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L'auto di Chàvez

di Jean-Paul Damaggio - 21/04/2007

 
Al sud delle Americhe, le stazioni di servizio sono luoghi di riunione della gioventù il sabato sera. Con la musica della radio, la birra e altri stimolanti, si festeggia. In Venezuela, le stazioni di servizio riservano anche un'altra sorpresa: il basso costo dei carburanti. Il pieno, anche di un macchinone, costa solo un euro.
Questa situazione è dovuta alla potenza dei trasportatori privati che, da sempre, lottano contro l'installazione delle ferrovie. I trasportatori privati, approffitando dell richezza petrolifera del Venezuela, ne fanno il paese più povero in chilometri di ferrovia. Al di fuori della metro di Caracas, esistono solo 450 chilometri di ferrovie, in due linee, di cui una serve solo al trasporto di minerali e di ferro e l'altra ai viaggiatori che vanno da Puerto Cabello a Barquisimeto. Il venezuelano che mi fa il quadro dela situazione vota Chávez ma non lo sostiene totalmente. Vota Chávez perché ha mantenuto il progetto di treno Puerto Cabello-Caracas resistendo alla lobby del petrolio. Rispetto pero al progetto di otto mila chilometri di ferrovie in vent'anni, i progressi sono molto lenti.
Il basso costo del carburante stupisce anche i venezuelani che hanno vissuto all'estero. Uno di loro mi spiega: "Il Venezuela ha molto petrolio ma il carburante costa ai consumatori lo stesso prezzo che negli Stati uniti". Dove rimane più basso dell'Europa perché viene tassato pochissimo. Ma niente confusione, se nel paese di G. W. Bush, la macchina è al di sopra di Dio, in Venezuela il suo prezzo di acquisto rimane ben al di sopra della soglia di povertà. Sono molte le persone che nel paese riciclano i vecchi mostri a quattro ruote degli anni 1950 venuti dagli Usa: il costo del loro consumo rimane ridicolo, con dei motori quasi eterni. Ma il petrolio non lo sarà.
Bisogna auspicarsi un aumento del prezzo del carburante usato dai consumatori? Qualche anno fa, Chávez spiegò che il prezzo del barile dovrebbe essere tra i 20 e i 40 dollari. Venti dollari minimi perché i paesi produttori vi trovassero i loro benefici e 40 per non schiacciare i paesi poveri e senza oro nero. Da allora, il prezzo del barile gira piuttosto attorno ai sessanta dollari, e visto che la politica sociale della rivoluzione bolivariana si poggia sulle risorse del petrolio, la tendenza è all'aumento della produzione petrolifera. Dal 1998, il presidente Chávez ha deciso di portare avanti una politica a favore dei più poveri, ma la crescita del prezzo del petrolio non cambia nulla al meccanismo. Chi dice "più petrolio" dice "più scuole" e altri vantaggi sociali per i venezuelani, ma ciò significa nello stesso tempo più miseria laddove non sorge il petrolio. Chávez utilizza l'arma del petrolio come un mezzo di pressione politica sui paesi [come il Nicaragua] vendendo a basso prezzo carburante ai suoi amici politici. La costruzione di una nuova raffineria che deve servire anche per il Brasile fa discutere per le consequenze ambientali, ma anche perché colpisce direttamente le comunità indigene. Come non riprendere allora una formula propria della decrescita? "Non basta dividere diversamente la torta ma bisogna cambiarne del tutto la ricetta". Come non scoprire insomma che al di fuori di una gestione publica planetaria degli idrocarburi, il sistema intrappola la solita lotta progressista?
Per uscire dal dibattito attorno al "caso Chávez", prendiamo un altro esempio. L'uso capitalista della richezza petrolifera aveva portato la classe politica tradizionale a minimizzare l'agricoltura. La rivoluzione bolivariana rovesciò la tendenza favoreggiando una riforma agraria e il rifiuto degli Ogm. Purtroppo i contadini autentici si preoccupano oggi perché facendo entrare il Venezuela nel Mercosur, l'alleanza economica regionale, Chávez gli ha confusi. Il Mercosur comprende anche due paesi forti, Argentina e Brasile, che sono ormai avezzi all'uso degli Ogm. Come potranno resistere i contadini venezuelani? Il Mercosur è un'unione economica, come il nostro mercato comune, che il Brasile vuole usare per pesare di fronte agli Usa e all'Ue.
Ma le "politiche di integrazione economica" assomigliano a quello che incrociamo ovunque. Il vertice della Comunità sudamericana delle nazioni ha appena proposto 300 megaprogetti, per lo più infrastrutture stradali. I movimenti sociali gridano la loro rabbia, ma le grandi multinazionali pesano più dei popoli. A volte però i movimenti popolari impongono le loro rivendicazioni, compresi quelli che rifiutano ciò che le autorità chiamano "progresso", quando il progresso è disboscare l'Ammazzonia, costruire autostrade e lasciare i popoli nella miseria.
* Da La Décroissance, febbraio 2007