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Latouche e la bugia dello sviluppo sostenibile

di Mario Cutuli - 10/01/2006

Fonte: filosofiatv.org

 

 

“Il concetto stesso di «sopportabilità» è una pura mistificazione, visto che questo sistema di mercato ha sempre imposto di sfruttare le risorse naturali e umane per trarne il massimo profitto: neanche la morale e la cultura servono da freno”.

Ne è fermamente convinto Serge Latouche, docente di storia del pensiero economico all’università di Paris XI, da non pochi considerato un intellettuale “scomodo”, una voce contro, un catastrofista, sempre pronto a denunciare le inevitabili conseguenze del mito dell’illimitato progresso, a smantellare la convinzione che “tutto è mercato”, a sostenere la deleteria tesi dell’economia intesa come fine ultimo dell’agire, piuttosto che come semplice mezzo; insomma uno dei tanti suggestionati, se non l’ispiratore, delle tematiche dei cosiddetti new global. Sta di fatto che il suo presunto catastrofismo si traduce nel rifiuto del pensiero utilitarista e universalista, nell’appello a rinunciare alla dissennata corsa verso consumi sempre crescenti, non solo per motivi ecologici che mettono in discussione il futuro del nostro pianeta, ma soprattutto per debellare la miseria  materiale e morale.

Insomma, il “tutto mercato”, gli effetti devastanti prodotti dalla logica economica e globalizzante, si combattono con la necessità, ma forse è il caso di dire con la saggezza, di organizzare la “decrescita”, senza la quale il pianeta è condannato a esplodere. Per Latouche, insomma, “sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica” appaiono strettamente legate. I limiti del “capitale naturale” non pongono solamente un problema di equità intergenerazionale nella condivisione dei beni disponibili, ma un problema di equità tra i membri dell’umanità attualmente viventi.

Ma “Di più” non significa “Meglio”…

Altro che “globalizzare”! Occorre piuttosto “decolonizzare”, “diseconomizzare” e leggere il mondo e il rapporto con i nostri simili da un’altra ottica. Occorre “rinunciare all’immaginario economico, cioè alla credenza che “dì più” significhi “meglio”. Il bene e la felicità possono realizzarsi a minor prezzo. La saggezza afferma generalmente che la felicità si realizza nella soddisfazione di un numero sapientemente limitato di bisogni.

La riscoperta della vera ricchezza nella pienezza delle relazioni sociali conviviali in un mondo sano, può realizzarsi con serenità nella frugalità, nella sobrietà e addirittura in una certa austerità nei consumi materiali.“Con la caduta del muro di Berlino - dichiarava tempo fa Latouche -, aziende e mercati avevano annunciato ufficialmente che il pianeta si era unificato.

Poi, l’avvento della globalizzazione ha mandato in frantumi il quadro statale delle regolamentazioni, permettendo alle disuguaglianze di svilupparsi senza limiti e segnando la comparsa del cosiddetto “trickle down effect”, ossia la distribuzione della crescita economica al Nord e delle sue briciole al Sud…. Dal 1950, la ricchezza del pianeta è aumentata sei volte, eppure il reddito medio degli abitanti di oltre 100 Paesi del mondo è in piena regressione e così la loro speranza di vita; si sono allargati a dismisura gli abissi di sperequazione: le tre persone più ricche del mondo possiedono una fortuna superiore alla somma del prodotto interno lordo dei 48 Paesi più poveri del globo”. L’analisi di Latouche è tutt’altro che pregiudiziale; pregiudiziale è, semmai, il sospetto con cui si guarda alla lettura lucida proposta in scritti quali “Giustizia senza limiti”. “La sfida dell’etica in un’economia mondializzata”, “L’occidentalizzazione del mondo”, “Il pianeta dei naufraghi”. “Saggio sul doposviluppo”, “Razionalità occidentale e ragione mediterranea”, saggi che sono una severa condanna dell’“Universalismo”, riflessioni che si inscrivono, all’interno di una lettura lucida e disincantata dei meccanismi propri di una società consumistica, per denunciare la tesi dell’illimitatezza dello sviluppo, o l’opportunità di “Decolonizzare l’immaginario” come recita il titolo di un’altra sua opera significativa.

No al “pensiero unico”…

Il rifiuto dell’universalismo globalizzante fa tutt’uno con quello del cosiddetto “multiculturalismo”, che pretende di riscoprire e recuperare, antiche culture, con la denuncia di chi “colonizza le menti delle persone distruggendo al tempo stesso i loro mezzi di sussistenza”…. “Quando si fa bere la Coca-Cola a delle popolazioni africane o latino-americane, si distruggono le imprese locali, l’artigianato locale, le tradizioni locale, in cui ci sono bevande particolari come succhi di frutta o succo di canna da zucchero, etc. La stessa cosa avviene per l’alimentazione, con McDonald’s e il fast food, e per la musica: si esalta la musica folk, la musica etnica, ma tutto ciò in realtà passa attraverso una formattazione hollywoodiana, americana…”. E fa ancora tutt’uno con la negazione della tesi di chi crede in uno “sviluppo sostenibile”, “vivibile” o “sopportabile” perché “lo sviluppo è sempre stato contrario all’idea di sostenibilità, poiché ha cinicamente imposto di sfruttare risorse naturali e umane per trarne il massimo profitto… e nasconde la lenta agonia del pianeta”; con la condanna di chi è convinto che “niente è proibito, se porta lo sviluppo. E non serve da freno la morale, né la cultura. Il “pensiero unico” del mercato annulla perfino le identità nazionali: desideriamo gli stessi beni e quindi siamo tutti uguali”. E’ da questa analisi dell’economista francese che, con la collaborazione di Alain Caillé, nasce il Mauss (Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali), con la dichiarata intenzione di un recupero forte di un mondo vivibile e di una giustizia che non si risolva in un verbalismo, e non con quella di esasperare una lettura catastrofica del presente, ma soprattutto del futuro. Che anzi, a questa accusa Latouche reagisce facendo notare che “quello che dico è sotto gli occhi di tutti: la concorrenza esacerbata spinge i Paesi del Nord a manipolare la natura con le nuove tecnologie e quelli del Sud ad esaurire le risorse non rinnovabili. In agricoltura, l’uso intensivo di pesticidi e irrigazione sistematica e il ricorso a organismi geneticamente modificati hanno avuto come conseguenze la desertificazione, la diffusione di parassiti, il rischio di epidemie catastrofiche. Il collasso del pianeta si avvicina, insomma, ma invece di lavorare a un’alternativa che eviti la fine delle risorse naturali, si continua a ragionare su correttivi più o meno efficaci, sulla sostenibilità appunto. Ma così si confonde il morbo con la cura”. E’ ormai tempo di “levarci dalla testa il martello dell’economia, di decolonizzare il nostro immaginario dai miti del progresso, della scienza e della tecnica”, di rifiutare l’illusione dell’onnipotenza di un “assolutismo razionale” che crede di poter assoggettare ogni cosa al suo volere.

                                                                                        

Da “La vita del popolo” Treviso, n.39, 2005