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Il denaro non ha odore*

di Serge Latouche - 15/12/2005

Fonte: ariannaeditrice.it


 

Poiché suo figlio Tito gli rimproverava di aver avuto l’idea di tassare persino le urine,
gli mise sotto il naso la prima somma che gli fruttò tale imposta, chiedendogli se fosse
disturbato dall’odore, e alla risposta negativa di Tito, disse: “eppure è il prodotto
dell’urina”
Svetonio


E’ nota la famosa replica dell’imperatore Vespasiano al figlio Tito che gli rimproverava di fissare
un’imposta su quel prodotto impuro e nauseabondo che è l’urina umana, utilizzata a Roma dai conciatori.
“Pecunia non olet”, il denaro non puzza. E’ vero che i miasmi di ammoniaca non si ritrovano più nelle
monete sonanti e nei bei denari raccolti dal fisco, così come il sangue degli schiavi non macchiava gli
scudi accumulati dai negrieri di Bordeaux o di Nantes, né il sudore delle operaie alla catena di montaggio
delle fabbriche delocalizzate nel Sud-Est asiatico non gronda dalle banconote accumulate nei conti degli
amministratori delegati di Nike o di Adidas. In questo consiste del resto la meravigliosa alchimia
dell'”equivalente generale”; la sofferenza e l’ingiustizia non traspaiono dal luccichio dell’oro delle
Americhe e ancor meno dalla moneta elettronica.
Eppure, come per le mani di Lady Macbeth, tutti i profumi dell’Arabia riusciranno mai a far
sparire l’odore del sangue che emana dal cash?
Il numerario, neutro, anonimo, incolore, inodore e insapore degli economisti non può sfuggire a
un’incredibile esuberanza di “proiezioni” da parte dei popoli. L’oro, il “grumo di terra maledetta” di
Shakespeare si denomina in mille modi l’uno più immaginifico dell’altro.
Il colore del nostro denaro passa per tutte le sfumature dell’arcobaleno: dal denaro pulito che si
dà al denaro sporco della corruzione, passando per il rosso sangue dei denari di Giuda e per il nero dei
loschi traffici. Anche il suo peso varia da quello leggero che si riceve a quello che grava più o meno sui
nostri bilanci. Gli africani degli ambienti popolari gli attribuiscono addirittura temperature diverse.
Distinguono il denaro caldo e il denaro freddo. Il denaro che circola nell’ambito delle reti della società
informale si oppone alla moneta del bianco, esterna e astratta. Il primo, costituito in genere da monetine e
da biglietti di piccolo taglio (ma anche a volte da grosse mazzette) unte e bisunte, è annodato nelle pieghe
dell’abito tradizionale, nascosto e tirato fuori con cautela e reticenza, contato e ricontato con la speranza
di uno sconto. Il secondo è quello delle organizzazioni non governative (ONG), dell’assistenza tecnica, dei
poteri ufficiali e delle ditte transnazionali. Si cifra in milioni e si dilapida nell’astrattezza.
Sin dall’origine, il denaro che serviva per cominciare a pagare gli scambi con gli stranieri è
apatride, internazionale, se non mondiale. L’obolo (pezzo di rame che valeva mezzo denaro) in uso in
Francia fino al XVII secolo, viene dall’obelos greco attraverso l’obelus latino. La moneta attica, che
valeva un sesto di dracma, trae a sua volta il nome dalle spille di ferro o di rame che costituivano i primi
strumenti archeomonetari. I diirhams del Maghreb corrispondono sempre alla dracma di Alessandro, che
circolò in tutto il bacino mediterraneo e ben oltre, e che fu imitata maldestramente dai nostri avi galli.
Essa risale a quella degli ateniesi, contrassegnata dalla nottola di Minerva e fatta con l’argento delle
miniere del Laurion. Il dinaro algerino, da parte sua, rinvia al denaro d’oro romano che ha anch’esso più o
meno regnato sul mondo prima del dollaro… Quest’ultimo nasce dal tallero d’argento di Maria Teresa
d’Austria, coniato e utilizzato nel commercio africano in pratica fino ai nostri giorni. Deve a sua volta il
nome alle miniere di Joachimthal in Boemia.
Nonostante gli sforzi meritevoli e talvolta disperati degli economisti per affermare la neutralità
etica della moneta in virtù della sua pura funzionalità, i comuni mortali non si sono fatti ingannare. Se per
chi ne ha drammaticamente bisogno il denaro non è da disdegnare, la moneta che gli manca tanto è forse
“un velo”, ma un velo della violenza di cui è fatto oggetto nello scambio mercantile.
Non foss’altro che un “velo” delle relazioni reali, come affermano gli economisti ortodossi al
seguito di Jean-Baptiste Say (cosa di cui Keynes, grande lettore di Freud, ha fatto giustizia) la moneta
sarebbe nondimeno un testimone a carico dell’ingiustizia del nostro mondo. Essendo la misura (e la
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dismisura) dello scambio sociale, essa è al cuore del problema della giustizia. In essa si cristallizza tutta la
violenza esercitata dagli uni per spogliare gli altri delle loro opere e privarli della loro parte del mondo.
La moneta e il denaro condensano quindi la grande sfida della giustizia in economia nel mondo attuale.
Certo, questa sfida non è nuova, attraversa tutta la modernità, ma la globalizzazione dei mercati, cioè la
mercatizzazione generalizzata del mondo la spinge al parossismo. Il trionfo planetario del mercato totale
liquida, in effetti, ogni sopravvivenza delle morali ereditate, delle preoccupazioni etiche degli attori
sociali e delle deontologie professionali che facevano da contrappeso al regno assoluto della finanza.
L’attuale successo dell’etica sembra strettamente proporzionale al disprezzo in cui sono in concreto tenute
le sue regole.
L’ingiustizia “ordinaria”, insieme veicolata dal denaro e occultata dalla circolazione monetaria,
pone il delicato problema dell’etica nelle società moderne, poiché ogni intento di giustizia presuppone
una morale. Ora, in questo campo, ci si trova di fronte a un paradosso. La modernità prova ripugnanza per
l’etica mentre questa è onnipresente. La concezione profana del mondo si annuncia in Machiavelli che
sottrae l’arte della politica al discorso morale (se non moralizzatore) precedente per ancorarla
nell’osservazione concreta. Il progetto modernista di costruire una società sulla sola base della ragione
respinge, di fatto, l’eredità, la tradizione, la trascendenza e dunque il riferimento ai valori legati alla
religione. Ogni discorso esplicitamente morale sembra facilmente nostalgico di un mondo passato,
testimone del progetto medievale della costruzione di una città cristiana il più vicino possibile alla città di
dio. Per questo è condannato e respinto come oscurantista e reazionario. Ciò non vuol dire che siano
mancati tentativi grandiosi di rifondare una morale destinata alle nuove generazioni. Il protestantesimo,
l’agostinismo, il rousseauismo, Kant, Rawls, Dworkin e tanti altri attestano il contrario. Ma nel mondo
protestante dove avviene la maggior parte di questi tentativi, la morale da pubblica che era si restringe
nell’intimità segreta del privato e diventa l’etica. Una giustizia formale è definita dal rigoroso rispetto dei
contratti, mentre il precedente obbligo di carità scompare dall’orizzonte della vita sociale. La giustizia
risulterà così tagliata fuori dalla morale. In un paese di cultura cattolica la morale cerca di rinnovarsi al di
fuori della tradizione religiosa; una morale laica tenta anzi di fondarsi sulla scienza. E tuttavia, nonostante
questa invasione persistente della morale, l’essenziale si svolge altrove. Nella sfera del pensiero, la
scienza si preoccupa di mettere la morale al di fuori del suo campo e in quella della pratica gli affari sono
gli affari. Ora, gli affari sono sempre più la “grande questione”. Via via che l’economia si rende
autonoma, poi invade la totalità della vita, il campo della morale si restringe come una pelle di zigrino. Il
destino dell’utilitarismo è da questo punto di vista rivelatore. A prenderlo sul serio si tratta di una morale
propriamente sacrificale, terribilmente esigente. La più grande felicità della maggioranza implic a che la
collettività passi davanti all’individuo e che nel caso “i pochi” siano sacrificati ai più. Tuttavia, nel senso
volgare che si è maggiormente diffuso, quello di una “morale” dell’interesse, esso diffonde l’idea che io
sono solo giudice dei miei piaceri e che non devo farmi scrupolo di massimizzarli. Esso fa dell’egoismo il
principio stesso della vita sociale, giustificando in tal modo una sorta di “legge della giungla” senza fede
né legge appunto, che è il contrario di quel che tradizionalmente era considerato come la vita morale. E
questo, come vedremo, con la garanzia di Pangloss-Smith e di tutta la “scienza economica” successiva,
sicché tutto sarà per il meglio nel migliore dei mondi possibili! Il positivismo, l’economicismo, il
marxismo che presiederanno alla nascita delle scienze sociali e satureranno in buona misura l’ideologia
dominante dei tempi moderni faranno il possibile per escludere e delegittimare l’etica. I fatti che si pensa
parlino da soli, la storia il cui senso si impone a tutti e gli interessi bene intesi che compongono
un’armonia naturale realizzano una morale proprio mentre la rendono inutile. Il principe, diceva
Machiavelli, non chiama giusto ciò che è conforme all’insegnamento della morale tradizionale (cioè della
Chiesa) ma ciò che ha successo. Nella sua epoca del resto abbondano uomini di Stato che moltiplicano
impunemente i crimini e i tradimenti più vergognosi: i Visconti, i Medici, ma anche i re di Francia e di
Spagna. Grandi scellerati a giudicare in base alla morale che si raccomanda ai privati, essi contribuiscono
alla realizzazione di un grande disegno: costruire la società moderna. Da allora l’efficienza del reale è
razionale e giusta. La ragion di Stato, politica o economica che sia, traduce lo stato della ragione e
costituisce la Legge. Il fatto ha la meglio sul giusto, anzi se necessario lo istituisce. Dal canto loro, le
scienze sociali, per essere scienze, devono sbarazzasi completamente dei valori. E gli economisti, dal
canto loro, hanno ben appreso la lezione. Diventando la scienza del valore, l’economia liquida ogni
preoccupazione etica. Poiché ogni valore ha un prezzo e solo ciò che è mercantile merita considerazione,
non ci sono altri valori che quelli quotabili in Borsa. Essi aggiungono anzi senza pudore – ci torneremo –
un’apologetica dell’ordine naturale delle cose che nessun teologo avrebbe osato spingere tanto oltre.
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Il marxismo, su questo punto, rientra nel paradigma così delineato. Come l’economia politica
classica esso afferma che la società razionale realizza la morale e dunque non la rende più necessaria.
Nella società comunista non c’è più posto per il male. Il regno del bene si realizza senza che gli uomini
nuovi abbiano bisogno di imporsi regole severe, l’abbondanza permette a tutti di godere senza ostacolo. A
differenza della economia politica, questo risultato non si realizza sin d’ora grazie alla mano invisibile del
mercato e della concorrenza. L’impostura dell’angelismo liberale è denunciata, poiché il gioco economico
maschera la lotta delle classi e la guerra spietata di interessi antagonistici. Semplicemente, la storia si
incaricherà di risolvere queste contraddizioni. La classe operaia e/o la sua organizzazione (il partito)
faranno partorire la nuova società in gestazione nella vecchia. Compagna della religione, oppio del
popolo, la morale stabilita è denunciata come una invenzione della classe dominante per mantenere i
dominati nell’obbedienza e impedirne la rivolta. E ciò è in larga misura vero. Ancor oggi la morale serve
in gran parte a giustificare l’ingiustizia e a trasformare le vittime in colpevoli. Attraverso i discorsi
dominanti i disoccupati e i “sottosviluppati” sono considerati responsabili della loro sorte. La morale del
rivoluzionario, dal canto suo, è ancora un machiavellismo sacrificale tinto di economicismo. Non deve
farsi alcuno scrupolo per far trionfare la causa del proletariato. Il fine (la società senza classi) giustifica i
mezzi (sabotaggio, assassinio politico, provocazione, menzogna ecc.).
A questa liquidazione teorica della morale del liberalismo puro e duro e del marxismo
rivoluzionario fa eco la sua degenerazione pratica nel compromesso riformista. Lo Stato sociale creato
dalle socialdemocrazie, trasformando le aspirazioni sociali alla sicurezza in diritti, partecipa alla
“demoralizzazione” della società moderna. L’assistenza sociale che aveva perso la sua dimensione
religiosa originale perde la sua dimensione morale. Solo il diritto è giudicato compatibile con la dignità
del lavoratore. Nel momento in cui i lavoratori rinunciano (almeno provvisoriamente) a rovesciare
l’ordine capitalistico stabilito, pur restando abbastanza potenti da farsi temere e non aspettare un
miglioramento della loro condizione soltanto dalla generosità paternalistica del padrone, si organizza un
nuovo contratto sociale. Non si tratta tanto di eliminare l’ingiustizia eventuale del salariato quanto di
stabilizzare uno stato di fatto legato a un certo rapporto di forza, trasformandolo in stato di diritto. La
legislazione sociale permette al salariato di avvalersi delle leggi e dunque di esigere il dovuto. Si instaura
una giustizia sociale che non è più veramente alimentata da una morale unica. Forse una qualche morale
non è del tutto assente dalle visioni dei diversi partners sociali, ma le morali divergono e il compromesso
socialdemocratico non è il risultato dei valori comuni condivisi da tutti, borghesi e proletari. “Questo
venir meno della morale a profitto del diritto nella problematica politica – nota François Ewald – è
certamente uno degli elementi più importanti della storia contemporanea”.
Naturalmente, questo tentativo eroico della modernità di sostituire la moralità con il calcolo di
costi e ricavi fallisce. La preoccupazione assiologica in realtà è onnipresente e ci si potrebbe facilmente
dilungare sul paradosso di una morale del rifiuto della morale. Un fine conoscitore del pensiero
economico come François-Régis Mahieu lo riconosce. “In realtà difficilmente si può immaginare un
calcolo fuori norma, moralmente gratuito, che non comprende nemmeno i valori minimi di
individualismo o di egoismo che si trovano in economia. In realtà un calcolo puramente edonistico ‘farsi
piacere indipendentemente dalle norme’ è privo di senso”. Tuttavia il ritorno attuale dei “valori” non
riguarda soltanto questa morale “negativa” o “immorale” per difetto. La vita economica impone a tutti e a
ciascuno una lunga serie di sacrifici. I vincoli e gli obblighi di ogni natura sono permanenti. L’efficienza è
una divinità esigente che reclama tutte le energie, quelle degli operai come quelle dei padroni. Il credito
delle banche, delle imprese e dei commercianti, come quello degli Stati si basa sulla fiducia. Sebbene sia
impossibile introdurli nei contratti, la fedeltà, il dovere, l’onestà sono indispensabili al buon andamento
degli affari. Questa onnipresenza dell’etica si ritrova anche sul versante della “controsocietà”. Lungi dal
godere senza ostacolo, lo stesso rivoluzionario o le sue più recenti metamorfosi come il militante noglobal,
per esempio, danno prova all’occasione di una dedizione e di una abnegazione totali.
Non è il caso di stupirsi di questo paradosso, se si ricorda che il padre ufficiale della scienza
economica, Adam Smith, era innanzi tutto professore di morale fortemente influenzato dall’agostinismo
come tutta la tradizione scozzese. Dal canto loro i fondatori del positivismo, Claude-Henri de Saint-
Simon e Auguste Comte sono dei moralisti impenitenti. Essi giungono addirittura a rifondare una
religione dell’umanità per dare una solida base all’altruismo e alla solidarietà necessari alla vita in
società. Quanto a Karl Marx il suo afflato poetico si nutre della maledizione aristotelica e luterana
dell’economia. La sua opera è un anatema sulla ingiustizia del mondo. Soltanto che all’alienazione
religiosa con la quale la morale antica viene spesso identificata si è sostituita un’alienazione più perversa
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perché più insidiosa. Il problema del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, del rapporto con i valori
quali che essi siano (il bello, il vero, l’utile, l’onore, il coraggio…) non è affrontato in quanto tale in teoria
né assunto in pratica. La sua espulsione dal campo dell’economia, da una parte, e il domino
dell’economia sulla nostra vita, dall’altro, evidentemente non vi sono estranei.
Ultimo paradosso, la filosofia accademica, ultimo rifugio della morale, fa una requisitoria senza
appello contro l’economia ufficiale, ma nello stesso tempo non sottopone veramente alla riflessione tale
condanna. La maggior parte dei filosofi “continentali”, cioè non anglosassoni, ritengono che l’economia
mercantile o capitalistica sia per eccellenza il luogo dell’ingiustizia. E’ talmente evidente per loro che si
limitano ad accennarvi incidentalmente per passare subito ad altro, a cose dal loro punto di vista ben più
importanti e fondamentali, come la questione dell’essere, e soprattutto meno rischiose (in ogni caso per la
loro carriera o la loro reputazione…). Così è da Kant a Lévinas passando per Hegel e Heidegger. “I limiti
della moralità e dell’amor di sé – nota Kant in Kritik der praktischen Vernunft (1788) – sono segnati con
tanta chiarezza ed esattezza che anche il punto di vista più ordinario non può mancare di distinguere se
qualcosa appartiene all’uno o all’altro”. E prende come esempio di obbedienza all’amore di sé e di
flagrante immoralità un uomo di affari che assomiglia in tutto e per tutto a uno degli eroi del nostro tempo
(capo di Stato o d’impresa), insomma “un uomo attivo, instancabile, che non lascia passare alcuna
occasione senza trarne profitto” ma che “non esiterebbe a impiegare il denaro e i beni altrui come se
fossero di sua proprietà purché sappia di poterlo fare senza essere scoperto e senza incontrare ostacoli”.
Questo uomo poco scrupoloso per quel che riguarda i mezzi può tuttavia non essere un “egoista volgare”
e cercare soddisfazione “non accumulando denaro o abbandonandosi a una sensualità brutale, ma
estendendo le sue conoscenze, frequentando una società scelta di uomini colti e addirittura facendo del
bene agli indigenti”. Non è sicuro che questa “verità così manifesta” per Kant dell’immoralità di
quell’uomo sia evidente anche agli occhi dei nostri contemporanei, nella misura in cui non ne siano
direttamente vittime, poiché essi non esitano a rieleggere uomini politici notoriamente corrotti e a
plebiscitare uomini d’affari disonesti.
Emmanuel Lévinas, filosofo dell’etica per eccellenza, non è da meno.
Ma se la totalità comincia nell’ingiustizia (che non ignora la libertà altrui ma, nella transazione
economica, porta questa libertà al tradimento), l’ingiustizia non è ipso facto conosciuta come ingiustizia.
[…] Questa libertà mi è presentata già quando acquisto o sfrutto. Perché io conosca la mia ingiustizia –
perché io intraveda la possibilità della giustizia – ci vuole una situazione nuova: occorre che qualcuno mi
chieda dei conti.
A parte il caso di Marx (ma non è possibile considerarlo come un filosofo di professione) questi
filosofi si guardano bene dal dirci come uscire dalla flagrante ingiustizia economica, come tentare di
sfuggire a questa schiacciante “banalizzazione del male”. Quanto alla risposta marxista – l’abolizione del
sistema capitalistico mediante la rivoluzione – è noto ormai che essa non è soddisfacente né in teoria né in
pratica. Cacciata dalla porta, l’economia e la sua ingiustizia rientrano dalla finestra con un potere
accresciuto. Non basta in effetti denunciare la lotta di classe e la proprietà privata dei mezzi di
produzione. Se tutto ciò che struttura l’immaginario economico resta al suo posto – la credenza nel
progresso, il dominio della natura, il culto della razionalità – l’accumulazione del capitale, lo
sfruttamento, l’alienazione e dunque le ineguaglianze e l’ingiustizia si perpetuano in modo ancora più
feroce per certi aspetti sotto forme apparentemente modificate. Lo attestano le varie esperienze di
socialismi reali.
Quindi, l’etica e la morale lavorano una società mondializzata che a volte si presenta come del tutto
priva di legge (se non quella del mercato…). Il trionfo dell’economia e della finanza, con il suo emblema
falsamente innocente – il denaro – seppellisce l’inquietudine relativa ai valori solo per meglio tornare a
ossessionare la nostra vita quotidiana. E questo tanto più in quanto la crisi ecologica pone per la prima
volta e in modo drammatico per l’umanità il problema di una ripartizione equa delle quote di natura tra i
viventi e tra la nostra generazione e quelle future. Questa crisi è forse l’occasione di rimettere al suo posto
il problema della giustizia, cioè nel rapporto che intratteniamo con gli altri nello scambio sociale.
Noi rimproveriamo ai nostri genitori di averci lasciato in eredità un mondo devastato dalle guerre e dai
conflitti di ogni sorta, sporcato da un inquinamento insopportabile. Siamo responsabili di questo mondo
di fronte alle generazioni future. Sventuratamente se non facciamo niente, c’è da temere che
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semplicemente non ce ne siano più per rimproverarci se non della scomparsa del pianeta in ogni caso
della vita umana…
Importa dunque interrogarsi sul modo in cui si può portare rimedio alla ingiustizia del mondo. Come
ci si può aspettare, la soluzione deriva in gran parte dalla diagnosi. Non si tratta tanto di moralizzare
l’economia, né di infondere etica negli affari quanto di reintrodurre la considerazione della giustizia nel
rapporto sociale e nello scambio in società. A rigore, non è verso una economia giusta che ci si deve
orientare, poiché la stessa espressione “economia giusta” ha qualcosa di antinomico e va presa con
cautela, ma verso una società giusta. Questo cambiamento di rotta implica un vera e propria
decolonizzazione del nostro immaginario. Ripensare lo scambio al di fuori delle logiche economiche,
presuppone porsi il problema non solo del giusto prezzo e del giusto salario ma anche del ruolo dei
mercati e del denaro. La denuncia dell’integralismo del Mercato non significa tuttavia la liquidazione di
ogni forma di mercati concreti. C’è una riappropriazione concepibile e necessaria di quegli incontri in cui
si negoziano alcuni dei rapporti tra gli uomini. Lo stesso vale per il denaro. Misura della iniquità del
sistema mercantile, la moneta non potrebbe essere anche lo strumento di un commercio equo e solidale?
Una volta tolto dal suo piedistallo il vitello d’oro, non si potrebbe concepire una vera riconciliazione dei
cittadini con il denaro? E se invece di escludere in massa i perdenti di una grande lotteria infernale
funzionando come capitale, esso diventasse (o ridiventasse) un “facilitatore” dello scambio sociale e del
commercio in società. Senza necessariamente realizzare il sogno utopico di giustizia sulla terra, almeno
non sarebbe più lo strumento barbaro e anonimo di una ingiustizia meccanica, cumulativa e automatica.

 

*L’introduzione di Serge Latouche a Giustizia senza limiti. La sfida dell’etica in una economia
mondializzata, Bollati Boringhieri