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Tecnologia e intelligenza artificiale a un bivio nella lotta tra distopia e utopia

di Massimo Cacciari - 17/11/2025

Tecnologia e intelligenza artificiale a un bivio nella lotta tra distopia e utopia

Fonte: La Stampa

I progressi nelle ricerche bio-mediche, così come quelli nel campo dell’Intelligenza Artificiale vòlti a produrre una “machina sapiens” indistinguibile, anche per l’empatia di cui è capace, dall’intelligenza umana, accrescono con drammatica rapidità la sproporzione tra la potenza del sistema Tecnico-economico e le forme istituzionali-politiche ancora proprie delle democrazie occidentali. In altri regimi tale sproporzione può non essere avvertita proprio perché la simbiosi tra Tecnica e Politica si è in essi già realizzata, chiudendo la “gabbia di acciaio”. La vocazione dello scienziato, che per Aristotele è l’espressione più alta della nostra natura, consiste nella pura volontà di conoscere. La scienza della natura è anzitutto teoria, scoprire e vedere la costituzione del vivente, osservarne le relazioni, descriverne l’energia. Ma sempre più, per poter spingere in profondità il proprio sguardo, lo scienziato avrà bisogno di mezzi, di sofisticati e costosi strumenti, la sua teoria dovrà collegarsi intimamente al progresso tecnologico, condizionarlo ed esserne condizionato. E il legame di quest’ultimo con il sistema sociale di produzione, con i meccanismi economici e di mercato, risulta così inevitabile. Non può più darsi alcuna astratta autonomia del lavoro scientifico. D’altra parte la stessa scienza contemporanea coniuga l’originaria vocazione al conoscere in quanto tale alla volontà di possedere e trasformare l’oggetto che si conosce così da renderlo utilitas per noi. Non dovremmo perciò considerare un destino che la scienza contemporanea, giunta a comprendere il funzionamento del nostro cervello, sede di affetti e intelligenza, e il suo legame con l’intero sistema neuro-vegetativo, desideri farne un proprio oggetto di manipolazione e trasformazione? Tutto ciò che nella sua storia essa ha compreso è stato così trattato e, per così dire, riprodotto. Come oggetto manipolabile a nostro arbitrio è stata la natura “esterna” a noi, così ora lo siamo noi stessi. Quali limiti si possono porre a interventi sul nostro patrimonio genetico? Quali limiti alla produzione dell’Homunculus che esce dal laboratorio del Faust goethiano? Oggi non ci sarebbe alcun ostacolo teorico, e penso pochi impedimenti tecnologici, per “creare” da cellule staminali opportunamente trattate e fecondate nuovi soggetti umani. Interventi per modificare caratteri secondari sono all’ordine del giorno e destinati a moltiplicarsi, ma al limite essi possono porsi fin d’ora il fine di “creare” una persona nuova. Possiamo sostenere, come molti sostengono, che questi interventi debbono avere il valore di cure, debbono limitarsi, cioè, al trattamento di specifiche malattie, altrimenti non affrontabili con uguale efficacia. Ma è evidente in quale ridda di problemi e aporie questa visione conduce. Che cos’è malattia? Quale autorità lo decide? Fin dove è lecito limitare il libero arbitrio di chi voglia ricorrere a tecniche di manipolazione genetica? Ma il problema sta ancora più a monte, ed è di natura culturale e politica. La sperimentazione in un campo di così immensa portata potrà subire intoppi e rallentamenti, l’esperienza storica tuttavia dimostra ad abbondanza che non potrà mai arrestarsi, in quel laboratorio globale che è ormai il mondo scientifico, e sempre da essa, se non fallisce, si passerà alle applicazioni. Questi passaggi da Ricerca a Sviluppo, sotto la spinta di formidabili interessi economici, avvengono oggi con una rapidità inimmaginabile nel passato.

Il mondo contemporaneo vive sospeso tra utopia e distopia, tra una possibile “felicità” e il più disumano orrore. Potremmo affrontare anche l’incurabile, come precipitare nella più mostruosa medicina di classe. Rendere un “bene- essere” la nostra esistenza sulla terra, come realizzare incubi eugenetici, sottomessi alla logica del profitto. L’intelligenza artificiale ha il potere di liberarci da ogni forma di lavoro meccanico e comandato, come quello di imporre un modello globale, uniforme di intelligenza, misurato in base alle sue prestazioni quantitativamente calcolabili e alla sua obbedienza al sistema. Proprio le scienze biologiche e mediche sono più di tutte di fronte a questo drammatico bivio: la capacità di aver cura della salute della persona nella sua integrità psico-fisica, di cui esse ora dispongono, viene ogni giorno più duramente attaccata da un modello organizzativo fondato sulla sostenibilità economica, che vede nel malato una macchina guasta e nel medico un applicatore di protocolli. L’universalità del diritto alla salute, conquista di un secolo di lotte sindacali, promossa anche da vasti settori di medici socialmente responsabili, va franando in proporzione opposta alla crescita dei saperi e alle concrete possibilità di cura che essi potrebbero offrire. La “solvibilità” diviene il carattere fondamentale che il malato deve presentare per essere curato in tempi ragionevoli. E comunque egli non sarà che un caso previsto negli archivi dei Big Data. La medicina a distanza, condotta essenzialmente da intelligenze artificiali, potrebbe concludere il processo. La “machina sapiens” che, dicono i suoi apologeti, giungerà a conoscerci meglio di quanto noi stessi ci conosciamo, sarà non solo la nostra guida di uomini schiacciati sulla dimensione economica e del consumo, ma anche il nostro medico. Non è però destino che la distopia si realizzi. Certo, tra le due strade che ci si presentano questa è la più facile. L’inerzia, ovvero le potenze tecnico-economiche fondamentali di questo tempo, spingono nella sua direzione. Ma possono esservi ancora scienziati e politici capaci di denunciare il pericolo, di opporre alla servitù che caratterizza le distopie (la fantascienza contemporanea ne è realistica rappresentazione) la utopia possibile, concreta della liberazione.