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Crisi globale. Non siamo alla fine del mondo. Quasi certamente siamo alla fine di un mondo

di Domenico Siniscalco - 07/07/2008

 
 

 

A un anno dal suo inizio, la crisi economica sta entrando nella fase più complessa. Negli Stati Uniti come in Europa, la crisi finanziaria si intreccia con l’inflazione e la gelata dei consumi. In questa situazione, imprese, investitori e autorità si domandano quanto profondo e quanto lungo sarà il ciclo negativo.

Lo stanno facendo i capi di Stato e di governo nel G8. Lo fanno i ministri economici riuniti a Bruxelles.

Questa domanda è naturale per chi deve prendere decisioni in campo economico e finanziario. Eppure, esistono ragioni per ritenere che questa crisi non sia ciclica ma strutturale e che il sistema economico e finanziario non sia destinato a tornare sulle tendenze precedenti, ma stia attraversando una vera metamorfosi. In tutte le grandi crisi, infatti, il sistema economico è uscito trasformato nel profondo, con nuove gerarchie di imprese e mercati e con un diverso modo di operare. Se questo è vero, occorre liberarsi degli abiti mentali del passato e intuire prima possibile le grandi direttrici del cambiamento. Il problema non è resistere alla crisi, ma anticipare il cambiamento.

Al momento l’evoluzione dell’economia è ancora confusa e indefinita. Esistono tuttavia indicazioni che il sistema stia effettivamente mutando nella sua struttura. In modo aneddotico, e senza pretese di analisi, cito alcuni elementi di novità.

L’inflazione globale rialza la testa in tutte le aree del mondo e la politica monetaria appare sostanzialmente impotente nel frenare i prezzi al consumo. I tassi di interesse, infatti, agiscono innanzitutto sui prezzi degli stock (immobili, azioni, obbligazioni). In questo contesto è ragionevole attrezzarsi a vivere con un’inflazione più elevata, nonostante gli sforzi delle autorità per contenerla.

Il sistema finanziario globale sta mutando con la scomparsa di mercati e intermediari, e con un più elevato requisito di capitali. Il prezzo del petrolio e dei carburanti continua ad aumentare e già si parla del greggio a 200-250 dollari al barile, pur in presenza dei primi sintomi di recessione. Il prezzo dei prodotti agricoli, analogamente, cresce senza sosta e rilancia scenari malthusiani impensabili fino a pochi anni fa. In molti Paesi determina un ritorno profittevole all’agricoltura. Il tasso di diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione aumenta esponenzialmente in tutte le regioni del mondo e sfida la capacità di apprendimento.

Infine, segnali più deboli, ma egualmente fondamentali. L’industria dell’auto americana è in grave difficoltà, per non aver compreso l’importanza del risparmio energetico e dei cambiamenti climatici nel progettare i propri modelli. E un numero crescente di genitori nelle élite inglesi e americane iscrivono i figli a scuola di mandarino, a Londra, New York o San Francisco.

Questi semplici indizi non disegnano il futuro, ma indicano l’avvio di cambiamenti strutturali, molto diversi dal ciclo tradizionale. In queste condizioni, l’economia del dopo-crisi dipenderà dalle decisioni di milioni di soggetti, tra i quali emergerà chi ha visto più lungo. Una crisi, nel senso di cambiamento, non è in sé una tragedia, se il precedente modello di crescita era insostenibile. Sbaglia dunque chi pensa a una catastrofe, come sbaglia, io credo, chi pensa semplicemente in termini di ciclo.

Non siamo alla fine del mondo. Quasi certamente siamo alla fine di un mondo.