Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il pensiero comunitarista

Il pensiero comunitarista

di Alain de Benoist - 05/11/2007

 

 

L’ideologia liberale ha in genere interpretato il fatto comunitario in stretta correlazione cori l’emergere della modernità: più il mondo moderno si costituisce in quanto tale, più si ritiene che i legami comunitari si dissolvano a favore di modalità di associazione maggiormente volontarie e contrattuali, di modalità di comportamento più individualistiche e più razionali. In quest’ottica, la comunità appare un fenomeno residuale, che le burocrazie istituzionali e i mercati globali sono destinati a sradicare e a disgregare. Ogni accentuazione del valore della comunità viene pertanto interpretata o come “sopravvivenza” conservatrice, testimonianza di un’epoca ormai chiusa, o come espressione di una nostalgia romantica ed utopica (sogno di una “vita semplice”, di un’”età .dell’oro”), o al contrario come richiamo ad una qualche forma di “collettivismo”. Connessa a questa visione è la convinzione che, in cambio dell’abbandono delle antiche comunità, le popolazioni godranno di maggiore libertà e benessere, destinati addirittura ad estendersi all’infinito, a condizione che la società si riorganizzi in forma razionale ed atomizzata. Tutta questa tematica ruota attorno ai concetti di progresso, ragione e individuo astratto.

Numerosi sono peraltro gli autori che hanno studiato il legame sociale con riferimento alla nozione di comunità, il più delle volte opposta a quella di società. La concettualizzazione dei termini Gemeinschaft, «comunità», e Gesellschaft, «società», è centrale per tutta la giovane sociologia tedesca di inizio secolo, a partire dal basilare lavoro di Ferdinand Tonnies, uscito nel 1887  1. Come è noto, Tonnies mette questi due concetti in relazione con due tipi distinti di volontà, la Wesenswille o «volontà essenziale», naturale e spontanea, e la Kiirwille o « volontà arbitraria », razionale e riflessa. Attenuando questo approccio, Martin Buber introduce nel 1900 una nuova distinzione tra l’antica «comunità di sangue» (Blutverwandtschaft) e la nuova «comunità scelta» (Wahlverwandschaft), mentre Max Weber utilizza il concetto di «comunitarizzazione» (o «comunalizzazione») per descrivere il processo di reciproco orientamento che si produce sotto l’effetto dei sentimenti comunitari fra membri di una determinata collettività politica. La medesima dicotomia è in parte espressa in Durkheim dalla contrapposizione concettuale tra solidarietà meccanica e solidarietà organica. Ne ritroviamo traccia nelle opere di Georg Simmel, di Helmuth Plessner 2, di Talcott Parsons ed anche di Louis Dumont, con la coppia olismo-individualismo. Questa contrapposizione è generalmente collocata all’interno di un approccio più diacronico che sincronico, Il tramonto della comunità è del resto uno dei temi preferiti dal pensiero degli intellettuali conservatori o reazionari che contribuirono a fondare la sociologia nel XIX secolo 3.

Più recentemente, tuttavia, i tre pilastri di questo approccio critico e “storicistico” al concetto di comunità hanno dato l’impressione di incrinarsi, Concretamente, l’ideologia del progresso sembra la più colpita, nella misura in cui le promesse di cui era portatrice non sono state mantenute. Lo choc prodotto dai totalitarismi del XX secolo, la nozione di limite imposta all’attenzione generale dalla diffusione dell’ecologismo, l’estensione apparentemente irresistibile della disoccupazione anche in periodo di crescita, l’insoddisfazione risultante dal fatto che il livello di vita promesso non è mai tanto elevato quanto sperano i più, e che per giunta l’agio materiale non fornisce di per sé alcun senso all’esistenza umana: tutti questi fenomeni fanno si che il futuro ispiri ormai più inquietudini che speranze 4. A questa crisi dell’ideologia del progresso se ne aggiunge un’altra, che tocca la ragione pura e l’individuo astratto. Non solo tutta la corrente postmodernista contesta l’onnipotenza della ragione, ma lo stesso Habermas respinge la nozione di ragione trascendentale così come la concepivano gli illuministi e tenta di farne una« cosa del mondo », obbligando l’ideologia della ragione a ridefinirsi in relazione alla finitezza umana, il che implica il riconoscimento della natura storica del soggetto conoscente5. (Da questo sforzo per “salvare” la ragione è nata la sua teoria dell’etica comunicativa). Derrida, dal canto suo, mostra che la ragione è incastrata nelle forme di vita e nell’incommensurabilità dei giochi linguistici. Non meno critico verso il razionalismo dei Lumi e quello che chiama il «pregiudizio contro i pregiudizi» è Hans Georg Gadamer. Respingendo nel contempo la dicotomia soggetto-oggetto e l’idea che la riflessione su se stessi possa trascendere il contesto storico-sociale, egli rompe con la classica contrapposizione tra ragione e pregiudizio, ragione e tradizione, ragione e autorità, ed afferma che la volontà di farla finita con i “pregiudizi” riflette a sua volta un pregiudizio fondamentale, nel quale risiede l’intera essenza dell’Illuminismo. Mostrando che la ragione non può essere intesa come ciò attraverso cui l’uomo si libera dal suo contesto storico-sociale, egli definisce i pregiudizi « legittimi » come giudizi preventivi destinati a facilitare la comprensione ermeneutica come modo primordiale della presenza umana nel mondo 6.

Vi è dunque una storicità della credenza, una contestualità della comprensione da cui non ci si può astrarre. E in effetti tutta una serie di dottrine e filosofie contemporanee mettono l’accento sulla contestualità di conoscenza e normatività, sia in un’ottica esplicitamente antiuniversalistica, sia in nome di un approccio pluralista, che peraltro inclina a volte verso il relativismo. Questa influenza sul «contesto» è già presente nelle critiche rivolte da Hegel (Fenomenologia dello spirito) alla filosofia morale di Kant, così come nelle obiezioni formulate da Dilthey alla filosofia hegeliana della storia. La ritroviamo inoltre in antropologi come Evans-Pritchard o Malinowski, nonché in fenomenologia con la nozione husserliana di Lebenswelt, nella filosofia analitica di un Searle con la nozione di background, o nel ruolo che Wittgenstein attribuisce ai « giochi linguistici ». Un principio analogo è presente nella filosofia delle scienze con le nozioni di « paradigma » (Kuhn), di «épistémè» (Michel Foucault) o di « universo simbolico » (Berger e Luckmann), e nella sociolinguistica con quella di « comunità di linguaggio ».

La dissoluzione delle antiche comunità era stata accelerata dalla nascita dello Stato nazionale, fenomeno societario (la società come perdita o disintegrazione dell’intimità comunitaria) che non a torto alcuni hanno posto in relazione con l’emergere dell’individuo come valore. Significativamente, e in una certa misura logicamente, la crisi del modello nazional-statuale fa oggi rinascere l’idea di comunità; ma questa idea assume un significato nuovo. Le comunità non associano più le persone semplicemente sulla base di un’origine comune o di caratteristiche teoricamente ereditate da ciascuno. In un mondo in cui si moltiplicano le tribù, i flussi e le reti, esse costituiscono ,; ormai gruppi di generi estremamente vari. La migliore definizione che se  ne può dare potrebbe ispirarsi a quella che Otto Bauer, capofila dell’austro-marxismo, respingendo tanto la concezione metafisica e reazionaria della ! nazione quanto la «concezione individualistica-atomistica della società», applicava alla nazione: «comunità di destino storico» e «prodotto mai finito, di un processo costantemente in corso»7. Parallelamente, il concetto di identità si ridispiega in una maniera che respinge i raggrinzimenti essenzialistici per assumere la forma di una narratologia aperta, di tipo fondamentalmente dialogico. La problematica comunitaria, infine, riveste un’acutezza nuova nel quadro di un’interrogazione sul pluralismo e sul “multiculturalismo” delle società contemporanee e nella prospettiva di un ritorno a piccole unità di vita collettiva che si sviluppano al di fuori dei grandi apparati istituzionali, burocratici o statali, i quali oggi non riescono più a svolgere il loro tradizionale ruolo di strutture d’integrazione. Sotto quest’ultimo aspetto, la comunità appare come il contesto naturale di una democrazia di prossimità democrazia organica, democrazia diretta, democrazia di base fondata su una partecipazione più attiva e sulla ricostruzione di nuovi spazi pubblici locali, e nel contempo come un modo per aver ragione della sfida fondamentale lanciata da questa fine secolo: «Come riuscire nella propria integrazione ed affermare la propria identità senza negare la diversità e la specificità delle diverse componenti» 8.

Imponendosi come una delle possibili forme di superamento della modernità, la comunità perde lo status « arcaico » che le era stato a lungo attribuito dalla sociologia. Più che come uno «stadio» della storia, che i tempi moderni avrebbero abolito, essa appare come una forma permanente di associazione umana che, a seconda delle epoche, vince o perde più o meno importanza. Già Max Weber aveva visto nella «comunità»e nella «società» degli idealtipi che coesistevano in proporzione variabile all’interno di ogni politica. Più vicino a noi, Jean-Luc Nancy ha avanzato l’ipotesi secondo cui la distinzione fra queste due nozioni sarebbe un effetto della modernità. La Gesellschaft non avrebbe tanto preso il posto della Gemeinschaft la quale da allora in poi esisterebbe solo a livello di « residuo » quanto piuttosto di uno stato sociale precedente a tale distinzione, corrispondente a quella universitas che Michael Oakeshott opponeva appunto alla societas 9. «La società», scrive Jean-Luc Nancy, «non si è creata sulla rovina di una comunità. Si è costituita grazie alla scomparsa o alla conservazione di ciò che tribù o imperi non aveva forse più rapporti con quel che noi chiamiamo “comunità” di quanti non ne avesse con quel che chiamiamo “società”. Cosicché la comunità, lungi dall’essere ciò che la società avrebbe rotto o perduto, è quel che ci capita domanda, attesa, evento, imperativo a partire dalla società. Nulla è dunque stato perduto, e per questo motivo nulla è perduto» 10. E ancora: «La comunità ci è data assieme all’essere e come l’essere, ben al di qua di tutti i nostri progetti, volontà ed imprese. In fondo, ci è impossibile perderla. La società può essere quanto meno comunitaria possibile, ma non può essere che nel deserto sociale non ci sia, infima o inaccessibile, un po’ di comunità» 11.

In questo contesto, abbozzato qui a grandi linee, bisogna collocare l’apparizione e lo sviluppo in Nord America, a partire dall’inizio dègli anni Ottanta, di un “movimento” in realtà di una corrente di pensiero filosofico, morale e politico, accompagnata da alcune cristallizzazioni concrete che ha già provocato oltre Atlantico innumerevoli dibattiti ma che l’Europa, sinora informata soprattutto sui suoi principali concorrenti, la corrente liberale (John Rawls, Ronald Dworkin) e quella libertarista (Robert Nozick, Murray Rothbard), sembra aver scoperto solo assai di recente: il “movimento” comunitarista 12.

 

 

La teoria liberale

 

Questo movimento intellettuale, lungi dal costituire un insieme unitario, si presenta piuttosto come una costellazione i cui tre principali rappresentanti, i filosofi Alasdair MacIntyre 13, Michael Sandel14 e Charles Taylor 15, rappresentano poli notevolmente differenti. Attorno ad essi (o alloro fianco) si può collocare una pleiade di autori isolati, le cui opere si richiamano a diverso titolo alla problematica comunitaria, come Roberto Mangabeira Unger, John Finnis, Mary Ann Glendon o Amitai Etzioni 16. In una terza cerchia, infine, potrebbero prendere posto autori come Robert N. Bellah e i suoi collaboratori 17 oppure Cristopher Lasch 18, i quali, senza richiamarsi direttamente al comunitarismo, si avvicinano almeno su certi punti alle loro preoccupazioni (critica del « narcisismo» in Cristopher Lasch, della «tirannia del mercato» in Bellah). Il caso di Michael Walzer, che a volte viene accomunato al punto di vista comunitarista, ci sembra dover essere messo a parte. Non si possono in compenso dissociare dalle opere dei comunitaristi i numerosi libri che sono stati sin qui loro dedicati 19.

« Il quesito centrale della filosofia politica: “quali sono i principi di associazione politica che è giusto stabilire?” è un quesito morale », scrive Charles Larmore 20. L’obiettivo del movimento comunitarista è proprio quello di enunciare una nuova teoria che combini strettamente filosofia morale e filosofia politica. Benché abbia ovviamente una portata più vasta, questa teoria è stata elaborata, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, da un lato con riferimento alla situazione particolare degli Stati Uniti, segnata da una vera e propria inflazione della politica dei “diritti”, dalla disgregazione delle strutture sociali, dalla crisi dello Stato assistenziale e dall’emergere della problema tic a “multiculturalista”, e dall’altro lato in reazione alla teoria politica liberale 21, riformulata nel corso del decennio precedente da autori come Ronald Dworkin, Bruce Ackerman e soprattutto John Rawls 22.

Questa teoria liberale si presenta in primo luogo come una teoria dei diritti, fondata su un’antropologia di tipo individualista. Come scrive SergeCristophe Kolm, «il liberalismo è un individualismo. La libertà alla quale si richiama è quella degli individui [...] Non solo l’individuo ne è il referente esplicativo, ma inoltre ciò a partire da cui esso spiega sono dei fatti determinati individuali (preferenze, ad esempio). L’individuo è dunque, per illiberalismo, l’entità legittima sia per la morale che per la scienza» 23. Erede di un nominalismo originariamente ostile agli “universali”, questo individualismo si presenta paradossalmente proprio nelle vesti di un universalismo (individual-universalismo) in virtù di un postulato di eguaglianza che si fonda su una definizione astratta degli agenti. Nell’ottica dell’« individualismo possessivo » (Macpherson), ogni individuo è considerato alla stregua di un agente morale autonomo, « proprietario assoluto delle proprie capacità » 24, che usa per soddisfare i desideri espressi dalle proprie scelte. L’ipotesi liberale è quella di un individuo separato, esistente come un tutto complesso in sé, che cerca di massimizzare i propri vantaggi operando scelte libere, volontarie e razionali, che non sono il prodotto delle influenze, delle esperienze, delle circostanze e delle norme connesse al contesto sociale e culturale. L’uomo si definisce pertanto come un consumatore di utilità dai bisogni illimitati.

Essendo la loro esIstenza quella di entità compiute in sé, gli individui traggono dalla propria natura autonoma dei diritti che la teoria liberale dichiara, in quanto tali, imprescrittibili ed inalienabili. Sono diritti «prepolitici», per la protezione dei quali gli individui possono decidere contrattualmente di uscire dallo «stato di natura» per «entrare» in una società che sarà esclusivamente frutto della loro azione. In questa prospettiva nessuna appartenenza può ovviamente rivestire una funzione costitutiva per l’individuo, perché ciò ne porrebbe a repentaglio l’autonomia: possono esistere solamente associazioni volontarie, contrattuali, che siano il risultato dalla volontà degli attori di perseguire nel migliore dei modi il proprio interesse. il carattere inalienabile dei diritti può essere sostenuto in diverse maniere: kantiana (Roger Pilon), lockiana (Friedrich A. Hayek), hobbesiana (Charles King, James M. Buchanan), “tomista” (Ayn Rand, Douglas B. Rasmussen). I libertarians arrivano al punto di parlare di «priorità ontologica» dei diritti sulle preferenze, con ciò intendendo che i diritti non potrebbero essere alienati neppure se i titolari si dimostrassero d’accordo sostenendo di poterne trarre un incremento del loro benessere, della loro felicità o della loro soddisfazione. In ogni caso, questi diritti vengono intesi come delle “carte” (trumps) che ciascuno ha a disposizione, la cui presa in considerazione deve prevalere su qualsiasi altra argomentazione. Questo approccio rivela che fra i diritti liberali e i doveri non vi è alcuna simmetria, poiché i diritti discendono da una natura umana che non ha bisogno degli altri per esistere: l’uomo ha dei diritti già allo stato di natura ed ha dei doveri soltanto allo stato sociale; i diritti sono completi in sé, mentre i doveri sono per definizione incompleti. Se ne deduce che lo stesso obbligo morale è puramente contrattuale (e che si colloca sempre nel solco dell’interesse personale del contraente), e che la società ha sempre più doveri verso gli individui (a partire dal dovere di garantirne i diritti) di quanti costoro non ne abbiano nei suoi confronti.

L’importanza assegnata ai diritti spiega il carattere “imperativo” e deontologico (nel senso kantiano del termine) della morale liberale: la teoria liberale pone il giusto (right) prima del bene (good) e fa discendere dal giusto un certo numero di obblighi categorici che vincolano incondizionatamente tutti gli attori, qualunque possano esserne gli impegni, le appartenenze o le caratteristiche particolari. Per gli Antichi, a cominciare da Platone e Aristotele, la morale è invece «attrattiva» e teleologica: non consiste in doveri categorici, bensì nell’esercizio della virtù. Essa fa parte di un’autorealizzazione verso la quale gli uomini si sentono attratti a causa del loro stesso telos. il bene (la «vita buona») è pertanto prioritario, e l’azione giusta si definisce come quella che è conforme a quel bene. La discussione sulla priorità del giusto o del bene è oggi centrale nel dibattito filosofico.. politico e morale americano 25. Richiamando la celebre opera The Methods of Ethics di Henry Sidgwick, che fu uno dei primi ad avviare questo dibattito 26, Charles Larmore precisa che« il valore etico può essere definito o da ciò che si impone all’attore, quali che siano i suoi auspici o desideri, o da ciò che l’attore effettivamente vorrebbe se fosse sufficientemente informato di quel che desidera.

Nel primo caso è fondamentale il concetto di giusto, nel secondo il concetto di bene. Ovviamente ogni teoria fa uso anche dell’altra nozione, ma la spiega in riferimento alla nozione che considera principale. Se è fondamentale il giusto, il bene sarà quel che l’attore desidera o desidererebbe nella misura in cui i suoi atti e i suoi desideri sono conformi alle esigenze dell’obbligo. Il bene è dunque l’oggetto del desiderio giusto. Se il bene è fondamentale, il giusto sarà ciò che si deve fare per ottenere quel che effettivamente si vorrebbe se si fosse correttamente informati» 27.

Contestata da Hume, Schopenhauer, Hegel (e più di recente da Elizabeth Anscombe e Philippa Foot), la priorità del giusto sul bene si manifesta apertamente in John Stuart Mill e in Kant, partendo da radici ereditate da alcuni filoni della teologia cristiana della fine del Medioevo, in particolare dal nominalismo di Guglielmo di Ockam. Se la giustizia si fondasse su una concezione singolare del bene, ciò si tradurrebbe, secondo Stuart Mill, nell’imposizione di certe preferenze a taluni cittadini, il che ostacolerebbe la ricerca dell’utilità, e secondo Kant nell’asservimento degli individui all’irrazionalità, dal momento che nessuna concezione del bene può essere oggetto di un consenso fondato sulla ragione. Per Kant, la sola cosa incondizionatamente buona è la buona volontà, cioè la disposizione d’animo che ci spinge ad agire in accordo con il principio morale, indipendentemente da qualsiasi idea di autorealizzazione. È questa l’idea di una priorità del giusto sul bene che viene ripresa dalla teoria liberale moderna. John Rawls, ad esempio, nel momento in cui cerca di staccare il progetto kantiano dal suo retroterra idealistico, fondato sulla concezione trascendentale del soggetto (da cui il suo ricorso alla finzione metodica della «posizione originale»), definisce la giustizia «virtù primaria delle istituzioni sociali»: il giusto si costituisce di per sé, sotto l’effetto della volontà di giustizia, e non in conformità ad una qualsivoglia idea di bene (il bene non essendo altro che la «soddisfazione del desiderio razionale» manifestato dalla persona morale). «Il concetto di giustizia», aggiunge Rawls, «è indipendente dal concetto di bene ed anteriore ad esso, nel senso che i suoi principi limitano le concezioni del bene autorizzate»28. Ritroviamo la medesima idea in Robert Nozick, Bruce Ackerman e Ronald Dworkin. Il legame fra il primato del giusto e la concezione liberale dei diritti appare perciò evidente. Discendendo dalla « natura » degli attori e non dai loro meriti o dalle loro virtù, che sono semplicemente attributi contingenti della loro personalità, i diritti possono dipendere soltanto da un concetto astratto di giustizia, non da una concezione preordinata del bene o della vita buona. In riferimento a questi diritti, il giusto prevale sul bene in due maniere: per importanza (i diritti individuali non possono mai essere sacrificati al bene comune) e da un punto di vista concettuale (i principi di giustizia che specificano tali diritti non possono essere fondati su una concezione particolare del bene). Rawls scrive pertanto che «ogni persona possiede un’inviolabilità fondata sulla giustizia che non può essere trasgredita, neanche in nome del benessere della società nel suo insieme» 29. La dignità individuale costituisce quindi un assoluto che non può essere sacrificato per dei presunti vantaggi sociali o per un qualsiasi interesse generale o bene comune. Sulla stessa falsariga Robert Nozick afferma che «non esiste alcuna entità sociale il cui bene sia tale da giustificare un sacrificio in sé. Esistono solamente degli individui, individui differenti, che conducono vite individuali» 30. La critica del concetto di bene comune si collega dunque in questo ambito all’antropologia individualistica: la società non è altro che un’addizione di individui, cioè di atomi sociali separati.

«Quel che giustifica i diritti», constata Michael J. Sandel, «non è che essi permettono di massimizzare il benessere generale o di promuovere il bene, ma che costituiscono un contesto equo all’interno del quale gli individui e i gruppi possono scegliere i propri valori e i propri fini, sino a quando tale scelta rimane compatibile con l’eguale libertà degli altri» 31.

Il primato del giusto sul bene è infine direttamente legato alla teoria secondo cui lo Stato deve restare neutro rispetto agli scopi, teoria che si ritrova, in forme diverse, nella maggior parte degli autori liberali. Bruce Douglass descrive ad esempio la società liberale come quella che « non si pronuncia su ciò che i cittadini devono essere, fare o credere» 32. Ronald Dworkin afferma che una società di questo genere non deve adottare «alcuna particolare veduta positiva sulla finalità dell’esistenza» 33. Robert Nozick prende a sua volta posizione per un governo «scrupolosamente neutrale nei confronti dei cittadini», mentre Charles Larmore reputa che questo postulato di neutralità «è senza dubbio quello che meglio descriverà la concezione morale minima del liberalismo» 34. La giustificazione di questa teoria assume in genere due forme diverse. Da un lato si afferma che nessuno sa meglio dell’individuo dove risieda il suo vero interesse; dall’altro si sottolinea la frammentazione sociale esistente per trame la conclusione che i membri di una società non potranno mai trovarsi d’accordo su una concezione particolare del bene. La prima argomentazione deriva dalla visione kantiana dell’autonomia come elemento fondante della dignità umana, vale a dire dell’eguale capacità di ciascuno di determinare liberamente i propri fini: ogni concezione particolare della vita buona, ossia ogni modo di vita concreto che implichi una struttura specifica di attività, di significati e di scopi deve essere vista come qualcosa di puramente contingente, perché, se essa fosse costitutiva dell’io (self), l’individuo non potrebbe compiere liberamente le proprie scelte innalzandosi al di sopra delle circostanze empiriche. Ne risulta che l’io è sempre preesistente ai suoi scopi. Questa priorità dell’io rispetto ai fini significa che non si è mai definiti dagli impegni o dalle appartenenze; anzi, da essi si può sempre essere distaccati quanto basta per determinare liberamente le proprie scelte, cosa possibile appunto solo se l’individuo viene visto come un essere separato. Tale modo di vedere si esprime nell’idea di uno Stato concepito come «contesto neutro» 35. «Dal punto di vista dell’etica fondata sui diritti», scrive Michael J. Sandel, «proprio poiché siamo essenzialmente degli individui {selves} indipendenti e separati abbiamo bisogno di un contesto neutro, di un contesto di diritti che rifiuti di prendere posizione fra fini ed obiettivi concorrenti. Se l’individuo (self) preesiste ai suoi scopi, allora il giusto deve preesistere al bene» 36.

La seconda argomentazione si richiama al concetto di pluralismo e all’idea dell’impossibilità di stabilire un accordo che permetta di prendere posizione fra le concezioni rivali del bene. Se ne deduce che, in una società pluralista, uno Stato che si identificasse in una concezione della vita buona piuttosto che in un’altra, o la privilegiasse rispetto alle altre, compirebbe una discriminazione fra i cittadini che aderiscono a quella concezione e gli altri, e di conseguenza non sarebbe più capace di trattare tutti i membri di una società come eguali. Essendo impossibile dire oggettivamente e razionalmente quale sia la “migliore” concezione della vita buona, nessuna comunità politica liberale può essere fondata su un’idea particolare del bene comune 37. Simmetricamente, non si richiede alcun accordo sulla natura del bene s’intanto che i componenti della società convengono sulla priorità del diritto di ciascuno ad operare liberamente le proprie scelte in maniera compatibile con la libertà degli altri. Il compito dello Stato non è quindi quello di rendere i cittadini virtuosi o di promuovere fini particolari, o ancora di proporre una concezione sostanziale della vita buona, ma solo di garantire le fondamentali libertà politiche e civili {corrispondenti al primo principio di Rawls, al quale i libertarians aggiungono il diritto di proprietà} in modo tale che ciascuno possa perseguire liberamente gli scopi che si è fissato in relazione alla concezione del bene che gli è propria; cosa che è possibile solo a condizione di adottare dei principi che non presuppongono alcuna concezione particolare del bene 38. Lo Stato deve rispettare la molteplicità delle dottrine « comprendenti » {globali} e dei sistemi di valori sino a quando essi si rivelano compatibili con i suoi principi di giustizia 39, e limitarsi ad applicare delle regole morali derivate dalla ragione comune senza prendere posizione fra le concezioni concorrenti del bene. I suoi valori debbono rimanere puramente procedurali, onde consentire la coesistenza concorrenziale di quelle diverse concezioni, impedendo nel contempo che l’uso che gli uni fanno -, della loro libertà nuoccia all’eguale capacità degli altri di fare altrettanto, Questo scopo procedurale, aggiungono i libertarians, non corrisponde assolutamente ad uno scopo determinato, ma costituisce semplicemente il contesto al cui interno possono essere effettuate le scelte individuali 40. «In altri termini», osserva Sandel, «ciò che fa sì che una società sia giusta nell’ottica liberale non è il suo telos, né l’obiettivo né il fine verso il quale essa potrebbe tendere, bensì il suo rifiuto di scegliere preventivamente fra scopi ed obiettivi rivali» 41. La conseguenza di questa teoria della «neutralità» dello Stato, legata per definizione all’idea di governo limitato e alla distinzione tra sfera pubblica e sfera privata, è una visione puramente strumentale del politico: il politico non è portatore di alcuna dimensione etica, nel senso che non è possibile esigere né promuovere in suo nome una qualunque concezione del bene comune.

 

La critica comunitarista

Dinanzi a questa teoria, il punto di partenza della critica comunitarista è innanzitutto di ordine sociologico ed empirico. Osservando le società contemporanee, i comunitaristi constatano la dissoluzione del legame sociale, lo sradicamento delle identità collettive, la crescita degli egoismi e la generalizzazione del non-senso che ne risulta. Questi fenomeni, a loro avviso, sono altrettanti effetti di una filosofia politica che provoca l’atomizzazione sociale legittimando la ricerca del maggior interesse da parte di ciascun individuo, facendogli considerare l’altro come un rivale, se non come un potenziale nemico; che difende una concezione antistorica e disincarnata del soggetto, senza accorgersi che gli impegni e le appartenenze degli attori sono anch’essi elementi costitutivi della loro personalità (self); che provoca, richiamandosi ad un universalismo astratto, l’oblio delle tradizioni e l’erosione dei modi di vita differenziati; che, con Rawls, nella società vede soltanto una «impresa cooperativa fondata sul mutuo vantaggio» e nega l’esistenza del bene comune 42; che, col pretesto della «neutralità», generalizza lo scetticismo morale; e che, in maniera più generale, rimane, a causa dei suoi principi, necessariamente insensibile ai concetti di appartenenza, valori comuni e destino condiviso.

Seguendo AIlen E. Buchanan e Stephen Holmes, è possibile redigere una . lista abbastanza precisa dei rimproveri che i comunitaristi rivolgono al liberalismo, rimproveri a volte limitati alla sola filosofia politica liberale, a volte estesi ad una concezione più generale («individualistica») dell’uomo e della società 43. Possiamo elencarli come segue. Il liberalismo trascura e fa scomparire le comunità, che sono un elemento fondamentale ed insostituibile dell’esistenza umana. Svaluta la vita politica considerando l’associazione politica un semplice bene strumentale, senza accorgersi che la partecipazione dei cittadini alla comunità politica è un bene intrinseco costitutivo della vita buona. È incapace, quando non li nega, di rendere conto in modo soddisfacente di un certo numero di obblighi e di impegni, come quelli che non sono il risultato di una scelta volontaria o di un impegno contrattuale, ad esempio gli obblighi familiari, la necessità di servire il proprio paese o di far passare il bene comune prima dell’interesse personale. Propaga una concezione erronea dell’io rifiutando di ammettere che esso è sempre “incastrato” (embedded) in un contesto storico-sociale e, almeno in parte, costituito da valori ed impegni che non sono né oggetto di una scelta né revocabili a volontà. Suscita un’inflazione della politica dei diritti, che non ha più granché a che vedere con il diritto (reclamare i propri diritti significa ormai soltanto cercare di massimizzare i propri interessi a detrimento degli altri), ma produce un nuovo tipo di membro della società, l’«individualista dipendente» (Fred Siegel), e nel contempo un nuovo tipo di sistema istituzionale, la «repubblica procedurale» (Michael J. Sandel). Esalta a torto la giustizia; come la «prima virtù delle istituzioni sociali», invece di scorgervi un palliativo che ha soltanto una «virtù riparatoria» (remedial virtue) e si impone soprattutto quando le virtù comunitarie fanno difetto 44. Infine ignora, a causa del suo formalismo giuridico, il ruolo centrale svolto dalla lingua, dalla cultura, dai costumi, dalle pratiche e dai valori condivisi, come basi di una vera «politica di riconoscimento» delle identità e dei diritti collettivi.

Per i comunitaristi, l’uomo si definisce quindi prima di tutto come un «animale politico e sociale» (Tommaso d’Aquino). Di conseguenza l’eguaglianza è definita non come ciò che resta dell’individuo una volta che si è fatto scomparire tutto quello che lo ricollega ad un contesto socio-storico! determinato, bensì come ciò che risulta dalla libera espressione delle identità situate e costituite all’interno di questo contesto. I diritti non sono attributi universali e astratti, prodotti da una “natura” distinta dallo stato sociale ed in grado di formare da soli un ambito autonomo, bensì l’espressione dei valori propri a collettività o a gruppi differenziati (il diritto di un individuo i a parlare la propria lingua è indissociabile dal diritto all’esistenza del gruppo che la pratica), nonché il riflesso di una teoria più generale dell’azione morale o della virtù. La giustizia si confonde con l’adozione di un tipo di esistenza (la vita buona) improntato ai concetti di solidarietà, di reciprocità e di bene comune. La “neutralità” di cui si vanta lo Stato liberale viene considerata o disastrosa per le sue conseguenze o, più in generale, illusoria, giacché rimanda implicitamente ad una concezione individuale del bene che non ha il coraggio di dichiararsi tale.

Sul piano del metodo intellettuale, il punto di vista comunitarista pare avvicinarsi a volte all’ermeneutica, che insiste sul modo in cui i fatti sociali sono sempre “costruiti” al termine di un processo di interpretazione, a volte a certi autori della Scuola di Francoforte (principalmente Adorno), o al pragmatismo di un Richard Rorty, per il suo « costruzionismo sociale » e per l’importanza che egli conferisce al concetto di solidarietà 45. Sulla scia di Hegel (Charles Taylor), i comunitaristi rifiutano il primato del giusto sul bene e la rappresentazione degli individui come agenti morali autonomi. Richiamandosi ad Aristotele (AIasdair MacIntyre), essi affermano che non si può organizzare una determinata comunità politica senza un riferimento a fini e obiettivi comuni, e che nessuno può concepirsi senza definirsi in primo luogo come cittadino.

Non esamineremo in questa sede i diversi aspetti di questa critica, per quanto concerne la questione dei diritti e il problema dell’« anarchia morale » (MacIntyre), la «politica di riconoscimento» e la questione dell’identità (Charles Taylor) o il dibattito sulla «neutralità» dello Stato e la tesi della priorità del giusto. Insisteremo invece su un aspetto importante di questa critica, ancora poco studiato: la teoria dell’io (se/j) così come è formulata nell’opera di Michael J. Sandel.

Il comunitarismo si situa chiaramente in una prospettiva «olista», per riprendere un termine introdotto nell’uso da Louis Dumont che i libertaristi americani presentano generalmente come un «antimoderno» 46. La sua critica della filosofia liberale del soggetto si concentra quindi prima di tutto sull’individualismo. Il liberalismo definisce l’individuo come ciò che resta del soggetto una volta che lo si è spogliato di tutte le determinazioni personali, culturali, sociali e storiche, in altre parole dopo che lo si è enucleato dalla sua comunità 47. Esso postula per un altro verso l’autosufficienza degli individui nei confronti della società e sostiene che costoro perseguono il proprio interesse compiendo scelte libere e razionali senza che il contesto storico-sociale nel quale lo fanno pesi sulla loro capacità di esercitare i loro « poteri morali », cioè di scegliere una particolare concezione della vita buona. Per sostenere questa concezione del soggetto, i liberali sono quindi tenuti a considerare contingente o trascurabile tutto ciò che è inerente all’appartenenza, al ruolo sociale, al contesto culturale, alle pratiche e ai significati condivisi: quando “entra” in società, l’individuo non impegna mai la totalità del proprio essere ma solamente la parte di sé che esprime la sua volontà razionale. Secondo i comunitaristi, viceversa, un’idea «presociale» dell’io è semplicemente impensabile: l’individuo trova sempre la società già esistente ed è essa a dare ordine ai suoi referenti, a plasmare la sua maniera di stare al mondo e i suoi punti di vista 48. Sandel insiste sul modo in cui i liberali esagerano la capacità del soggetto di prendere le distanze rispetto ai ruoli che gli competono. Anche Charles Taylor sottolinea che l’io non è mai posto a confronto con la società come qualcosa di estraneo, e che la capacità di compiere scelte del soggetto può svilupparsi unicamente all’interno di un determinato contesto socioculturale.

Dal punto di vista liberale, questa “decontestualizzazione” del soggetto è il fondamento della sua libertà. Gli individui hanno desideri diversi; ogni principio derivato da tali desideri non può dunque essere che contingente. La legge morale, però, esige un fondamento categorico, non contingente. Anche un desiderio così universale come la felicità non può servire da fondamento, perché l’idea che ci se ne fa è estremamente variabile. Per questo motivo Kant fonda tutto il suo sistema sull’idea di libertà nelle relazioni fra gli esseri. Il giusto, dice, non ha niente a che vedere con il fine che gli uomini hanno per natura o con i mezzi che permettono di conseguire tale fine. Il suo fondamento deve pertanto essere cercato a monte di ogni fine empirico, nella fatti specie nel soggetto capace di volontà autonoma: il fondamento dell’azione morale è l’essere razionale stesso, e questo essere non è mai un essere in quanto persona particolare, bensì in quanto partecipe della pura ragion pratica, vale a dire in quanto soggetto trascendentale. «Ma che cosa mi garantisce», si chiede Sandel, «che io sono un soggetto del genere, capace di richiamarsi alla pura ragion pratica? Ebbene, parlando in termini stretti, niente me lo garantisce: il soggetto trascendentale non è che una possibilità. Ma è una possibilità che sono tenuto a postulare se intendo considerarmi un agente morale libero. Se fossi soltanto un essere totalmente empirico, non potrei infatti essere libero, giacché l’esercizio della mia volontà sarebbe sempre condizionato dal mio desiderio di un qualche oggetto. Tutte le mie scelte sarebbero scelte eteronome, sottomesse al perseguimento di un determinato fine. La mia volontà non potrebbe mai essere una causa prima ma solo la conseguenza di qualche causa anteriore, lo strumento di un qualsiasi impulso o inclinazione [...] L’idea di un soggetto posto anteriormente ed indipendentemente dall’esperienza, cosi come esige la morale kantiana, appare dunque non solo possibile ma indispensabile, è un presupposto necessario alla possibilità della libertà [...] Solo se la mia identità non è mai legata agli obiettivi e agli interessi che posso avere in ogni momento, io posso pensarmi come un attore capace di compiere le proprie scelte in maniera libera e indipendente» 49. Ora, per i comunitaristi, questa libertà «moderna» libertà «negativa», come dice Isaiah Berlin 50 -, nella misura stessa in cui si presenta come indipendente da ogni determinazione, ha tutte le probabilità di essere non solo formale 51 ma anche priva di senso. «Una libertà completa », scrive Taylor, « sarebbe uno spazio vuoto nel quale niente avrebbe valore, niente varrebbe alcunché» 52. Ogni volontà di subordinare la totalità dei presupposti della nostra situazione sociale al nostro potere di autodeterminazione razionale si scontra infatti con il fatto che l’esigenza di libera determinazione di sé è a sua volta indeterminata: essa «non può fornire alcun contenuto ai nostri atti al di fuori della situazione che ci assegna degli scopi, e cosi facendo dà una forma alla nostra razionalità e un’ispirazione alla nostra creatività» 53. «Immaginare una persona incapace di attaccamenti costitutivi», conclude Sandel, «non significa concepire un agente idealmente libero e razionale, bensì immaginare una persona totalmente sprovvista di carattere e profondità morale» 54.

La concezione liberale dell’io presuppone altresì che l’universo sia vuoto di senso. «Legata all’idea di un individuo (sel/) separato», scrive Sandel, si trova la visione dell’universo morale che quell’individuo deve incarnare. Contrariamente alle concezioni greca classica e medievale cristiana, l’universo della morale deontologica è un luogo privo di qualsiasi significato intrinseco, è un mondo “disincantato”, per riprendere il termine di Max Weber, cioè un modo privo di un ordine morale oggettivo. Solo in un universo privo di qualunque telos, come se lo rappresentavano la scienza e la filosofia del XVII secolo, è infatti possibile concepire un soggetto indipendente e precedente rispetto ai suoi obiettivi e ai suoi fini [...] Quando né la natura né il cosmos consentono di cogliere o comprendere un ordine dotato di senso, spetta ai soggetti umani costruirsi da soli dei significati» 55.

Anche la «posizione originale» di Rawls presuppone l’immagine «sgombra» (unencumbered) di un io spogliato di tutti i suoi attributi contingenti e dotato di una sorta di status sovraempirico. Essa si basa inoltre sull’idea di una distanza permanente fra i valori che si hanno e la persona che si è. Nella concezione liberale dell’io, spiega Sandel, dire che io posseggo la tale o la talaltra caratteristica significa evidentemente, da un lato, che quella caratteristica è mia e non di un altro, ma anche che esiste comunque una certa distanza fra essa e me: è mia ma non è me. Ne risulta che se perdo quella caratteristica rimango comunque la stessa persona. In quest’ ottica, il comportamento “razionale” sarà quello che mi porterà a ragionare senza tener conto di tutte le caratteristiche che sono mie senza per questo essere me. È ciò che vuoI dire John Rawls quando afferma che l’io è anteriore ai fini che si dà: la relazione fra l’io e i suoi fini è determinata unicamente dalla scelta che l’individuo fa dei suoi fini. « Nessun ruolo, nessun impegno può definirmi a tal punto che mi sia impossibile capirmi senza di esso. Nessun progetto può essermi tanto essenziale da far si che distogliermene possa mettere in discussione la persona che sono. Per l’io sgombro, ciò che conta al di sopra di ogni altra cosa, ciò che è più essenziale per le nostre persone, non sono i fini che scegliamo ma la nostra capacità di sceglierli» 56. Il soggetto, in tal modo, si vede rifiutare ogni possibilità di essere legato ad una comunità da impegni precedenti alle sue scelte: «Egli non può appartenere ad alcuna comunità nella quale il suo io sia in discussione, giacché una comunità di tal genere chiamiamola costitutiva e non semplicemente cooperativa impegnerebbe sia l’identità che gli interessi dei suoi membri» 57. Ma una concezione di questo tipo, sostiene Sandel, contraddice la percezione che abbiamo di noi stessi. Se l’io preesistesse ai suoi fini, noi dovremmo, attraverso l’introspezione, poterlo afferrare indipendentemente da essi. Eppure noi non ci consideriamo mai una pura astrazione. Lo facciamo solo in relazione a motivazioni e progetti che sappiamo essere costitutivi di noi stessi. È anzi quando l’individuo è « sgombro » che « in lui non resta niente che possa riflettere su di sé ». La concezione liberale del soggetto rende quindi alla fine impossibile qualunque autentica conoscenza o comprensione di-sé. Se i limiti dell’io sono predeterminati, l’io non può infatti insegnare niente di più a proposito di se stesso raggiungendo i fini che si è fissato attraverso le sue scelte. L’io in sé viene perciò collocato al di fuori della portata dell’esperienza, e diventa al limite estraneo a se stesso.

A questa concezione strumentale dell’io, Michael J. Sandel oppone una concezione costitutiva nella quale l’io, invece di essere antecedente ai fini che si dà, è esso stesso costituito da fini che sono solo in parte oggetto delle sue scelte. La distanza tra le caratteristiche che si posseggono e la persona che si è viene abolita: si è ciò che ci costituisce e si può fare uso della propria ragione solo nel contesto di ciò che si è. L’io, in altri termini, è sempre preso in un contesto dal quale non lo si può astrarre. È situato ed incarnato. Di conseguenza la comunità non è più un semplice mezzo dell’individuo per realizzare i suoi fini, o il semplice contesto degli sforzi che egli compie alla ricerca del proprio vantaggio. Essa è alla base delle scelte che egli effettua, nella stessa misura in cui contribuisce anche a fondarne l’identità: le istituzioni, i fatti sociali, le chiese, la famiglia, i sistemi politici e educativi costituiscono la persona sin dall’infanzia. In questa prospettiva, scrive Sandel, gli individui non devono essere tanto considerati « soggetti separati aventi alcune cose in comune, quanto membri di una data collettività, aventi tutti delle caratteristiche particolari» 58. Ne risulta che il modo di vita socio-storico è inseparabile dall’identità, cosi come l’appartenenza ad una comunità è inseparabile dalla conoscenza di sé. È inoltre impossibile apprezzare nella giusta misura il valore di un modo di vita se non si ammette che l’influenza che esso esercita contribuisce a costituire l’identità degli attori. Il che significa non solo che è a partire da un determinato modo di vivere che gli individui possono operare delle scelte (incluse scelte opposte a quel modo di vivere), ma anche che è sempre quel modo di vivere a fare un valore o un non valore di ciò che gli individui considerano valido o non valido. Cosi, dice Sandel, se si appartiene ad una comunità ebraica praticante, le proprie scelte in materia alimentare saranno predeterminate dalle regole della cacherout. «In altri termini», scrive Charles Larmore, «alcuni modi di vita (costumi condivisi, legami geografici e linguistici, ortodossie religiose) formano il concetto stesso di valore sul quale ci basiamo per effettuare le nostre scelte. Questi modi di vita sono diventati nostri non perché li abbiamo scelti ma piuttosto perché costituiscono le tradizioni alle quali apparteniamo» 59. Se i nostri ruoli, le nostre appartenenze e i nostri impegni sono elementi costitutivi delle nostre persone, aggiunge Michael J. Sandel, « se siamo in parte definiti dalle comunità alle quali apparteniamo, allora dobbiamo anche trovarci implicati negli obiettivi e nei fini che contraddistinguono tali comunità» 60. Idea egualmente presente in Alasdair Maclntyre, che propone una concezione narrativa della personalità, in cui l’io è «incastrato» in una storia di vita ordinata ad un telos particolare, indissociabile da una appartenenza specifica. Questa concezione narrativa, aperta, implica che il bene degli attori abbia sempre un qualche rapporto con il bene delle comunità di cui essi condividono la storia. « Noi ci concepiamo sempre come portatori di un’identità sociale specifica», scrive Maclntyre. «Io sono il figlio o la figlia di qualcuno, lo zio o il cugino di qualcun altro; sono cittadino di questa o quella città; esercito il tale o talaltro mestiere o professione; appartengo ad un dato clan, a una data tribù, a una data nazione. Ne consegue che ciò che è bene per me deve altresì rappresentare un bene per chi condivide il mio ruolo» 61. «Per quanto aperta possa essere», prosegue Sandel, «la storia della mia vita è sempre incastrata nella storia delle comunità dalle quali traggo la mia identità si tratti della famiglia o della città, della tribù o della nazione, del partito al quale aderisco o della causa che difendo. Dal punto di vista comunitarista queste storie, questi racconti, fanno una differenza morale, non solo una differenza psicologica» 62.

Sandel distingue nettamente questo comunitarismo «costitutivo» dal comunitarismo «strumentale» o «sentimentale». Il comunitarismo strumentale si limita a sottolineare l’importanza dell’altruismo nelle relazioni sociali. Il comunitarismo sentimentale vi aggiunge l’idea che sono le pratiche altruistiche a consentire meglio di massimizzare l’utilità media. Ma entrambi questi atteggiamenti non sono incompatibili con la teoria liberale. Il comunitarismo «costitutivo», invece, non possiede alcun carattere opzionale. Si fonda sull’idea secondo cui è impossibile concettualizzare l’individuo al di fuori della sua comunità o dei valori e dei comportamenti che in essa si esprimono, dal momento che sono quei valori e quei comportamenti a costituirlo in quanto persona. L’idea fondamentale è dunque che l’io viene scoperto più che scelto, poiché, per definizione, non è possibile scegliere ciò che è già dato. Di conseguenza, la comprensione di sé equivale a scoprire progressivamente in che cosa consistono la nostra identità e la nostra natura. Il quesito essenziale non è « Che cosa debbo essere, che tipo di vita debbo condurre? », bensì «Chi sono?» 63.

Sandel dice anche che gli individui non sono tanto in sé degli esseri caratterizzati da bisogni o desideri, quanto piuttosto esseri che si integrano in « sistemi di desideri» (e di bisogni) gerarchicamente ordinati. «Le diverse comunità», scrive, «possono essere considerate come altrettanti “sistemi di desideri” », nel senso che definiscono «un ordine o una struttura di valori condivisi parzialmente costitutivo di un’identità o di una forma di vita comune» 64.

I comunitaristi affermano pertanto che ogni essere umano è inserito all’interno di.una rete di circostanze naturali e sociali che ne. Costituisco l’individualità e ne determinano, almeno in parte, la concezione della vita buona. Tale concezione, aggiungono, vale per l’individuo non perché è il risultato di una libera scelta ma perché esprIme appartenenze ed impegni che i sono costitutivi del suo essere. Obblighi di questo genere, precisa Sandel, «vanno al di là dei valori che io posso tenere ad una certa distanza, Vanno il oltre le costrizioni che contraggo volontariamente e i “doveri naturali” che debbo agli esseri umani in quanto tali. Sono fatti in maniera tale che a volte debbo loro più di quanto la giustizia non chieda o addirittura non consenta, non per via degli impegni che ho assunto o delle esigenze della ragione ma proprio in virtù di quei legami ed impegni più o meno duraturi che, presi tutti assieme, costituiscono in parte la persona che sono» 65. In questa prospettiva, nessuno compie una scelta sulla base di una libertà sovrana, ma tutti esercitano la propria libertà sulla base di ciò che li lega gli uni agli altri 66.

In questa critica ritroviamo evidentemente la distinzione classica fra la Sittlichkeit hegeliana e la Moralität kantiana. La Sittlichkeit si riferisce agli obblighi morali che si hanno verso la comunità alla quale si appartiene, e che si fondano sui costumi, sugli usi e sulle norme in vigore in quella comunità; la Moralität agli obblighi categorici che ci spettano non come membri di una data comunità ma in quanto individui detentori di una volontà razionale. Nel primo caso non c’è evidentemente contrasto tra l’essere e il dover essere, contrasto che invece emerge immediatamente nel secondo, poiché l’obbligo categorico ci impone di compiere un’azione morale che non si fonda su alcuna contingenza empirica. Hegel stabilisce il primato della Sittlichkeit, che fa risalire all’antica etica greca (quella stessa che era contestata da Socrate): la libertà e la felicità fioriscono quando le norme e i fini che si esprimono nella vita pubblica permettono ai membri della città di raggiungere il loro telos. Da ciò la definizione della comunità come « sostanza etica » e fonte di vita spirituale, alla quale Hegel aggiunge l’idea che le norme e i fini che sono all’opera nella vita pubblica esprimono anche la struttura ontologica delle cose 67.

Una comunità autentica non è dunque una semplice riunione o addizione di individui. I suoi membri hanno, in quanto tali, scopi comuni, legati a valori o ad esperienze condivisi, e non soltanto interessi privati più o meno congrui. Quegli scopi sono scopi caratteristici della comunità stessa e non obiettivi particolari identici per tutti i suoi membri o per la maggior parte di essi. In una semplice associazione, gli individui considerano i propri interessi indipendenti e potenzialmente divergenti gli uni dagli altri. I rapporti esistenti fra tali interessi non costituiscono pertanto un bene in sé ma solo un mezzo per ottenere i beni particolari richiesti da ciascuno. La comunità, invece, rappresenta un bene intrinseco per tutti coloro che ne fanno parte, affermazione che i comunitaristi presentano o come una generalizzazione psicologica descrittiva (gli esseri umani hanno bisogno di appartenere ad una comunità) o come una generalizzazione normativa (la comunità è un bene oggettivo per gli esseri umani) 68. Come scrive Roberto Unger, «esistono due modi distinti di concepire i valori condivisi. In un caso, il fatto che questi valori siano condivisi è il risultato della coincidenza delle preferenze individuali, le quali, anche quando sono combinate fra di loro, conservano tutti i tratti caratteristici della soggettività individuale. Nell’altro, i valori condivisi sono valori di gruppo, che non sono né individuali né soggettivi. Se si parte dalle premesse del pensiero liberale, i valori condivisi sono esclusivamente il risultato dell’associazione provvisoria di fini che esprimono soltanto le preferenze soggettive di coloro che li condividono» 69. «L’appartenenza», osserva da parte sua Michael Walzer, «vale in proporzione a ciò che i membri di una comunità politica debbono l’uno all’altro e a nessun altro. E la prima cosa che si debbono è la certezza della sicurezza e del benessere comuni. Questa constatazione può peraltro essere rovesciata: il fatto di assicurarsi qualcosa in comune è importante perché ci consente di misurare il valore dell’appartenenza. Se non avessimo niente da apportare agli altri, se non facessimo alcuna differenza fra membri e non-membri, non avremmo alcun motivo di costituire e mantenere delle comunità politiche» 70.

Non vi è perciò alcun dubbio, per i comunitaristi, che se l’uomo moderno è oggi alla costante ricerca di se stesso, ciò avviene proprio perché la sua identità non è più costituita da alcunché.

 

Un’osservazione conclusiva

 

Secondo l’opinione pressoché unanime di tutti coloro che lo hanno studiato, il “movimento” comunitarista rimane oggi difficilmente classificabile dal punto di vista politico. Per alcuni suoi aspetti, come l’importanza che conferisce alle norme “premoderne” e alle tradizioni, esso appare vicino ad un certo conservatorismo repubblicano. Per un altro verso, tuttavia, esso condivide parecchie aspirazioni politiche del socialismo classico, e il fatto che collochi i fattori sociali prima delle determinazioni individuali spiega perché talvolta le opere dei suoi rappresentanti siano state accostate agli scritti del giovane Marx 71. «In quanto progetto di ricostruzione sociale», sostiene Paul Piccone, «il comunitarismo non è legato né alla sinistra né alla destra. Negli anni Trenta esso costituiva un progetto di sinistra di cui il New Deal ha rappresentato il punto culminante, mentre invece negli anni Ottanta la destra se ne è impadronita per tradurlo nei successi elettorali che hanno accompagnato la “rivoluzione” reaganiana. Oggigiorno i due grandi partiti si richiamano ad esso e ai valori che esso incarna per dare un fondamento ai loro rispettivi programmi» 72. Nella stessa ottica, Michael Walzer ha potuto osservare che «la critica comunitarista del liberalismo può rafforzare le vecchie diseguaglianze caratteristiche dei modi di vita tradizionali oppure correggere le nuove diseguaglianze dovute al mercato liberale e alla burocrazia statale» 73. La medesima ambivalenza la si ritrova a livello degli uomini. A