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Edith Piaf. “Passione e arte”

di Stenio Solinas - 30/04/2007

La ragazzina-passerotto era

questo mucchietto di ossa

e di carne che arrivava a

malapena al metro e mezzo,

due grandi occhi febbrili,

la fronte bombata, le

lunghe mani tenute nascoste

dietro la schiena, una voce che si alzava

cristallina e vigorosa e sembrava dovesse da

un momento all’altro schiantare quel fisico

più ridicolo che fragile, nato in tempo di

guerra e poi malamente cresciuto in una

Francia postbellica dove i «folli anni Venti»

artistici e mondani erano anche i «tragici

anni Venti» proletari e plebei, prostituzione e

miserie, alcolismo e violenza. Figlia di una

cantante di strada alcolizzata e tossicomane

e di un saltimbanco, cresciuta in un bordello,

tubercolotica e afflitta da una cheratite che

rischiò di trasformarsi in cecità perenne,

ragazza-madre dalla vita sessuale promiscua

e disordinata, amante di magnaccia da quattro

soldi, la Môme-Piaf, la ragazzina-passerotto,

appunto, a vent’anni ne dimostrava

quindici ed era divenuta famosa dalla sera

alla mattina. Quando morì, ne aveva quarantasette

ed era un rudere piegato dall’artrosi,

rovinato dalla morfina e dall’alcol, eppure

appena due anni prima aveva tenuto il suo

ultimo, trionfale concerto. Je ne regrette rien

era stato il motivo con il quale aveva salutato

il pubblico in delirio dell’Olympia di Parigi:

non rimpiango nulla, me me frego del

passato, ricomincio da zero. Un epitaffio, più

che una canzone.

Presentato allo scorso Festival di Berlino,

grande successo nei cinema di Francia, La

Môme arriva ora in Italia e raramente un tale

concentrato di miseria e di grandezza, genio

e sregolatezza, arte e business ha trovato sullo

schermo una figura così emblematica.

Perché Edith Piaf, all’anagrafe Edith Gassion,

primo nome d’arte Huguette Elias, fu il

volto e la voce di una certa Francia, un

impasto di vita e di cultura, passioni intellettuali

e sentimenti popolari, il gusto del cibo,

del vino e del sesso di una nazione che

affrontava la propria decadenza senza accorgersene,

fiera di una grandezza che era invece

già passata, incapace di accettare un ruolo

di secondo piano eppure costretta a doversi

misurare con esso. Sotto questo punto di

vista, la Seconda guerra mondiale, l’invasione

tedesca, la sconfitta, il Paese diviso in

due, il collaborazionismo, significarono la

fine delle illusioni da un lato, l’aggrapparsi

all’estrema illusione di una salvifica resurrezione

dall’altro. De Gaulle, il gaullismo, la

repubblica presidenziale e la «terza forza»

vengono da lì, e più di mezzo secolo dopo

sono ancora la chiave di volta per spiegare

una grandeur senza più grandezza, un’idea

lilipuziana di grande potenza nazionale in un

mondo globalizzato dove solo gli imperi

possono tracciare futuri percorribili.

Nel febbraio del 1936, all’epoca del Fronte

popolare, delle ferie pagate e delle prime

vacanze di massa, Edith ha vent’anni (era

nata il 19 dicembre del 1915, sui gradini di

un portone al numero 72 di rue Belleville...)

e al gala del Circo Medrano, organizzato in

memoria del clown Antonet e a sostegno

della sua vedova, ottiene il suo primo grande

successo di pubblico. Si esibisce con Mistinguett,

Fernandel, Maurice Chevalier, ha già

un disco all’attivo, L’etranger. Due mesi

dopo il suo protettore artistico, Louis Leplée,

viene abbattuto con un colpo di pistola alla

tempia, perché il mondo nel quale la môme

Piaf vive è questo qui, un demimonde ai

margini dove si campa con poco e si ammazza

per ancor meno, ripicche, soldi, gelosie,

semplici sgarbi, artisti più o meno falliti e

promesse, papponi e puttane, ladri e ubriaconi,

marinai e legionari in licenza, borghesi in

cerca di emozioni forti... È una prima, seria

battuta d’arresto, ma nel giro di un paio

d’anni è di nuovo in sella e l’A.B.C. dei

Grands Boulevards, il più famoso dei musichall

di Parigi, le apre le porte. Ha un nuovo

protettore artistico, ma questa volta è anche

il suo amante (il povero Leplée era omosessuale),

si chiama Raymond Asso, ed è lui a

trasformare la Piaf da cantante in icona,

costruendole canzoni su misura, rivedendone

il look, facendone un’interprete.

Il battesimo al nuovo corso lo dà Jean Cocteau,

che ha il genio delle pubbliche relazioni

e intuisce il talento quando esso è ignoto persino

al diretto interessato. «Guardate questo

piccolo essere le cui mani sono quelle della

lucertola delle pietre. Guardate la sua fronte

di Bonaparte, i suoi occhi di cieca che hanno

ritrovato la vista. Come farà a far uscire dal

suo petto minuto i grandi lamenti della notte?

Ed ecco che canta, o meglio, come l’usignolo

di aprile prova il suo canto d’amore.

Avete ascoltato questo lavorio dell’usignolo?

Soffre. Esita. Si schiarisce. Si strozza. Si lancia

e cade. E d’improvviso, trova la sua strada.

Vocalizza. Sconvolge».

Gli anni della guerra furono gli anni della

Piaf. Il film stende su questo un velo, come

del resto i francesi continuano a fare sul collaborazionismo

1940-1944 che rimane uno

dei misteri più raccontati, ma meno conosciuti

di Francia, l’essere andati a letto con il

nemico, spesso con reciproco piacere. Come

Arletty, come Maurice Chevalier, come

Charles Trenet, Edith continua a vivere e a

lavorare a Parigi, film, gala per i prigionieri,

per la Croce rossa, music-hall e cabaret per

gli ufficiali tedeschi e la buona borghesia cittadina.

Non è tradimento, amore per la Germania

o per Hitler, è la vita con i suoi compromessi

e le sue debolezze, le attese, le speranze

frustrate, la rabbia per la cecità politica

e l’incapacità militare... L’oleografia, la

Francia che ha sempre resistito, verrà dopo,

ma allora c’è questa nazione umiliata e offesa

che cerca di ritrovare un senso, di capire

come e perché sia andata a finire così, che

nonostante tutto vuole andare avanti. La

voce di questa Francia è la sua voce.

Grande spazio nel film ha la storia d’amore

con Marcel Cerdan, il francese di Algeria

campione del mondo dei pesi medi, che

morirà in un incidente aereo mentre è in volo

per raggiungerla. Un grande amore, certo,

ma basta leggere il libro di memorie della

sorellastra Simone Berteaut, la «mômone» la

ragazzetta che le sarà a fianco per trent’anni,

per comprendere come tutta la vita del «passerotto

» sarà un susseguirsi di storie sentimentali

brucianti e burrascose, la presenza di

un uomo come una necessità per chi si era

sempre sentita sola e aveva sempre temuto la

solitudine. L’elenco dei suoi amanti stilato da

Simone è interminabile e c’è spazio per tuti i

ceti e in fondo tutte le età: l’ultimo, Theo

Sarapo, avrebbe potuto essere suo figlio, ma

ce ne furono molti che avrebbero potuto farle

da padre. La morte impedì che anche quella

storia terminasse come le altre, perché poi

era sempre lei a porre fine a ogni relazione,

bulimica d’affetti com’era e sempre in cerca

del successivo e «definitivo» amore della sua

vita: e proprio l’idea che qualcun altro, qualcos’altro,

avesse deciso per lei, trasformò

quell’amore troncato in tragedia, espiazione,

volontà di annullamento.

In italiano manca nel film l’argot che fece di

Edith la beniamina dei suoi connazionali,

argot di cui è invece pieno il libro di memorie

della Berteaut. Amata dagli intellettuali,

la Piaf piaceva alla gente comune proprio per

questo suo incarnare la Parigi popolare dei

bal-musette e dei bistrot-à vin che ancora fra

le due guerre era una realtà e poi sarebbe

divenuta un nostalgico ricordo: una certa

ribalderia nell’esprimersi, il gusto della battuta,

la risata che esplodeva come un colpo

di cannone, il s’amuser fra amici davanti a

un’eau-de vie o a un cognac... La sua decadenza

fisica fu anche questo, un eccesso di

liquori, di sigarette, di notti che non finivano

mai, un fisico malnutrito da bambina e nutrito

male da grande... Il volume Passione e

arte (Baroni editore, 469 pagine, 50 euri) che

Angelo Giannecchini ha messo insieme

unendo l’amore per la cantante a quello del

collezionista di tutto ciò che la riguardava,

dà visivamente, attraverso una miriade di

foto poco note, ritagli di giornali, copertine

di dischi e di riviste, ritratti e locandine cinematografiche,

il senso di quella che fu una

vera e propria mutazione antropologica.

I quindici anni e poco più che separano la

fine della Seconda guerra mondiale dalla sua

scomparsa furono punteggiati di incidenti

d’auto, spesso per ubriachezza di chi era alla

guida, ricoveri per disintossicarsi, crisi di

panico e crisi cardiache, tentativi di suicidio,

operazioni chirurgiche, broncopolmoniti,

coma epatici, svenimenti in palcoscenico.

Specie gli ultimi furono una specie di suicidio

cercato, cantare fino a morire, eppure

cantare per non morire. Si sa, se a un passerotto

togli la voce...