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Strage di Bologna, la giustizia come arbitrio

di David Romoli - 11/04/2022

Strage di Bologna, la giustizia come arbitrio

Fonte: Il Riformista

Se un redivivo George Orwell si trovasse oggi a passeggiare per Bologna sfogliando qualche giornale sarebbe forse tentato di aggiungere un quarto principio ai tre già illustrati in 1984, “La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L’ignoranza è forza”. Suonerebbe più o meno così: “L’arbitrio è giustizia”. Lo scrittore scoprirebbe per esempio che la Corte d’Assise di Bologna, dopo aver condannato all’ergastolo Paolo Bellini come esecutore materiale della strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, ha inviato al pm i fascicoli di tre testimoni e di tre tecnici della Scientifica per valutare la possibile sussistenza di reati come la falsa testimonianza, la frode in processo penale e il depistaggio. L’uso di provare a far incriminare i testimoni della difesa non è nuovo. Era già stato adottato nel precedente procedimento contro Gilberto Cavallini: chi testimonia per la difesa nei processi per la strage deve stare in campana.
Più innovativo l’invio dei fascicoli dei tre tecnici. Sul banco degli imputati Bellini ci era finito grazie a una intercettazione nella quale il neofascista veneto Carlo Maria Maggi parlava di un “aviere” che portava la bomba. Il nastro era sporco, anche perché la conversazione si svolgeva di fronte alla tv accesa, e i mezzi a disposizione allora non permettevano di ripulirlo. Oggi lo si può fare e i tre tecnici della Scientifica si sono permessi di procedere scoprendo che la parola pronunciata da Maggi era “corriere”. Il problema, disserta la Corte, è che quei tecnici leggono i giornali, lo hanno anche ammesso! Dunque erano al corrente della “pista palestinese”, quella indicata tra gli altri dal presidente del consiglio all’epoca dei fatti Francesco Cossiga, che ipotizzava l’esplosione accidentale durante un trasporto. Per questo nella loro relazione, già severamente censurata dalla Corte per il solo fatto di aver provveduto senza richiesta a ripulire il nastro, affermano che la paroletta incriminata è “corriere”. Inutile dire che della relazione non si è di conseguenza tenuto alcun conto. Capita però che il nastro sia stato trasmesso anche dal Tg3 e chiunque, pur non sapendo niente di bombe, aviatori e trasporti d’esplosivo, può facilmente verificare che Maggi dice senza la minima ombra di dubbio “corriere”.
Se quella relazione non fosse stata cestinata, a carico di Bellini resterebbe una prova sola: il video girato da un turista tedesco il mattino della strage, Harold Polzer, nel quale si vede un uomo senza dubbio somigliante al Bellini di allora. La ex moglie dell’imputato, dopo aver a suo tempo escluso che si trattasse del coniuge, ha poi cambiato idea e assicurato che proprio di Bellini si tratta. Il ripensamento a distanza di decenni potrebbe destare qualche dubbio e così il rifiuto della donna di accettare il confronto in aula col marito, ma si sa, son cose che capitano. Quello che invece capita di rado è che spunti un altro video, più lungo e girato dalla troupe di Punto Radio Tv, nel quale si vede un uomo identico a quello immortalato poco prima dal filmino in super 8 del turista tedesco e vestito allo stesso modo, che si dà da fare, con tanto di paletta in mano per aiutare la polizia, come fosse un poliziotto o un vigile lui stesso, nel caos di fronte alla stazione. Del fotogramma tratto dal video del tedesco la Corte ha tenuto il debito conto. Del video della tv locale invece no.
Di elementi come questo, nel processo contro Bellini come in quelli contro Cavallini e prima ancora contro Mambro, Fioravanti, Ciavardini ce ne sono tanti da riempire un’enciclopedia. Le affermazioni del massimo esperto italiano di esplosivi, Danilo Coppe, perito del Tribunale e non della difesa, secondo cui la perizia sull’esplosivo è completamente sbagliata, il rifiuto di eseguire nuovi test del dna per accertare l’identità della donna senza nome letteralmente polverizzata dall’esplosione, dunque vicinissima all’ordigno, il disinteresse per la scoperta che nell’hotel di fronte alla stazione avevano pernottato due donne con documenti falsi provenienti da un partita adoperata in passato dal gruppo del terrorista Carlos sono solo alcuni degli ultimi elementi in ordine di tempo in questa rassegna ciclopica di come non si dovrebbe amministrare la giustizia.
Nel complesso, peraltro, le diverse sentenze sulla strage sfidano ogni logica e per accreditarle occorre portare la sospensione dell’incredulità a livelli record. Il gruppo condannato per aver organizzato la strage, gli ex Nar, non conosceva Bellini, non è neppure chiaro se fosse al corrente della sua esistenza e supposta presenza a Bologna. Tutto era stato organizzato con gelida e millimetrica precisione dai burattinai, che probabilmente le motivazioni della sentenza indicheranno in Licio Gelli, Umberto Ortolani e Federico Umberto D’Amato, i vertici della P2 e dei servizi segreti in ferale abbraccio. Sono stati indicati dalla procura sulla base di indizi che definire fatiscenti è pochissimo e che comunque non hanno potuto difendersi perché trapassati ma anche perché non è stato ritenuto opportuna dalla Corte la presenza di difensori in grado di confutare, anche solo a futura memoria, la pesantissima accusa. Però cosa ci stessero a fare i militanti dei Nar, che non avrebbero né depositato né consegnato a Bellini la bomba, quella mattina a Bologna non si capisce. Sembra che fossero accorsi sul luogo della mattanza per godersi lo spettacolo.
Chiedersi come sia possibile che una procura e una corte d’assise si comportino in questo modo è inevitabile e forse può correre in aiuto proprio Orwell. Gli slogan del socing, il socialismo inglese, in 1984 non erano solo sinistri giochi di parole. Nell’efferata logica di quel regime quegli slogan avevano un senso preciso e la guerra tra le tre superpotenze che si spartivano il mondo garantiva in effetti una sorta di pace. Non è escluso che i magistrati di Bologna siano sinceramente convinti che responsabili della strage siano i fascisti, forse non i Nar ma comunque qualche area neofascista, ma che purtroppo manchino le prove e sia necessario supplire come si può, trascurando gli elementi scomodi, accreditando quelli a favore della propria ipotesi pur se inconsistenti. L’arbitrio diventerebbe, secondo questa logica perversa, giustizia. Però no, chiamarla giustizia proprio non si può.