazione ha il suo : nel tempo pandemico è stato il no-vax o il negazionista, nella narrativa di guerra è il sostenitore di Putin, mentre il colpevole perfetto, multiuso per la vaghezza dell’accusa, è il fascista senza fascismo, ma anche il comunista in assenza di comunismo.

Insomma, capro espiatorio è chiunque a cui si possa applicare, in tempi di crisi o disordine, l’etichetta di vittima espiatoria, di reo a prescindere, il nemico pubblico da annientare per risolvere le tensioni della società, scaricare le colpe e canalizzare la violenza latente. Dicevamo che la vittima non deve essere davvero colpevole: è sufficiente che la sua identificazione ed eliminazione produca una conseguenza di pacificazione collettiva. “La vittima espiatoria è innocente ed il suo sacrificio ha l’effetto di ripristinare l’unità sociale. Da qui l’efficacia del meccanismo: permette alla violenza interna di trasformarsi in violenza esteriorizzata e controllata” La vittima rappresenta un’alterità: ciò che rompe l’egemonia simbolica, che non si adatta perfettamente, che mette in discussione – con la sua mera esistenza – la narrazione dominante. È la sua differenza, non la sua responsabilità, a renderla bersaglio. Più è innocente, più è utile per l’efficacia del rito di riconciliazione collettiva.

Rispetto al passato, oggi vi è una differenza cruciale: prima il processo era inconscio o istintivo, sostenuto dall’ autentica convinzione nella colpevolezza della vittima. La comunità non fingeva; era persuasa che il suo sacrificio fosse necessario per ristabilire l’ordine. Un sacrificio che non rispondeva a un capriccio ideologico, ma a una necessità: il meccanismo si attivava in contesti di crisi, quando la coesione del gruppo e perfino la sua sopravvivenza fisica erano in gioco. Fu proprio questa convinzione condivisa, alimentata dall’urgenza della situazione, a consentire al congegno psicosociale di svolgere la sua funzione di mantenimento o ristabilimento della pace e della coesione. Oggi, lo stesso impulso viene riproposto come risorsa politica senza la primitiva ingenuità e il legame con la necessità. Il processo è diventato consapevole: chi lo attiva – governanti, comunicatori, attivisti– lo fa per calcolo, fiducioso della sua efficacia dimostrata nel tempo.

Tuttavia oggi, affinché continui il gioco continui a funzionare, c’è bisogno di più di una vittima: serve una narrazione che giustifichi la designazione e le conferisca legittimità morale. Coloro che la seguono, la convalidano e la riproducono lo fanno per fede e per impulso, ma la credenza non nasce da sola: deve essere alimentata da un discorso che mascheri l’esercizio del potere nella forma vittimaria sotto le mentite spoglie di una giusta causa. Questo punto è decisivo: il processo di individuazione, stigmatizzazione, espulsione e punizione della vittima espiatoria non può più essere sostenuto dalla convinzione ingenua di ieri, né da un bisogno impellente. Il meccanismo del capro espiatorio non funziona da solo. Non basta puntare il dito contro i colpevoli funzionali; c’è la necessità di una narrativa che dia senso alle accuse, le colleghi a una visione morale del bene comune e permetta alla maggioranza, il cui sostegno simbolico è essenziale, di accettare e sostenere la scelta del potere.

La legittimità non si impone più: si costruisce. Il potere agisce sempre per interesse o per calcolo, però ha bisogno di una cornice narrativa (il frame, direbbe Marcello Foa) che assolva le sue azioni e le investa di una finalità morale; deve cioè inventare una struttura di significato che trasformi la manipolazione in giustizia e l’ interesse in redenzione comune. Qui entra in gioco la secolarizzazione della religione. Come sottolineava Alexandre Kojève, il cristianesimo non è scomparso del tutto: si è trasformato in ideologia immanente. Ciò che un tempo era proiettato nell’aldilà – la redenzione, il regno di Dio, il giudizio universale – viene trasferito nella storia. La rivoluzione è il tentativo di realizzare sulla terra ciò che un tempo si attendeva nel cielo: un passaggio dal trascendente all’immanente, dalla speranza escatologica alla promessa politica. Non si tratta più di salvare le anime, ma di liberare i popoli; non di obbedire alla legge divina, ma di riscrivere la legge umana in nome di una giustizia futura. La sinistra, in questa logica, eredita il messianismo cristiano e lo trasforma in un programma di azione storica che giustifica qualsiasi abuso, a partire dalla soppressione dell’Altro da Sé. Nella Genealogia della morale, Nietzsche denunciava che gli ideali egualitari moderni sono in fondo una continuazione degradata del cristianesimo, in cui il risentimento si maschera da compassione e giustizia. Il socialismo, affermava, è una morale servile che esalta la debolezza, condanna l’eccellenza e sogna una rigenerazione immanente, trasformando la lotta politica in religione secolare. La persistenza del capro espiatorio dimostra che la modernità ha prodotto una forma degradata di religione. La promessa di salvazione non è scomparsa: è stata spostata, secolarizzata e politicizzata. Continua a operare come orizzonte ultimo e giustificazione morale. Eric Voegelin parla di immanentizzazione dell’eschaton (il tempo ultimo), ossia lo spostamento della fine dei tempi nella storia, dal giudizio divino al verdetto rivoluzionario. Il trascendente viene sostituito da un assoluto umano, la salvezza dal progresso, la fede dall’ideologia. In definitiva, si tratta di uno gnosticismo politico che rimpiazza l’ordine trascendente con la salvezza immanente. La politica adotta una logica religiosa occulta, in cui tutto è subordinato a un fine ultimo che non ammette limiti né obiezioni. Lo compresero Donoso Cortés e Carl Schmitt: ogni categoria politica è un concetto teologico secolarizzato. La logica del capro espiatorio – ossia la cancellazione del deviante dopo la sua designazione a nemico – è passata dall’essere un atto inconscio a tattica di potere consapevole e strumentalizzata. Il quadro simbolico che la legittimava – il messianismo ereditato dal cristianesimo – ha seguito la strada opposta: ha smarrito il carattere religioso, ma continua ad agire in forma latente. Tuttavia questo residuo non si fonda su una metafisica trascendente, bensì su una sensibilità morale condivisa (o imposta), un emotivismo collettivo, un riflesso pavloviano di rimozione, sostituto della vecchia struttura teologica. Il religioso si dissolve nel secolare, conservando la logica del dogma. Questo permette di comprendere il tono messianico della politica contemporanea e alcuni suoi effetti inquietanti: la difesa acritica di narrazioni contraddittorie – dove la fedeltà emotiva sostituisce la verità – e la deriva relativista che, in nome di un’uguaglianza astratta, annulla ogni gerarchia tra culture, valori o istituzioni. Questo relativismo assolutizzato, lungi dal promuovere libertà, genera un clima in cui tutto è lecito purché riaffermi la narrazione dominante. Menzogne palesi, giustificazioni inverosimili e clamorose incongruenze non solo vengono tollerate, ma difese con veemenza, poiché è in gioco non la verità, ma l’appartenenza simbolica a una comunità di senso. La vittima espia la colpa di non essere come tutti gli altri, di mettere in discussione con la sua esistenza la narrativa dominante. E’ l’eretico che nega il dogma calato dall’alto. Il rogo diventa inevitabile, tra gli applausi dei credenti e l’indifferenza delle nuove tricoteuses, le donne che sferruzzavano impassibili durante le esecuzioni pubbliche della Rivoluzione Francese. E’ urgente smascherare il meccanismo – il merito storico di Girard – rivendicando il diritto a essere trattati come adulti nella sfera pubblica. Ciò implica la responsabilità di ascoltare ciò che non ci piace, nonché la capacità – e il diritto – di confrontare idee scomode o controverse con argomentazioni fondate, intrattenendo un dibattito senza censure e demonizzazioni. Dobbiamo esigere di essere riconosciuti capaci di giudizio autonomo, in grado di distinguere tra ragione ed emozione, fatti e manipolazioni, rendendo inservibile il meccanismo del capro espiatorio. La sua esistenza è anche una comoda semplificazione per allontanare dal merito dei problemi, dalla complessità e dal conflitto. Oggi vige l’assurda oicofobia – il rifiuto e l’avversione verso il proprio patrimonio culturale – che non è solo una forma di odio di sé – ma un impulso autodistruttivo teso a smantellare le fondamenta della società. Il falso capro espiatorio del presente – il colpevole da cancellare – diventa la civiltà nostra in quanto tale. Ma quale unità o legittimità ripristina il capro espiatorio che distrugge tutto, creduto (quando lo è) per stanchezza, assuefazione, negazione del confronto? Il capro espiatorio ideale postmoderno è chi nega l’uguaglianza astratta, l’equivalenza dei principi e dei valori, chi infrange il divieto di giudicare e di dissentire. Così concepito, non assolve più alcuna funzione, semmai anticipa la fine di quella società che il meccanismo intendeva preservare. Non tutti i principi meritano lo stesso rispetto, non tutte le indignazioni poggiano su fondamenta giuste. Il capro espiatorio, la vittima designata, è una categoria permanente dell’inganno del potere. Oggi il nemico pubblico è chi non condivide l’idolatria del presente, la superstizione del progresso, la fiducia cieca nella tecnica e nelle magnifiche sorti e progressive. Paradossalmente, nulla di più reazionario del ricorso al capro espiatorio, nulla di più illuminista del disvelamento del suo meccanismo. (fine)