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Il silenzio e la parola

di Marcello Ghilardi - 29/12/2005

Fonte: estovest.net

 

«Facile è conoscere la via; difficile è non parlarne».

Zhuangzi

 

Uno degli episodi più noti della letteratura buddhista è quello che narra della trasmissione del dharma, la dottrina insegnata da Sakyamuni, da parte dello stesso Buddha a Kasyapa, uno dei suoi dicepoli: attorniato da una folla di uditori sul Picco dell'Avvoltoio, l'Illuminato volle sondare il grado di comprensione di chi lo seguiva da tempo per trasmettergli il ruolo di suo successore. Invece di procedere con lunghi discorsi, egli colse un fiore di loto e lo rigirò tra le dita: Kasyapa, unico, sorrise. A lui spettava il compito di diffondere ulteriormente le dottrine del Buddha, poiché era il solo ad averne realmente compreso l'essenza.

Il problema della trasmissione dell'illuminazione, della possibilità di far comprendere ad altri il senso dell'esperienza del Buddha, è stato fin dalle origini, come testimoniano le cronache e i testi religiosi, di centrale importanza. L'esempio di Kasyapa che dimostra di aver raggiunto l'illuminazione senza una parola, ma solo tramite un gesto e un sorriso, testimonia il primato accordato nell'ambito delle esperienze filosofico-religiose orientali a una comprensione e a una trasmissione che eccedono il dominio del verbale, del parlato o dello scritto, dando la preferenza a modalità in un certo senso più intime, connesse a una pratica più che a una discorso razionale; tenendo sempre ben presente che il carattere talvolta a-razionale dei contenuti degli insegnamenti buddhisti non indica assolutamente anche un loro carattere irrazionale: spesso ci si dimentica che ciò che può superare i limiti della ragione non deve per questo negarla, anzi la può legittimamente conglobare coerentemente nel suo modello di spiegazione e conferirle un senso all'interno di un quadro più vasto.

Nel caso del buddhismo di scuola zen, estremamente noto è il caso dell'utilizzo dei cosiddetti koan: testi brevi, densissimi, costituiti da rapidi scambi di battute tra un maestro e un discepolo, o specie di indovinelli che mirano a scalzare le pretese della ragione di imporsi, ad ogni livello, nel tentativo da parte del discepolo di cogliere l'illuminazione, di comprendere la dottrina. Il koan è quindi una sorta di espediente: si serve del linguaggio, perché di parole è pur sempre costituito, ma al linguaggio non si limita, va oltre esso, perché ne denuncia i confini tutto sommato angusti, quando si intende cogliere il senso del carattere non dualistico della realtà. La logica tradizionale e il pensiero discorsivo, strumenti necessari per destreggiarsi nei casi della vita quotidiana, diventano ostacoli nel tentativo di avvicinarsi ad un'esperienza della realtà che ne sveli l'essenza, ovvero quel carattere di vuoto, centrale nella tradizione buddhista, teso ad indicare la non sostanzialità degli enti materiali e mentali. Quando il discepolo si concentra su un koan, fa ricorso a tutte le sue risorse intellettuali, ci riflette, si ragiona sopra utilizzando tutti gli strumenti razionali che ha a disposizione. Ma ad un certo punto si produce un'impasse, un blocco che impedisce di spingersi oltre per schiudere il senso riposto nel breve e spesso bizzarro testo. Ciò che deve accadere a questo punto è la rottura della barriere mentali, un'esplosione che elimini i modo di ragionare tradizionali, veicolati dal linguaggio ordinario, perché nella mente del discepolo si faccia largo un diverso tipo di comprensione, che non può certo essere spiegata a parole, ma che lo porta al superamento del "regno della discriminazione", che sempre separa gli ambiti di reale e illusorio, di forma e materia, di conoscenza ed ignoranza. Poiché l'illuminazione avviene istantaneamente, anche la soluzione del koan avviene in maniera immediata, intuitiva, lasciando spesso perdere le tradizionali categorie concettuali che guidano il pensiero discorsivo, nella sua rapporto di prossimità-identità con la parola-logos.

Il koan si rivela nient'altro che un mezzo, un modus operandi che sotto di sé non cela nulla: non ci sono infatti significati nascosti da scoprire con l'intelletto, perché il carattere stordente e assurdo di questi esercizi revoca il senso di tutta la ricerca che si vuole impostata sull'uso esclusivo del linguaggio, e dunque degli esercizi stessi, che esclusivamente sul linguaggio fanno affidamento. Non per nulla, una valida risposta ad un koan può essere un urlo, uno schiaffo, una parola priva di senso.

In un altro famoso testo della letteratura buddhista, il Vimalakirti sutra, molti bodhisattva si ritrovano a discutere sul modo migliore per «penetrare nel regno della non dualità», ovvero come comprendere l'infondatezza della visione dualistica, che separa il nirvana dal samsara, per ottenere l'illuminazione; i punti di vista si confrontano, molti consigli vengono elargiti, molti utili sentieri da seguire vengono indicati. «Infine Manjushri disse a Vimalakirti: "Ognuno di noi ha dato una spiegazione. Ora, signore, è il tuo turno di parlare. Come può il bodhisattva oltrepassare la porta del non dualismo?". Vimalakirti rimase in silenzio e non disse una parola».

Il sutra nel suo complesso predilige l'uso di paradossi e sentenze apopfatiche, onde sottolineare l'impotenza del linguaggio razionale per spiegare l'effettiva trama della realtà, nascosta agli occhi che vedono solo in superficie. In particolare, il protagonista Vimalakirti, e con lui tutti i famosi maestri che la tradizione riporta, si dimostra riluttante ad esprimere con parole o segni la singolarità della realtà, che trascende gli oggetti e gli eventi colti usualmente dai sensi, e che resta inesprimibile, colta solo attraverso l'esperienza dell'illuminazione. L'apparente passività del silenzio si dimostra in ultima istanza la modalità più efficace per avvicinare una comprensione che dalle parole, appunto, non può essere com-presa, fissata. Da qui anche la necessità della pratica meditativa, strumento indispensabile che unisce il corpo e la mente nel percorso che porta alla meta dell'illuminazione.

Il silenzio si configura quindi non solo come una dimensione "negativa", ovvero come una mancanza, un'assenza di suono o di parola; esso è, invece, in positivo, una realtà com-prendente, condizione di possibilità delle stesse parole, realtà che in un certo senso proprio per questo suo essere-condizione-di, prerequisito della parola, di questa si spinge più in là, coglie l'ineffabile che il verbo solo può intravedere od indicare. Anche in altre tradizioni culturali, dove forte è la dimensione dell'ascolto, il silenzio si dimostra condizione necessaria per il conoscere: senza ascolto (di sè, dell'altro) non c'è conoscenza, ma senza silenzio non può esserci ascolto; l'udire presuppone il tacere. La parola poi, si sa, intrattiene sempre un gioco rischioso con le cose, perché essa le vuole indicare, anzi vuole dare ad esse la loro vera essenza, ma nello stesso tempo è sempre sul punto di travisarle, di misconoscerle, di falsarle. E l'inflazione della parola porta infine alla chiacchiera, come direbbe Heidegger, al dominio del man o del divertissement. Nessuna riflessione autentica, anche volendo scostarsi dai modi e dalle tradizioni orientali, per riavvicinarsi a quelli classici dell'Occidente, si dà nell'eccesso di verbosità.

Ma nello stesso tempo, silenzio e parola si rimandano l'uno all'altra, non possono essere pensati come indipendentemente validi. Essi assumono il proprio valore in maniera reciproca, vicendevolmente: tra di essi vige un rapporto molto simile a quello che si instaura tra il bianco, il vuoto del foglio e i caratteri che su di esso vengono tracciati dal pennello. Il parallelo con il sistema di scrittura cinese e giapponese risulta a mio giudizio interessante: come tra parola detta e silenzio, così tra parola scritta e bianco del foglio si manifesta un rapporto dialettico per cui un elemento non sussiste senza l'altro, ma anzi dall'altro riceve un valore che altrimenti non avrebbe; o meglio, senza l'altro assolutamente non sarebbe. Come solo a partire dal silenzio si può dare il suono, così solo a partire da un foglio bianco, da un originario "vuoto", può apparire il segno.

Ma per cogliere l'inesprimibile, l'ineffabile (l'esperienza che non può essere compresa dal discorso razionale, perché lo eccede, come si diceva prima, lo trascende – non lo nega, ma ne denuncia i limiti di esso costitutivi) il segno è destinato a tramontare. La comunicazione umana, la possibilità stessa della vita nella sua complessità non può prescindere dai segni, tuttavia gli stadi in cui si tende ad una comprensione globale, sintetica, intuitiva rivelano la costante insufficienza del segno per come siamo in grado di servircene: anche perché – è questo che ci dicono gli insegnamenti buddhisti dell'insostanzialità, della coproduzione condizionata, del vuoto – sotto il segno, in definitiva, non c'è nulla. Non c'è nulla di assoluto, di sostanziale, appunto: ciò che cade sotto i nostri sensi, ciò che continuamente designamo con i nomi e di cui ci serviamo nella vita quotidiana ha sì una consistenza pratica, ma non si può identificare con niente di stabile, di permanente, di slegato dai condizionamenti che lo mantengono in essere e che lo definiscono nella trama di rapporti attraverso i quali si determina. È anche per questo che Vimalakirti tace, alla domanda di Manjushri: ogni dire che pretende di spiegare, di definire, è al più una visione parziale delle cose, ovvero si mantiene nel regno dualistico che separa questo da quello, che mantenendo ogni oggetto separato dagli altri impedisce di cogliere la realtà nel suo aspetto dinamico e "fluido", per cui ogni fenomeno o situazione assume la propria conformazione non separatamente da tutti gli altri. Ogni parola che pretenda di spiegare, di definire, non fa che limitare, bloccare, ridurre la gamma di possibilità di comprensione. Certo, nei casi della vita questo "male" è necessario: il linguaggio ordinario, che si è evoluto per far fronte alle esigenze di convivenza sociale (e pure per dare un concretezza empirica a quelli che altrimenti resterebbero inspiegabilli fenomeni di un io indefinibile), resta il mezzo più efficace di cui siamo forniti nel tentativo di dare un ordinamento al mondo fisico e sensibile, per muoverci in esso riducendo al minimo il contrasto tra le evidenze dei nostri sensi e le pretese dell'idealismo più radicale; e la quantità di risultati che ogni giorno otteniamo con l'uso delle parole tesimonia la bontà e l'utilità di questo strumento. Ma il rischio è quello di perdere di vista proprio questo carattere di "mezzo", di farci assorbire completamente dal flusso di verbosità che autoproduce se stessa, che riempie di sé tutti gli spazi bianchi dai quali traeva il proprio senso, fino ad occultare la radice stessa di questo senso, il nostro rapporto con le cose. Il segno, in quanto simbolo, è proprio il mezzo attraverso cui si attua questo legame tra noi e le cose: ma quando il segno non acconsente a tramontare, non si fa da parte per lasciar trasparire ciò che indirettamente designa, allora esso non si regge più su nulla: è un segno sterile, perché eccedendo il suo compito non si fa simbolo di niente, si rigira su se stesso, ma non testimonia che la falsità del suo voler assumere il ruolo di perfetto specchio del reale. Riconoscendosi come transitoria, come non assoluta, la parola-segno si dimostri invece per quello che è, ossia pallido riflesso del mondo che essa nomina; mondo che esiste sì in virtù della parola stessa, ma che ad essa non si riduce. Ecco che il silenzio appare symbolum forse più della parola stessa, in quanto esso è condizione del darsi dei vari symbola che sono le parole; sfondo, luogo, orizzonte (alla maniera del basho di Nishida) entro cui si danno tutte le possibilità di rapporto.

Ciò che può trasmettere un tipo di esperienza non verbale come la meditazione, per restare sempre nell'ambito del buddhismo, e in particolare secondo la tradizione della scuola zen, è la maggiore capacità di "apertura" (all'illuminazione, alla comprensione, all'instaurazione di un rapporto più diretto e vicino con ciò che ci accade intorno: il problema resta sempre quello di capire cosa si è, e come improntare il nostro vivere a contatto con gli eventi che ci accadono) rispetto alla realtà circostante. Lo scopo della meditazione non è quello di raggiungere stati alterati di coscienza, quanto piuttosto quello di stabilire un contatto più prossimo, più genuino con le cose, contatto che spesso proprio dal linguaggio viene mascherato e inficiato. Questo è anche lo scopo non dichiarato della pratica dei koan: attraverso il linguaggio stesso, in questo caso, si cerca di andare oltre il linguaggio. Il silenzio dimostra dunque una maggior duttilità della parola, perché è in grado di adattasi alle varie situazioni della vita; di fronte alla domanda sulla via da seguire, che in buona sostanza coincide con la domanda sul senso, nessuna risposta vale quanto il silenzio di Vimalakirti. Ma tale "duttilità" non è esente da rischi: è facile intuire che al di sotto del silenzio si possono comodamente nascondere le incomprensioni più grandi, o mascherare gli intenti più beceri ammantandoli di una presunta profondità filosofica. Qui torniamo al punto di prima: la dialettica di parola e silenzio. Perché se la parola da sola si perde in astratta verbosità, e crescendo su se stessa dimentica le radici su cui si fonda, allo stesso modo il silenzio rischia di rendere tutto talmente insondabile da perderlo nella miseria dei falsi sofismi, come una sorta di assoluto schellinghiano secondo la famosa critica di Hegel, e volendo far passare per concetti profondi quelli che non altro che "sofisticherie ed inganni".

Mi pare opportuno citare, a questo punto, alcune parole di un pensatore che molto ha meditato sulla dialettica di parola e silenzio, Romano Guardini: «Priva di questo rapporto col silenzio, la parola diviene vaniloquio; senza questo rapporto con la parola, il silenzio diviene mutismo»1. La riflessione di Guardini, profondamente imperniata su quella che lui definisce "opposizione polare" tra tutti gli elementi che compongono il "vivente-concreto", prende a tema anche il significato che le due dimensioni del silenzio e della parola assumono reciprocamente: la stessa vita dell'uomo, egli dice, è una trama intessuta di silenzi e parole, si svolge tra il tacere e il parlare. Anzi, a maggior ragione per l'uomo, perché solo chi ha il dono della parola può davvero tacere2. E come abbiamo già visto il silenzio non viene così più assunto unicamente come un negativo, la mancanza di parola o di suono, ma in positivo, come un "contro-movimento dialettico" che all'uscita da sé della parola contrappone un rientro in sé, ad indicare l'immanenza interiore di contro alla trascendenza ek-statica del verbo. Il nucleo di tutta la filosofia di Guardini verte sull'idea di opposizione polare, che il pensatore distingue bene da quella di contraddizione; mentre in quest'ultima i due opposti si escludono a vicenda, e non può esservi conciliazione o "collaborazione tra essi", nella prima gli elementi che si fronteggiano assumono un valore solo in quanto contrastantisi, ovvero non possono sussistere se non in questa relazione oppositiva e dialettica. Silenzio e parola stanno precisamente in questo rapporto: la parola può essere viva e feconda solo attraverso il silenzio, che è il suo opposto, e questo può esserlo altrettanto solo grazie alla parola.

Il silenzio costituisce una sorta di matrice, di fondo originario da cui la parola scaturisce, ed a cui essa deve necessariamente ritornare; dal silenzio proviene, e verso il silenzio nuovamente si dirige. Pensare l'uno o l'altra come separati, come indipendenti, equivale a pensarli secondo un concetto che si potrebbe hegelianamente definire "astratto"; le due dimensioni possono invece darsi "concretamente" solo nell'interrelazione reciproca.

Per Guardini la dialettica di silenzio e parola è centrale anche nel processo di autorealizzazione della persona, che in tali dimensioni trova due possibiltà proprie, e che necessita di entrambe. Secondo la logica del Gegensatz, dell'opposizione polare, la persona ha dunque bisogno del silenzio, ma la sua vita non può svolgersi solo nel silenzio; e allo stesso modo la parola è fondamentale, ma da sola impoverisce invece di arricchire. Ancora, il silenzio è condizione imprescindibile per l'esperienza religiosa, perché all'uomo si possa rivelare l'Altro, che viene accolto proprio nella manifestazione della Sua parola. E modello dell'armonia e della congiunzione degli opposti appare proprio il mistero trinitario, in cui la Parola non è altro dal Silenzio.

Il problema del pensiero, e di quello occidentale in particolare, è il rendersi conto di come sia vana la pretesa di com-prendere le cose da un punto di vista assoluto e generale, di cogliere il fondamento ultimo di ogni realtà tramite la verità del logos, laddove ogni definizione, ogni vocalica attribuzione di contenuto ad un oggetto, a un fenomeno, non può che darsi sotto una definita e limitata prospettiva. Il comprendere interpretativo messo in luce dall'analisi heideggeriana del noto circolo ermeneutico dovrebbe evidenziare come ogni parziale, singolo conferimento di significato non possa poggiare mai su un fondamento stabile od assoluto, su un senso ultimo da attingere mediante la parola, mediante il logos. Il circolo del dar senso è un abisso del non-senso3. E questo non per voler approdare ad esiti nichilistici o scettici del pensiero, ma per riaffermare l'irriducibilità del pensiero alla logica discorsiva. Il pensiero è più ampio della logica, non in quanto illogico, ma perché contiene la logica al suo interno; dunque contempla ambiti di conoscenza e di esperienza che giustamente eccedono l'ambito della logica. Di nuovo ci si trova di fronte ad un rapporto di tipo dialettico: ciò che appartiene al dominio della parola e della ratio acquista un senso grazie all'apertura di prospettiva data dall'ambito che eccede da quello stesso dominio. Non si tratta certo di prendere le parti di un dominio piuttosto che di un altro, o di voler affermare la superiorità di un metodo rispetto all'altro: così facendo si dimostrerebbe di aver completamente frainteso il significato del loro essere in relazione. In verità essi si alimentano uno dell'altro, l'uno trae dall'altro il proprio valore. Quanto più la questione si approssima al rapporto tra parola ed essenza (di sé, delle cose), tanto più si deve assumere un atteggiamento cauto circa le poossibilità del linguaggio, tanto più si fanno rarefatte le consonanze tra le parole e ciò a cui si riferiscono. Allora bisogna lasciare più spazio al silenzio: «Taglia corto con la ragione, con il discorso, e lascia che che il silenzio assolva, senza cedimenti, al ruolo di nocchiero»4.

Ma un punto di vista come quello del buddhismo zen ci spinge però ad andare oltre: oltre la prospettiva che, separando ed opponendo, sia pure dialetticamente, parola e silenzio, ce li presenta sempre come due realtà antitetiche; in mutua correlazione, pur tuttavia ben differenziati. La distruzione della "rocciosità" del linguaggio razionale operata dai paradossi dei koan non intende risparmiare nemmeno la pretesa di ascrivere al silenzio, di contro alla discorsività, la possibilità di raggiungere la verità del Buddha.

Si è visto che il tacere acquista una valenza autentica e positiva solo se inserito in un quadro che contempli la possibilità del discorso; ma la radicalità tipica dello zen impone un andare oltre ai due singoli aspetti, così come oltre alla loro compresenza dialettica: esso vuole che si vada al di là delle parole, al di là del silenzio e al di là di parole e silenzio. Nemmeno questa dialettica di parlare e tacere permette di cogliere l'essenza del vuoto (sunya), dal momento che la loro definizione permane all'interno di una visione dualistica; ed è solo sganciandosi da questa che ci si immerge nella "buddhità".

«Wuzi disse: "Quando vi imbattete in un uomo della Via (Dao), non presentatevi con le parole, né con il silenzio. E ora ditemi, come vi presenterete?"»5.

A questo punto, forse uno dei modi migliori per accostarsi a un genuino rapporto tra parola e silenzio, rapporto che non solo li ponga in relazione, ma ne superi la stessa opposizione dialettica e il dualismo che ne è il fondamento, è tenere in considerazione la modalità espressiva dello haiku6. Questo un noto modello di componimento giapponese consiste in tre versi di 5, 7 e 5 sillabe rispettivamente; e si caratterizza per l'estrema semplicità descrittiva, che presenta in genere scene o situazioni associate ai ritmi stagionali. Il poeta non è mai al centro della sua opera, agisce come osservatore assolutamente distaccato, tanto che i versi danno l'impressione di "accadere" da soli, esattamente come ciò che essi descrivono. Non ci sono interpretazioni di sorta, a nessun livello, o giudizi sottesi da parte dell'autore; in questo modo viene anche a cadere la tradizionale separazione tra osservatore ed osservato, tra soggetto ed oggetto. Le parole sono lì, come sospese in una nebbia indistinta che fa da cornice, un silenzio che accoglie i versi nel suo seno e ad essi conferisce maggior efficacia: nulla di ulteriore oltre la rappresentazione nuda della scena, come nulla di ulteriore dietro gli eventi che cadono sotto i sensi; questo indica lo haiku. Le parole del poeta (che già non appartengono più al poeta, perché non c'è più nemmeno un poeta a cui attribuirli) sono come i tratti del pennello che emergono dal bianco del foglio, e che evocano (senza pretendere di definirli in maniera esaustiva) gli elementi di un paesaggio. Le parole emergono dal silenzio come i tratti dal vuoto, dal bianco del foglio; ma dal silenzio e dal vuoto non si distaccano, perché questi non sono solo sfondo, ma parte integrante. Il silenzio non è statica immobilità, ma fattore costitutivo del suono. Di più, nello haiku la semplice quiete del silenzio e il movimento dei suoni si fondono per produrre un'apertura (dell'opera, e della mente di chi ne fruisce – ma abbiamo visto che pure tali distinzioni appaiono ora forzate) alla semplice esperienza del contatto con le cose. L'incontro di silenzio e parola in questa particolare forma di espressione artistica orientale si pone al di là del consueto isolamento di opposte dimensioni, che tendono a circoscrivere elementi ed eventi. La parola dello haiku, nel suo non-definire, non-limitare, si fa silenziosa, e il silenzio che le fa da sfondo la compenetra e diviene eloquente; il loro incontro, lungi dal riproporre un'insanabile dicotomia, spinge il contatto tra uomo e natura oltre il dominio del detto-e-non-detto. Lo spingersi al di là della parola e del silenzio conduce a quel vuoto che tanto distante è dalla mancanza di senso e di vita (non è il "nulla" che annichilisce "tutto", o il "niente" della privazione di "enti"), quanto da una falsa pienezza concettuale che, ancora una volta, pretenderebbe di spiegare, definire, delimitare le possibilità di significato.

Il vuoto dunque, come momento che riunisce e supera le dimensioni opposte del tacere e del parlare, e che le supera senza fissarle ancora una volta in schemi dualistici, un vuoto che si dimostra come carattere costitutivo di ogni realtà, come condizione ultima del darsi della realtà stessa.

È stato detto che questa vacuità di fondo a cui vanno ricondotti i fenomeni della vita ne indica in definitiva la sostanziale mancanza di senso; se è così, nessun non-senso è stato tanto pieno di significato, e nessun vuoto è stato così pieno. E l'utilità del vaso, si sa, non è nelle pareti, ma nell'interno cavo.

 


Note

1- R. Guardini, Linguaggio-Poesia-Interpretazione, tr.it. a cura di A. Babolin, Brescia 1971, p.14. torna al testo ^

2- Cfr. S. Zucal, Silenzio e parola in Romano Guardini, in AA.VV., Il silenzio e la parola da Eckhart a Jabès, a cura di M. Baldini e S.Zucal, Morcelliana 1989. torna al testo ^

3- Cfr. C. Sini, Il silenzio e la parola, Marietti 1989, pp. 113 e segg. torna al testo ^

4- E. Jabès, Il libro delle interrogazioni, tr. it a cura di E. Rebellato, Reggio Emilia 1982, p.77. torna al testo ^

5- Cit. in L.V. Arena, Storia del buddhismo Chan, Mondadori 1992, p.240. torna al testo ^

6- Per delle riflessioni più approfondite sull'argomento, cfr. L.V.Arena, Haiku, Milano 1995, e Del nonsense, Urbino 1997; R. Barthes, L'impero dei segni, Torino 1984; F. Cheng, L'écriture poétique chinoise, Paris 1985; Cento haiku, a cura di I.Iarocci, Milano 1982; G.Pasqualotto, Estetica del vuoto, Venezia 1992; Poesie zen, a cura di L.Stryck, Roma 1983. torna al testo ^