Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L'etica shintoista

L'etica shintoista

di Gianfranco Bertagni - 06/01/2006

Fonte: gianfrancobertagni.it

 

Dall’Encyclopedia of Religions curata da M. Eliade (mia trad.): “La natura dell’umanità. La fondamentale assunzione della concezione shinto della natura dell’uomo è l’idea che “gli esseri umani sono i bambini dei kami”. Il significato di questa frase è prima di tutto che l’uomo ha ricevuto la sua vita dai kami, e che in conformità a ciò la vita dell’essere umano è sacra. In secondo luogo, la nostra vita quotidiana e il nostro lavoro sono resi possibili attraverso la benedizione dei kami. Così persona e vita dell’essere umano sono rispettate, e come ognuno valuta se stesso, così egli deve rispettare i diritti fondamentali degli altri, senza distinzione di razza, cittadinanza ecc. Questo rispetto dei diritti umani è la fondazione teoretica del movimento della pace Shinto. Nello Shinto non c’è una particolare concezione del peccato originale. Invece, poiché l’uomo si crede che abbia ricevuto la vita dai kami, l’uomo ha dentro di sé la sacralità che è l’essenza dei kami. In ogni modo, gli esseri umani attuali raramente esibiscono questa essenza sacra. In ordine alla “raffinatezza” la luce di questa essenza è necessaria per purificare il cuore, rimuovere da esso la sporcizia e l’inquinamento oscurante la sua superficie.
Purificazione e atteggiamenti di fronte alla vita. Lo Shinto propugna makoto no kokoro (il cuore di verità, sincerità) o magokoro (il cuore vero, sincero) come il migliore atteggiamento di fronte alla vita. Essi sono generalmente tradotti con “sincerità”, “purezza di cuore”, o “rettitudine”. Questi atteggiamenti rivelano la sincerità e l’umanità dei kami. In termini comuni, essi accennano all’atteggiamento di fare, ognuno, il meglio nel lavoro e nelle relazioni umane, ma la sorgente più basilare di questi atteggiamenti è la consapevolezza del divino. In altre parole, la sorgente sta nella preghiera. L’etica shinto non ignora la lealtà, la pietà filiale, l’amore, la fedeltà e le altre virtù morali individuali. In ogni modo, essa ha considerato tutte queste virtù come differenti nomi per azioni provenienti dal magokoro. Nell’antico Shinto, magokoro era anche descritto come “mente luminosa e pura” o “mente sincera, retta, pura e luminosa”. Succintamente, esso accennava a una condizione di purezza della mente. Come è considerato ora e come era considerato nel passato, il raggiungimento di questa condizione del cuore attraverso la purificazione del cuore e della mente è il prerequisito assoluto per essere in comunione con i kami e per ricevere la benedizione dei kami.
Ruolo dell’individuo nella società. La parola yo, che nel giapponese antico significava una generazione o una vita umana, proviene dalla stessa radice da cui proviene la parola che significa “tra nodi di bamboo” (la distanza tra un nodo e un altro). Il bamboo non può compiere la sua funzione e crescere in un lungo, flessibile stelo a meno che ogni yo sia completo. Allo stesso modo, anche la vita dell’essere umano ha il significato dell’azione sociale tra i due punti fissi di inizio e fine. Prima e dopo questi punti ci sono le generazioni degli antenati e i discendenti. Lo Shinto può essere chiamato la “religione della continuità”. Naturalmente, i giapponesi riconoscono quei possessi individuali alle particolari persone, ma essi non pensano dell’individuale come essere indipendente, separato dagli altri. Infatti l’essere umano individuale è uno in una tradizione verticale di legami tra antenati e discendenti. Orizzontalmente, egli è un membro responsabile dei vari gruppi sociali come la famiglia e i compagni di lavoro. Le coordinate della vita sono anelli infrangibili in una catena verticale e orizzontale.
Lo Shinto non si interroga sulla fine del mondo. Motoori Norinaga parlò della vita umana come sviluppo incessante e crescente, e allo stesso tempo mutante. Questo insegnamento era estratto da un’analisi del corso del mito giapponese. L’esistenza eterna del Giappone, unito dalla casa imperiale, è proclamata nel mito giapponese come l’editto divino di Amaterasu. Interpretando questo editto dal punto di vista dell’uomo moderno, possiamo dire che esso suggerisca la perpetuazione eterna della storia del mondo, incluso il Giappone (specificatamente, nel contesto della perpetuazione della casa imperiale).
In più, le credenze shinto, limitate alla prospettiva delle esistenza umane finite, individuali, sottolineano la nozione di naka ima (presente intermedio), come è riscontrabile frequentemente negli editti imperiali del sec. VIII. Naka ima è una concezione dell’eterno fluire del tempo in cui il presente è il punto centrale del luogo d’incontro tra se stessi e la storia eterna e così contiene il più alto valore che l’umanità di tutti i tempi può concepire. Alla base di questa concezione del tempo, quando noi esaminiamo la nostra via della vita, la via di partecipare direttamente nell’eterno sviluppo della storia del mondo è vivere ogni momento come il più possibile pieno e significativo”.

La vita felice non era, per i giapponesi antichi come per lo shintoismo, una vita di oltretomba, bensì una vita presente, attualmente esistente. La felicità consiste nella sufficienza dei mezzi necessari per la vita, garantita, soprattutto nei tempi antichi, da abbondanti raccolti agricoli; ma anche dalla purezza del cuore. Su ambedue gli aspetti, l’uno materiale e l’altro spirituale, si insiste molto nelle preghiere contenute nel Norito (collezione di preghiere per le diverse festività). Non si parla di peccati contro la divinità, tuttavia si accentua la purezza dei costumi come mezzo per placare gli dèi e ottenere i loro favori.
L’uomo stesso possiede una natura che partecipa del dinamismo “divino” immanente nel cosmo. Ed è poi cosa certa che per avere propizi gli esseri divini e scoprire la loro volontà, è necessario essere liberi da impurità corporali e spirituali. E questa è una purezza che si ottiene soprattutto mediante una immersione cosciente e voluta nella natura.

Lo shintoismo classico considera che le infrazioni alla morale o alla legge, come pure ogni male, sono provocate dall’intervento di uno o più spiriti cattivi sfuggiti allo Yomi, il regno delle Tenebre e dell’infelicità, e che di conseguenza queste mancanze provengono da forze che sfuggono alla volontà dell’uomo. Ispirandosi a queste idee, lo shintoismo moderno non vede nel peccatore, nell’uomo che manca, un essere corrotto e votato al male, ma qualcuno che ha, per un certo tempo, cessato, di appartenere ad un mondo di bontà e di felicità, ma che conserva sempre il diritto di ritornarvi.
A differenza del buddhismo, lo shintoismo non considera un male, una infelicità, l’essere nati: la vita terrestre è, al contrario, una soddisfazione tesa verso lo spirito divino. Da qui l’estrema semplicità o, se vogliamo dire, sobrietà delle concezioni e delle preoccupazioni morali dello Shinto sino a far pensare che esso rigetti deliberatamente ogni morale e ogni tentativo di precisare le regole che dirigono la vita del credente.

- Norinaga Motoori (1730-1801): “Poiché gli esseri umani sono stati prodotti dallo spirito degli dei creatori, essi sono naturalmente dotati della conoscenza richiesta per quanto essi devono fare e da quanto devono astenersi. Non hanno bisogno di rompersi il capo con dei sistemi morali; se ad essi fosse stato necessario un sistema morale, gli uomini sarebbero inferiori agli animali i quali hanno tutti la conoscenza di ciò che devono fare, sebbene ad un livello inferiore di quello degli uomini”.

- Kishimoto (storico dello shinto), nel 1967: “Lo Shinto si sforza di risolvere i problemi che si pongono all’uomo su di un piano al di là di quello della buona o cattiva condotta. La questione di sapere se l’uomo si comporta bene o male non è della stessa natura del problema che consiste nel liberare l’uomo dalle sue preoccupazioni e dalle sue ansietà; in Giappone, la religione ha concentrato i suoi sforzi su quest’ultimo problema, che è il problema interiore dell’uomo, e non si è preoccupata di elaborare dei principi morali che reggano la vita sociale degli uomini”.

- Hatsuo Tanaka (teologo): “Noi riceviamo dai kami, per discesa diretta attraverso i nostri antenati, un dono specifico di tendenze e di facoltà, e se noi lasciamo esprimersi normalmente in noi questa disposizione innata, noi realizzeremo spontaneamente la pietà filiale, la lealtà e l’amore del prossimo”. Questo principio morale è innato quindi, è interiore, e dunque una “voce” cui bisogna fare attenzione.

Così si comprende perché nelle nuove religioni, per es. nel Tenrikyo - di ispirazione nettamente shinto -, il peccato è paragonato alla polvere che si depone su uno specchio e ne deturpa la nitidezza pura della superficie; è sufficiente impegnarsi a ripulire lo specchio; d’altra parte un kami irritato dalle parole o dalla condotta di un uomo può dargli un avvertimento sotto forma di avvenimenti misteriosi infelici. Ma l’uomo deve assumere la responsabilità di fare tutto ciò che è in suo potere per ritrovare il suo stato normale di purezza.
Lo Shinto non nega l’esistenza della colpa morale né del peccato religioso. Ponendo l’uomo all’interno della natura, lo Shinto scopre in questa natura le leggi che reggono l’uomo.
Vi sono d’altra parte tre termini per definire la colpa e il peccato: tsumi, che rappresenta il crimine, la colpa, la cattiva condotta; wazawai, che significa l’infelicità, la prova, la calamità; kegari, che evoca l’impurità, la sporcizia dell’uomo. Il criminale è responsabile del suo crimine: tsumi; ma l’impurità, kegari, e le disgrazie, wazawai, non comportano lo stesso grado di responsabilità, benché la loro condotta imprudente o insensata possa avervi una parte.
Già nei suoi scritti più antichi, lo Shinto aveva cercato di trasporre questo problema morale sul piano mitologico; lo fece mediante la teoria dei tre mondi: la Alta Pianura del Cielo che è l’abitazione dei kami; il mondo di questa Terra; il mondo sotterraneo della Notte Tenebrosa. Questi tre mondi hanno ognuno i loro dei che, seppur separati, hanno tra di loro una costante comunicazione. Può accadere perciò che gli dei del Cielo, alleati a quelli della Terra, si sforzino di contrastare l’azione nefasta dei kami del mondo tenebroso, che non cessano di apportare agli uomini degli infortuni, dei disastri (wazawai), delle impurità (kegari) che impediscono ad essi di vivere un’esistenza normale e li incitano alla cattiva condotta (tsumi).
Dalle tre forme di colpa o peccato citate, vennero poi dedotte delle serie di singole colpe; ma esse confondono più volte il male morale con ciò che è fortuito e causa immediata di disgrazia.
Nello Norito Nakatomi, la Preghiera della Grande Purificazione dove le colpe vengono enumerate, non si intende dare una lista completa ed esaustiva dei peccati; sappiamo ad esempio che già nel Giappone antico erano severamente puniti il furto, la mezogna, lo spergiuro.

Scrive Alfonso Di Nola nella Enciclopedia delle religioni da lui curata: “L’elenco fondamentale dei peccati è nella preghiera della Festa della Grande Purificazione  e comprende 21 peccati, dei quali 7 sono detti ‘celesti’ (ama-tsu-tsumi) e 14 terrestri (kuni-tsu-tsumi). I peccati celesti, che corrispondono a quelli commessi da Susano-wo contro la sorella Ama-terasu, sono i suguenti: 1. distruggere gli argini di separazione delle risaie; 2. colmare i fossi di irrigazione, impedendo il deflusso delle acque; 3. aprire le chiuse dei depositi di acqua; 4. spargere nuovo seme su un terreno già seminato; 5. affondare oggetti puntuti nelle risaie, rendendo difficile il lavoro dei contadini; 6. scorticare vivo un animale, o scorticarlo in senso contrario; 7. deporre escrementi (sul terreno coltivato?). In questo elenco sono presenti in prevalenza norme che si riferiscono alla coltivazione delle risaie, perfettamente comprensibili, accanto ad una regola di evitazione (quella dello scorticamento dell’animale vivo o in senso contrario), la cui origine non è accertata. Si esclude, in ogni caso, che la norma sia stata dettata da sentimenti di pietà verso gli animali. I peccati terrestri sono: 1. tagliare la pelle viva, per il rischio di provocazione connesso con lo spargimento del sangue, considerato impuro; 2. tagliare la pelle morta, per l’impurità propria dei cadaveri; 3. l’albinismo; 4. il kokumi, che è forse una condizione morbosa ripugnante; 5. l’incesto con la madre; 6. l’incesto con la figlia; 7. l’incesto con la figliastra; 8. l’incesto con la suocera; 9. l’accoppiamento con gli animali; 10. il contatto con animali striscianti o la loro morsicatura; 11. la ‘calamità degli dei dell’alto’, cioè la folgore; 12. la ‘calamità degli uccelli dell’alto’, ossia l’impurità derivante da escrementi che gli uccelli possono lasciar cadere sul cibo; 13. l’abbattimento degli animali domestici altrui; 14. la pratica della magia. Nel secondo elenco, talune condizioni fisiche ritenute impure, per la loro carica ominosa (l’albinismo, il kokumi) appaiono accanto ad azioni volontarie determinanti l’impurità, a violazioni di tabu sessuali e di parentela, ad occasionali situazioni considerate ominose, a violazioni di norme di convivenza e, infine, all’esercizio della magia malefica. Caratteristica, perciò, della morale shintoista sono la confusione e la varietà delle occasioni di provocazione del divino, considerate indipendentemente dal loro specifico valore (magico, sociale, rituale, ecc.) come cause della codizione di impurità rituale”.

D’altra parte bisogna tenere presente l’insistenza con cui lo Shinto persegue un ideale di purezza, non solo corporale ma anche spirituale; e l’accento è posto sempre sulla costanza nello sforzo che il ritorno allo stato normale di purezza esige. Esiste una responsabilità per ogni essere umano, che consiste nel vivere una vera vita shintoista, pura, limpida, diretta e onesta, nelle condizioni e nei luoghi in cui gli dei lo hanno chiamato a lavorare.
E questa è appunto la via dei kami, la kannagara-no-michi. Secondo la maggioranza degli studiosi, il vocabolo Shin-to (il cammino degli dei) è sinonimo dell’espressione Kami nagara no michi (kannagara è una contrazione di kami nagara).

- Tasuku Harada (teologo): “Per michi, cioè la Via, si intende un concetto misterioso, informulato e tuttavia influente, accompagnato da timore religioso e solennità. Il termine michi è probabilmente il più espressivo di tutto il vocabolario giapponese in materia di etica e di religione. All’origine, e anche nella lingua corrente, significa sentiero o strada; in religione e in etica significa via, insegnamento, dottrina, oppure, come a volte lo si traduce, principio (l’equivalente cinese sarebbe tao). Un uomo di michi è un uomo di carattere, un giusto, che ha dei principi e delle convinzioni e che obbedisce alla natura della sua umanità. Accusare qualcuno di essersi allontanato dal michi è un insulto, perché ciò implica una perversità verso ciò che è essenziale nell’uomo. Michi è una componente ricevuta dal Cielo, è l’ideale celeste che deve essere realizzato nell’umanità. La moralità è michi, cioè l’armonizzazione della vita con l’ideale, e pensiamo che la ragione stessa costituisce l’essenza del michi. Michi esprime una convinzione profondissima e sincera che stringe l’uomo in modo solennemente impressionante all’altezza e dalla profondità del Grande Tutto. Implica che l’essenza della vita umana sia legata ad una vita sovraumana. Kannagara-no-michi rappresentava l’ideale religioso del popolo, una ‘obbedienza inconscia alla Via’, che è il corso della Natura; il quale è la volontà degli dei. Fede totale nella giustezza di ciò che è naturale. Come diceva in un suo poema Michizane Sugawara: ‘Se nel segreto del mio cuore / io seguo la Via sacra / gli Dei certamente mi hanno nel loro cuore / anche se non gli rivolgessi alcuna preghiera’ ”.