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La mano sulla pietra

di Matteo Meschiari - 18/09/2005

Fonte: www.matteo-meschiari.com

La mano sulla pietra

Arte paleolitica e poetiche della terra

di Matteo Meschiari 

(da Poetica del terreno)

e da "Lato Selvatico"(pubblicazione della Rete Bioregionale Italiana, n. 27, Equinozio d'Autunno 2005, per info: Giuseppe Moretti morettig@iol.it  - tel. 0376/611265)

 

1. La vita sulla terra è più antica di qualunque paesaggio esistente. Il suo particolare statuto ontologico ci permette di riconoscere in una ghianda qualcosa di più antico di ogni pietra islandese o bretone, e le radici che metterà in terra sono fin d’ora e sono state quei paleo-organismi che agitarono di vita il mare primordiale. Se allora devo pensare all’arte con un’immagine del mondo naturale preferisco pensare alla pietra, meno accesa, meno malleabile della vita, ma in grado di assumere forma e significato sotto le dita di un uomo. La pietra, perciò, tornerà spesso in questi appunti, che cercano una via per parlare oggi, e in termini concreti, di un linguaggio universale nell’arte di paesaggio, di una matrice unica nei modi di rappresentare e pensare la terra. Della pietra, poi, scelgo solo alcuni aspetti. Quello geologico ad esempio sarà appena sfiorato, mentre la pietra scheggiata, graffita e dipinta del Paleolitico sarà il terreno costante della mia riflessione. Credo infatti che la civiltà dei Cacciatori Arcaici, iniziata circa 40.000 anni fa, conserva intatti, nelle manifestazioni dell’arte rupestre, tutti gli elementi decisivi per pensare gli sviluppi futuri delle poetiche orientate alla terra.

Sul mio tavolo ho alcuni libri: Origini dell’arte e della concettualità di Emmanuel Anati, Sol absolu di Lorand Gaspar, Fundaciones di Juan Liscano, Le plateau de l’Albatros. Introduction à la géopoétique di Kenneth White e un catalogo delle opere di Richard Long. Fuori dalla finestra si agita la chioma di un grande ippocastano. Nasconde la linea in foschia degli Appennini.

 

2. Circa 10.000 anni fa si verificò un cambiamento radicale del clima. Da qualche decina di migliaia di anni il freddo artico era dilagato a Sud e i paesaggi dell’Europa si erano trasformati in terre glaciali, con deserti freddi, brughiere e grandi complessi di ghiacciai. Poi, per ragioni non chiare, la temperatura globale aumentò, e il paesaggio mutò nuovamente. Con lo sciogliersi dei ghiacci i mari si sollevarono di un centinaio di metri, le pianure furono allagate, distese d’acqua immense occuparono le depressioni e molte terre si fecero paludose. Mammut e rinoceronti lanosi si estinsero, e l’uomo fu costretto a modificare le proprie abitudini alimentari. Il clan, che aveva ragione di esistere per imprese collettive di caccia ad animali di grossa taglia, si spezzò. I grandi bivacchi divennero piccoli insediamenti, il nucleo famigliare si circondò di una nuova solitudine mentre un’arte e un’ideologia religiosa uguali a se stesse da millenni entrarono in crisi. Proprio nel periodo in cui si consolidava l’ultimo grande mito comune, quello del diluvio, riflesso del sovvertimento idrogeologico del primo post-glaciale, il resto dei saperi si frammentava, si sperdeva, oppure si rinnovava in modo autonomo e locale, e l’arte, probabilmente la lingua e la poesia, assumevano tratti regionali e vernacolari.

Questo processo, innescato col concludersi della grande Era Glaciale, si è protratto senza interruzione fino alla fine del nostro millennio, fino a una quarantina d’anni fa. Poi è iniziata una fase in controtendenza, e proprio in questi ultimi tempi la rete planetaria delle comunicazioni ha aperto una nuova crisi, anzitutto una crisi di identità. Ci si è resi conto che una dimensione globale della cultura è un fatto concreto e ben avviato, e che, per converso, ogni regionalismo e folclorismo del sapere - non i saperi regionali e i folclori - sono un penoso anacronismo. Ecco allora che l’Occidente va in Oriente per criticarsi, qualche poeta lungimirante va all’estremo nord o all’estremo sud del pianeta per criticare i grandi centri, mentre le nuove epistemologie criticano tutto a 360 gradi. È come se ci si fosse resi conto che le terre da esplorare sono finite, o che è finito il modo classico di esplorarle. Dove possiamo andare?

 

3. L’Homo sapiens, dunque la nostra arte e la nostra concettualità, sono nati in Africa, in una specie di crogiolo delle razze in cui la ricerca genetica naturale ha sperimentato molte vie per trovare la formula migliore, quella che garantisse il massimo di sopravvivenza al genere umano. Non più mandibole in grado di frantumare ossa e noci, ma una qualità interiore destinata a diventare attitudine, la curiosità. Al contrario dei gruppi ominidi precedenti, che tendevano a radicarsi per sempre in un territorio, l’Homo sapiens, per ragioni esterne ancora ignote, ma sorretto certo da una forte curiosità, si mise in viaggio, e arrivò nel giro di diverse generazioni a colonizzare i cinque continenti. Il suo bisogno di esplorazione lo portò ai limiti delle terre che aveva percorso, e proprio dove non poteva andare oltre produsse pensiero più che altrove.

La massima concentrazione di arte rupestre sembra infatti collocarsi, nei vari paesi, a un vicolo cieco di una migrazione. L’area franco-cantabrica si scontra con l’Oceano Atlantico, il sud della Spagna ha un ostacolo nello stretto di Gibilterra, l’estremo sud dell’Australia ha davanti la barriera dell’Oceano Indiano, la Patagonia è l’ultimo lembo camminabile prima di un altro Oceano, e così pure l’Africa meridionale. In tutte queste aree l’Homo sapiens ha dovuto arrestare il cammino fisico, ma attraverso l’arte ha potuto proseguire il viaggio, spezzando le barriere tra sé e la fine delle terre, tra sé e il sommerso che covava in lui.

A ben guardare, in questi anni, non viviamo una condizione troppo diversa da quella del nostro antenato nomade alla fine del viaggio. Abbiamo bisogno di spazio e invidiamo gli ultimi grandi esploratori del secolo scorso. Ora ogni tratto di terra è percorribile, ogni mare è sorvolabile e navigabile, e l’esigenza di movimento, di superare le prime colline nell’orizzonte africano di 40.000 anni fa è sempre viva e corroborata da nuovi eventi. Mai come in quest’epoca in cui sono finiti i grandi viaggi si parla di viaggio, mai come ora si tenta di rivitalizzare la cultura attraverso uno spirito nomadico. Il nomadismo intellettuale è così misura di un’inquietudine risemantizzata dai tempi, e in altro grado, quando resta aderente alle tematiche della terra, è  reazione alla minaccia quasi irreversibile che incombe sull’ambiente. Siamo dunque arrivati al limite delle terre emerse. È il continente sommerso che occorre esplorare, e probabilmente l’eredità dei grandi geografi-esploratori dell’Ottocento ha disertato i dipartimenti di geografia ed è passata direttamente nelle mani degli artisti e dei poeti.

 

4. Non credo sia per caso che la moderna arte di paesaggio - penso alla pittura inglese e tedesca - sia nata e si sia sviluppata a misura dell’emergere e dello sviluppo della civiltà industriale. Ma non credo che il rapporto sia diretto, cioè non credo che l’attenzione per il dato naturale sia riflesso della progressiva distruzione della natura. Piuttosto, penso che una più generale presa di coscienza dei limiti dell’era tecnologica abbia aperto la cicatrice di una vecchia nostalgia, che non è quella solo retorica per una perduta infanzia naturale, per un mondo in cui uomo e natura erano tutt’uno, ma, di là da vuote mitologie, è la stessa nostalgia ‘post-glaciale’ per una reale unità perduta, quella di un modo universale di vedere, pensare e rappresentare lo spazio.

Come i nostri antenati alla fine del Paleolitico, ci troviamo a dubitare dei monumenti consolidati delle culture, ma diversamente da loro abbiamo anche la reale occasione intellettuale di scegliere, contro il vernacolare e la chiacchiera, per il fondamentale e l’universale dell’arte e del pensiero. In una crisi di così vaste proporzioni, in cui l’esigenza più urgente è diventata quella di scolpirsi un’identità, assistiamo invece all’accendersi di piccoli focolari privati da cui si difende lo ‘spazio vitale’ con aggressività estenuata. Nella cultura e nei comportamenti sociali ci si inoltra volentieri in vecchi-nuovi particolarismi, in folclorismi che nascondono il germe della solita falsa ideologia delle razze, ma alcuni artisti e alcuni poeti, spinti da esigenze diverse, stanno tentando di dire, o dicono loro malgrado, qualcosa di diverso. Una volta compreso che l’atto della scoperta si deve consumare prima di tutto dentro di sé, anche lo spazio esterno torna a essere quello vergine di 40.000 anni fa: un’intera terra da esplorare con le audaci ricognizioni dell’arte, e anche da ripercorrere con quelle vecchie gambe che abbiamo sempre sotto il corpo.

Il sistema contemporaneo di pensare e di costruire lo spazio è una specie di enclosure, una privatizzazione degli antichi commons naturali. Il risultato è un inurbamento e una specie di proletarizzazione del corpo, come direbbe uno storico dell’età industriale. Resta comunque il fatto che le poetiche filo-urbane, filo-tecnologiche, filo-cibernetiche sono lo strumento di un sistema grottesco di assoggettamento. Chi accetta di avere un corpo sedentario e di sostituire allo spazio reale lo spazio virtuale, diventa un membro regolare della società, e per questo viene premiato. Ma l’irregolarità di un uomo che cammina liberamente da un campo all’altro è l’unica via possibile, sicuramente la più diretta, per disubbidire all’immobile e per rimettere in movimento lo spazio.

L’arte di paesaggio, fino a ieri, era il sintomo del riemergere di una vecchia nostalgia. Oggi può essere il mezzo per acquisire una nuova consapevolezza oltre i limiti imposti. Non si tratta, adesso, di superare solo le chiacchiere particolari, ma di trovare un terreno comune in cui scavare i termini e i modi di un pensiero fondamentale. Mi piacerebbe che questo terreno comune fosse il paesaggio, il paesaggio camminabile.

  

5. Credo che oggi più che in ogni altra epoca camminare significhi mettersi in risonanza diretta con l’Homo sapiens di 40.000 anni fa. Rinunciare a un mezzo meccanico per arrivare a piedi da qualche parte ha in sé qualcosa dei ritmi e delle opportunità delle grandi migrazioni. Si tratta infatti di rinunciare, almeno temporaneamente, ai ritmi sincopati del tecnologico, e riguadagnare al corpo una gestualità biologica e tranquilla. Lo spazio urbano sembra in questo il meno adatto, soprattutto perché nella massima parte dei casi non l’abbiamo scelto - e costruito - noi. Lo spazio naturale, invece, non è più come un tempo una scelta obbligata, ma solo una scelta, e come tale è legato a doppio filo alla curiosità dell’individuo: non ho scelto la città ma posso scegliere il paesaggio. Una ragione sufficiente per farlo.

Le migrazioni dell’Homo sapiens appartengono al grande patrimonio epico dell’umanità. Non c’è nessuna nostalgia ‘primitiva’ nel prenderle a modello o a termine concettuale di confronto. Il punto è che a quell’epoca si sono fatte scoperte artistiche e concettuali che tutta l’arte successiva ha poi conservato in forme più o meno mascherate. Capire motivazioni e contesti di quell’arte non significa capire solo un nocciolo cruciale delle nostre origini, ma riattivare da diversa angolatura quei meccanismi che presiedono a tutt’oggi al gesto artistico, e che invece languiscono sotto migliaia di sedimenti culturali. Alzare gli occhi a una pietra graffita o dipinta venti migliaia di anni fa significa guardare direttamente ciò che ci assilla da 40.000 anni; direttamente, cioè senza quelle strutture cognitive superimposte che la logica greca e i saperi particolari ci hanno regalato.

Camminare nei paesaggi, allora, mettersi in risonanza fisica con le antiche migrazioni, è forse il primo gesto concreto, immediato e consapevole per ammorbidire la rigidità delle architetture materiali e mentali che abbiamo ereditato. Camminare significa ridurre l’eccesso di vibrazione dei messaggi cibernetici, che tremano così tanto da rasentare la paralisi. Camminare significa disarticolare gli snodi obbligati, e mettere in movimento il corpo è mettere in movimento lo spazio, un primo passo per superare lo stretto di Gibilterra. Di artisti e poeti che non camminano c’è da fidarsi solo a metà.

  

6. Quasi ovunque nel mondo è attestata un’arte rupestre riferibile alla fase paleolitica dei Cacciatori Arcaici. L’aspetto fondamentale è che queste manifestazioni presentano tra loro molti tratti in comune, nelle tematiche, negli stili, nelle tecniche di esecuzione e soprattutto nelle associazioni sintattiche che legano figura e figura. Questo ha permesso di formulare l’ipotesi che l’arte sia nata in un solo luogo, e che l’Homo Sapiens l’abbia portata ovunque come patrimonio irrinunciabile della sua specie. In Tanzania, in Algeria, in Australia, in Europa, in Siberia si trovano opere rupestri che mostrano indizi di una matrice comune, e tali indizi coincidono poi con quei paradigmi e quegli archetipi dell’arte che esistono tuttora, e che riemergono di tanto in tanto con carica eccezionale nelle opere delle menti meno conformiste.

Nella grotta di La Pileta, in Spagna, si può osservare tra le altre cose la sagoma stilizzata di un cavallo di circa 15.000 anni fa. All’interno della sagoma si vede una serie di piccoli segni paralleli abbinati a due a due, per un totale di dieci coppie. Più in alto, sopra la testa del cavallo, c’è un quadrilatero dai cui lati partono con grande energia dei raggi che sembrano eseguiti in preda a una forte emozione. In questa sintassi di figure è contenuta tutta l’ars poetica dal Paleolitico a oggi, e un primo modo per riconoscere in essa dei tratti di attualità è prendere in considerazione tutto ciò che nell’arte rupestre è ripetizione di segni o di sequenze, magari istituendo un confronto con testi letterari di varie epoche e varie etnie.

L’epica antico-francese si dice sia caratterizzata da un’estetica della ripetizione: ripetizione di unità minime e massime, di sintagmi, di frasi, di gruppi di frasi. Si parla di estetica ma è in realtà l’indizio di un’esigenza più profonda, di una concettualità che vede nell’accumulazione e nella variazione un metodo binario per imbrigliare la molteplicità degli eventi, per ricordarli e poterli rinarrare. Le liste catalogiche di certi antichi testi germanici e celtici, dell’epopea di Gilgamesh o di George Perec, compilate queste ultime appena vent’anni fa, sono tutte espressione di un’unica ansia antropologica, quella di trascegliere nella sovrabbondanza dei fenomeni e di conservare ciò che conta. Anche i testi sciamanici mostrano questa esigenza, con l’aggiunta di uno scopo ulteriore e immediato, che è quello di bussare ripetutamente a parole contro la parete che ci separa dall’ignoto. Per risalire a un’età anteriore a Gilgamesh occorre abbandonare la letteratura. Si può trovare qualcosa di simile nelle impronte di mani a Rio Chubut, in Patagonia, databili a circa 12.000 anni fa. Qui la moltiplicazione del segno è una stupenda anafora visuale che prova l’esistenza in chi le fece di un duplice modo della lingua: uno normale e strumentale, l’altro poetico. Quando una parola è ripetuta in sequenza più di due volte si entra in un diverso registro della comunicazione. È lo stesso principio del ritornello, della nenia, della preghiera, dello scongiuro, e lo scopo non è più quello di comunicare la cosa, ma di averla.

Ora come ora ci sfugge il messaggio linguistico e poetico di molta arte rupestre, ma il cavallo nella grotta spagnola di La Pileta ci dice con immediatezza il principio che regola l’elaborazione di un messaggio artistico: il quadrupede come nucleo associativo fondamentale, come centro di gravità semantica e sintattica, l’anafora dei segnetti, per insistere su un concetto, su un desiderio, su un’ossessione, e infine l’esplosione emotiva del rettangolo raggiato; il tutto per creare un sistema di coordinate, quella stessa rete in cui sono rimasti impigliati i messaggi universali e particolari di Gilgamesh e Perec. Proviamo allora a riconoscere anafore, strofe, ritornelli, lasse similari nelle grotte del Castillo in Spagna, di Kiesese in Tanzania, di Niaux in Francia o nel Tassili algerino e nelle pietre di Alam in Arabia Saudita. Potremo capire meglio che quando si isola un nucleo figurale e concettuale, lo si allaccia a un ideogramma ripetuto più volte, e magari si dinamizza il tutto con l’espressione impulsiva di una forte emozione, è come bussare contro la pietra. E in molti casi, da allora, il diaframma si deve essere aperto.

  

7. Come combinare riflessioni su archetipi e paradigmi dell’arte, e paesaggio, il paesaggio camminabile? L’idea che ci si fa osservando l’attuale crescendo di attenzione di arte e poesia per le tematiche naturali - fino a far nascere vere e proprie filosofie e poetiche della terra - è che nel paesaggio sembra contenuto tutto lo spazio reale e spirituale di cui abbiamo bisogno per recuperare una visione fondamentale delle cose.

A Sonico, in Valcamonica, c’è un’incisione rupestre che rappresenta a prima vista un bambino in fasce, ma le fasce sono in realtà un sistema di linee topografiche. L’abbinamento di una figura antropomorfa e di una mappa assume così un valore cosmologico, come inserire il particolare dell’uomo nell’universale della terra, come adeguare la vita ai ritmi del cosmo. Probabilmente il graffito di Sonico rappresenta più semplicemente un idolo solare, ma ci suggerisce anche che l’abbinamento concettuale tra due realtà fondamentali non produce un significato puro e semplice, ma accende un significato prima di tutto poetico.

Il paesaggio, ignorato quasi completamente dall’arte rupestre, sfiorato appena nelle migliaia di anni successivi e corteggiato per la prima volta solo dall’uomo tecnologico, è un terreno ultimo su cui si può affrontare lo stallo culturale che ci ossessiona. Il paesaggio, cioè, con la sua ampiezza, la sua complessità, sembra l’ultima realtà che, al di sopra di ogni particolarismo, attingibile da qualunque cultura e in concorrenza con le stesse religioni storiche, è in grado di parlare oltre la diversità delle lingue di un concetto globale della natura, di un insaziabile desiderio di armonia con essa; qualcosa che, col dualismo maschile-femminile, cielo-terra, luce-buio, doveva anche costituire la matrice della concezione del mondo del Cacciatore Arcaico. Qui, ovviamente, la nostra strada e la sua sono divise da millenni di secolarizzazione, ma è anche vero che la nostra memoria storica è occupata per molta parte da conoscenze irrilevanti, aneddotiche, false. Rimettere in discussione concetti e idee servendosi come pietra di paragone della realtà primaria del paesaggio, può aiutare a fare nuova chiarezza, cominciando dall’arte, e magari arrivando a toccare i bisogni fondamentali dell’uomo.

I messaggi dell’arte rupestre sono segni che additano un’ipotesi di lavoro, ipotesi che comunque non va confusa con l’imitazione avviata in questo secolo dell’arte primitiva e tribale. Intendo piuttosto una verifica dei contenuti dell’arte alla luce dell’autenticità e immediatezza dell’arte rupestre. Per fondare ad esempio un’idea di paesaggio che abbia i tratti di una categoria irrinunciabile del pensiero, occorre prima liberarla da una serie già enorme di preconcetti.

  

8. Si pensa che il germe della differenziazione tipologica e stilistica dell’arte paleolitica sia stato il contesto ambientale, la diversa topografia dei territori. Anzitutto molte zone di arte rupestre appaiono periferiche, cioè lontane da siti più densamente popolati, come se un ambiente meno saturo di distrazioni quotidiane e sociali avesse favorito la riflessione artistica. Ma la natura determinava anche delle scelte obbligate, e se in Europa la coppia cosmologica era quella del cavallo e del bisonte, in Africa non poteva che essere quella della giraffa e dell’elefante. In entrambi i casi, però, non è difficile riconoscere la matrice dualistica comune, come dire che diversi sono i segni ma identica è la concettualità sintattica che li allaccia. Tra le tracce di una visione arcaica unitaria in grado di fornire un motivo di riflessione per l’arte odierna, c’è quella del particolare rapporto segno-significato. Si pensa infatti che il Cacciatore Arcaico si valesse di facoltà simboliche e di astrazione, ma che la sua arte, anche quando priva di riferimenti figurali riconoscibili, non fosse né simbolica né astratta, almeno nel senso che diamo oggi a questi termini. Così, se la traccia dell’animale era per lui l’animale, o una parte di esso, il segno dipinto era traccia di una data realtà, presente e viva attraverso una parte di sé fissata sulla pietra. La differenza rispetto al nostro modo di vedere le cose è tutta in questo credere in un legame diretto e necessario tra segno e significato, e insomma in una concezione ‘metonimica’ del linguaggio.

Tranne singolari eccezioni invece, tutta la moderna arte di paesaggio si sforza di introdurre contenuti ulteriori nella scena naturale, e cioè tende invariabilmente a conferire una dimensione simbolica al proprio soggetto. Vittima di una particolare concezione del linguaggio, è portata a  vedere il paesaggio come il segno di un significato ancora da svelare. Cosa significa questo paesaggio? E questo invece? Ma la domanda è mal posta, perché estende alla realtà naturale la nostra visione metaforica delle cose. Evidentemente la natura è rimasta un polo semantico cruciale per la riflessione dell’uomo, ma al tempo stesso non riusciamo ad accettare che essa significhi solo ed esattamente se stessa. Se pensiamo al Romanticismo, al Simbolismo che ne ha ereditato la logica, o se prendiamo la Foresta-Farmacia di Marcel Duchamp, è facile rendersi conto che l’arte di oggi, quando si interessa alla natura, o rinuncia a pronunciare messaggi, ed esegue qualcosa di visuale ma non di semantico, o carica a tal punto il visuale di un sovrasenso che l’immagine finisce per essere un puro pretesto.

Il Cacciatore Arcaico sembrava colpito più dai particolari che dall’insieme. Il particolare era immediato e tangibile, era la traccia dell’animale, era il capo di un filo all’altro lato del quale, con legame diretto, c’era ciò-che-non-si-vede: traccia e animale, ruscello e sorgente, corpo e anima, visibile e invisibile, idolo e divinità. La sua visione del mondo non era metaforica, ma metonimica, e il suo mondo era integralmente se stesso e integralmente magico. Ogni traccia non era un’altra cosa, era la cosa, e proprio per questo Francia e Algeria erano un unico paese.

  

9. Osservando il grandioso plafond di Altamira ci si rende conto col massimo dell’evidenza che il supporto dell’arte rupestre è un elemento irrinunciabile per la comprensione dell’opera. A volte un tratto in nero andava a completare la curva di una crepa, oppure, dipingendo, si faceva coincidere il dorso del bisonte con una gibbosità naturale della pietra; in altri siti, invece, esistono esempi di formazioni rocciose dal vago aspetto zoomorfo e antropomorfo che l’uomo ha ritoccato per rafforzarne la somiglianza. In tutti questi casi sembra che il desiderio profondo sia stato quello di dare evidenza a una realtà preesistente al gesto artistico, o almeno di partecipare semanticamente alla realtà della pietra, in modo da allacciarsi e adeguarsi al mondo circostante, all’ambiente. La pietra, così, non era semplicemente un supporto, ma il filo che allacciava l’artista al resto del mondo, era il tramite materiale e metonimico tra lui e le cose profonde, o le cose elevate, o le cose lontane.

Proviamo allora a pensare a quelle volte di pietra come a terreni in cui il graffito e il colore hanno offerto un’insperata continuazione del viaggio. Pensiamo ai paesaggi come a volte di pietra. Appoggiamoci sopra una mano, spruzziamoci del colore, togliamola. Quell’impronta, quella mano che resta, siamo noi.