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L’Occidente verso la bancarotta? Una crisi globale senza sbocchi

di Luigi Tedeschi - 30/07/2008

 

 

L ’Italia attuale sembra vivere con impotente rassegnazione una crisi sistemica dissolutiva, sia economica che politica che sta gradualmente distruggendo le certezze di mezzo secolo di relativo benessere ed ignavia culturale e morale. La decadenza è evidenziata dal calo dei consumi, dallo stallo ormai quasi decennale della crescita. Infatti il livello elevato dei consumi che ha costituito un elemento in grado di esorcizzare la mancanza di senso dello Stato, il vuoto spirituale generato dalla scomparsa dei valori comunitari, la fuoriuscita dell’Italia dalla storia del novecento. Il sistema economico e politico italiano ed europeo è oggi configurabile come un’area di mercato interno all’occidente a guida americana e pertanto, è coinvolto direttamente nelle sue ricorrenti fluttuazioni, senza avere la possibilità di contrastarne gli effetti devastanti, data la cronica assenza di sovranità politica europea. La teoria degli economisti liberali, secondo cui l’America avrebbe rappresentato il motore dello sviluppo mondiale che trainasse l’economia europea, subisce oggi una clamorosa smentita, dato che la crisi americana non è legata a cicli di trasformazione ricorrenti, ma bensì sistemica e quindi, si identifica con la decadenza di un modello globale coinvolgente l’intero pianeta. La crisi finanziaria scaturita dalla deflagrazione della bolla immobiliare americana, dovuta alla speculazione legata ai mutui subprime, continua a bruciare progressivamente miliardi di risorse finanziarie e ha determinato enormi trasferimenti di capitali verso i titoli del settore energetico, dando luogo al vorticoso aumento del prezzo del greggio, per la percentuale, ad oggi, del 150% in un anno. Le ricorrenti svalutazioni del dollaro, operate dagli USA per ottenere il duplice effetto di ridurre il proprio deficit commerciale con l’estero e rilanciare, tramite l’esportazione, un’economia in cronica crisi produttiva, sono a loro volta doppiamente penalizzanti per l’Europa: il ribasso del dollaro determina l’effetto immediato dell’aumento del prezzo del greggio e delle materie prime e, in secondo luogo, genera progressivi apprezzamenti dell’euro nei confronti del dollaro, rendendo meno competitive le esportazioni europee. Da parte degli esperti economici occidentali c’è la tendenza a esorcizzare il ruolo della speculazione finanziaria nella presente crisi finanziario – energetica, considerandola un fattore congenito alle dinamiche dei mercati, riversando la responsabilità dei repentini aumenti del greggio sui paesi produttori, sulla loro indisponibilità ad aumentare la produzione a fronte dell’incremento della domanda derivante dalla crescita di Cina e India, giovandosi solamente dell’incremento dei profitti dovuti agli aumenti del prezzo del greggio. L’incremento della produzione da parte dei paesi OPEC non rappresenterebbe certo una soluzione adeguata del problema: dato che l’aumento del prezzo del petrolio è dovuto alla speculazione finanziaria dei futures e non al mercato delle materie prime, maggiore produzione genererebbe solo ulteriori moltiplicazioni di futures e non il ribasso dei prezzi.

Negli ultimi anni si è accentuato in occidente il fenomeno della delocalizzazione produttiva, che ha determinato il trasferimento di interi settori trainanti della industria occidentale nei paesi meno sviluppati, i cui bassi salari hanno drasticamente ridotto i costi di produzione. Quindi, allo sviluppo dei paesi asiatici, dovrebbe far riscontro la decrescita dell’occidente. Ma la crescita asiatica non ha generato che aumenti contenuti dei consumi (data la scarsa redistribuzione del reddito in tali paesi) e comunque non in grado di determinare incrementi della domanda di greggio tali da giustificare gli attuali aumenti di prezzo. Lo sviluppo dei paesi emergenti non è quindi la causa dell’aumento del prezzo del petrolio del 150% annuo. Vi è inoltre da aggiungere che il surplus dei profitti petroliferi conseguiti dai paesi produttori non genera un circolo virtuoso di afflusso di nuovi capitali nel settore produttivo mondiale. Semmai tali capitali trovano la loro naturale collocazione nel mercato finanziario dei futures, con l’effetto di accrescere la speculazione al rialzo dei titoli relativi alle materie prime e quello di essere investiti nel debito pubblico americano, che ne riceve, quale effetto di ritorno, un sostanziale sostegno. La speculazione al rialzo, produce nei mercati un effetto secondo il quale, alla vendita di un barile reale di greggio, corrispondono oltre mille barili virtuali in titoli derivati. Da quanto precede, si comprende il ruolo centrale che riveste la finanza internazionale nella presente crisi e quanto la ragion d’essere dei suoi profitti sia legata ad una finanza virtuale che determina nell’economia mondiale recessione e sottosviluppo globale.

Si potrebbe frenare la speculazione finanziaria emanando leggi che penalizzino le banche che investano in attività finanziarie anziché nella produzione. Gli stati europei potrebbero impedire l’ingresso nei propri mercati a determinati gruppi finanziari. Ma gli accordi a suo tempo stipulati con il WTO prevedono la libera circolazione dei capitali e nessuno vuole esporsi alle ritorsioni americane e inoltre, sono gli stati stessi a favorire l’afflusso dei capitali stranieri, abbattendo essi stessi le barriere.

 

Le scelte sciagurate

della BCE

 

In questo contesto mondiale si comprende anche la miopia e l’inefficacia delle manovre della BCE, volte a fronteggiare la crisi. Gli aumenti delle materie prime, l’incremento dei prezzi, il calo dei consumi, la disoccupazione, sono, a parere della BCE, fenomeni che possono essere imputati ad un fattore ben preciso: l’inflazione. E pertanto, in una situazione di stagnazione produttiva, la BCE ha proceduto all’aumento dei tassi di interesse. L’attuale inflazione non deriva, come negli anni 70/80 da eccesso di domanda, ma dall’aumento dei costi di produzione e dei prezzi al consumo, quali fenomeni derivanti da fattori esterni, quale è appunto l’aumento del prezzo del greggio e pertanto, la presente inflazione non è davvero curabile con la riduzione della liquidità circolante, in una crisi aggravata dal diminuito potere d’acquisto dei consumatori. E’ vero che l’inflazione falcidia il valore dei salari e penalizza il risparmio, ma l’aumento degli oneri finanziari a carico delle imprese non può che generare ulteriori cali di crescita e impoverimento generalizzato. L’attuale crisi è dominata semmai dal fenomeno della stagflazione: dall’aumento contemporaneo dei prezzi e dal calo produttivo. L’unica cura possibile è costituita dagli incentivi all’aumento della produzione. Ma tali misure sarebbero possibili solo attraverso una politica di interventi pubblici in grandi opere strutturali e l’intervento dello Stato a sostegno del potere d’acquisto, con sgravi fiscali ed estensione dei servizi sociali essenziali alla collettività: occorrerebbe ridare vita al circolo virtuoso generato dalla spesa pubblica. Tali politiche sono però improponibili per i paesi aderenti alla UE, le cui economie sono condizionate dal rispetto dei parametri di Maastricht, la cui incidenza in tema di tagli alla spesa pubblica, nei periodi di crisi è maggiormente penalizzante. In realtà l’aumento dei tassi, è una misura spacciata demagogicamente come uno strumento si difesa del potere d’acquisto dei salari, ma che invece è idonea a salvaguardare i profitti finanziari, che, in tempi di ribassi, subendo il deprezzamento dovuto all’inflazione, potrebbero fuoriuscire dall’area dell’euro. L’aumento dei tassi inciderà inoltre pesantemente sui bilanci familiari, con il rincaro dei mutui e, indirettamente, con l’incremento del debito pubblico, che alla lunga comporta ulteriore prelievo fiscale.

La UE si è dimostrata inoltre inadeguata ad affrontare i problemi legati all’evolversi dell’economia mondiale. Dinanzi ai rincari del prezzo dei prodotti alimentari, dovuto al moltiplicarsi delle colture legate alla produzione di bioetanolo, appare oggi quanto mai anacronistico il contingentamento della produzione agricola europea operata allo scopo di sostenere i prezzi. L’espansione della agricoltura europea potrebbe essere un fattore trainante per la ripresa.

L’aumento del prezzo del greggio comporta inoltre automaticamente l’incremento della pressione fiscale, i cui introiti dovrebbero essere restituiti ai cittadini sotto forma di sostegno alla occupazione ed ai servizi sociali. Proposte come quella francese di riduzione dell’iva sui prodotti petroliferi sono state respinte in sede UE. Gli stessi stati europei, incrementando le loro entrate con le imposte sul petrolio, perseguono una politica di indebito arricchimento a danno dalla collettività.

Il liberismo finanziario si sviluppa nella misura in cui il debitore in ultima istanza, cioè lo Stato, è disposto a intervenire per porre rimedio ai danni causati dai crack finanziari. E’ esattamente ciò che si sta verificando negli USA a seguito dei forti ribassi in borsa dei colossi finanziari Fannie Mac e Freddie Mac, coinvolti nei mutui subprime, ma garantiti dallo Stato. Le conseguenze dei crack finanziari vengono sopportate dai popoli sotto un duplice profilo: perdita dei risparmi bruciati dalla speculazione e prelievo fiscale dello Stato per far fronte ai fallimenti incipienti causati dalla deflagrazione delle bolle finanziarie. Il risparmio e la produzione hanno dunque la funzione di supportare le follie devastanti dei mercati finanziari. La globalizzazione finanziaria produce solo fame. Come afferma Uriel: “Questo ci fornisce una lezione: il mondo della finanza si comporta come uno sciame di cavallette. Si gettano tutti insieme su una risorsa finchè non la esauriscono (prima case, ora il petrolio etc), e quando hanno desertificato un mercato si limitano a creare speculazione su qualche altro mercato”.

 

Il G-8: il volto decadente dell’occidente

 

Dinanzi a questa crisi devastante, le cui soluzioni sono al momento ignote, il recente G-8 di Hokkaido ha dimostrato, per la sua inconcludenza, la propria impotenza a controllare l’economia globale. E’ stata inoltre respinta la proposta di allargamento del G-8 alle potenze emergenti, quali Cina, India, Brasile, Sudafrica. E’ evidente l’ostilità degli USA a creare un nuovo equilibrio mondiale, che comporterebbe, tra l’altro, l’esigenza di un nuovo diritto internazionale basato su rapporti multilaterali tra le potenze continentali. E’ emersa quindi l’arroganza e la miopia di un occidente a guida americana, che vuole perpetuare un primato politico ormai in pieno declino: non si possono concludere accordi monetari efficaci, quando le maggiori riserve finanziarie del mondo sono detenute dalla Cina, paese escluso dal G-8. Anzi, Mc Cain, candidato repubblicano alla presidenza USA, vorrebbe escludere dal G-8 la stessa Russia: si vuole imporre un ordine mondiale ancora più ristretto, guidato dagli USA e composto da Europa e Giappone, da un consesso di paesi cioè, ad ordinamento liberaldemocratico, ma alleati – succubi della potenza americana, la quale peraltro si sentirebbe ancora meno vincolata alle decisioni internazionali. In realtà gli USA vogliono preservare un ordine formale per imporre, nei fatti, un ordine sostanziale basato, per quanto concerne le fondamentali decisioni politiche ed economiche: un G-2 di fatto tra USA e Cina. Gli USA impongono così un ordine bilaterale fuori da ogni vincolo internazionale, ma le cui determinazioni hanno rilevanza globale. Tra USA e Cina esiste infatti una stretta interdipendenza. Come afferma Marta Dassù sul Corriere della Sera, “L’interazione crescente fra una economia che consuma troppo e vive di deficit (l’America) e un’economia che risparmia troppo e vive di export (la Cina) sta spiazzando l’Europa”.

In questo contesto, l’anello debole è di conseguenza l’Europa, che ha perduto il proprio ruolo di interlocutore con gli USA, dato che la sua economia, in tema di export, è stata soppiantata da quella cinese e dal punto di vista politico è ormai assente in varie aree del pianeta che già erano sue zone di influenza (vedi l’Africa). L’ammissione dei paesi emergenti in seno al G-8 avrebbe potuto invece creare nuovi equilibri tra le potenze e rafforzare indirettamente il ruolo dell’Europa nel mondo quale elemento di equilibrio tra l’occidente e l’Asia. Inoltre un coinvolgimento della Cina avrebbe potuto rendere più controllabile la sua espansione economica e maggiormente vincolata alle direttive ambientali e riguardanti la sicurezza e i diritti dei lavoratori.

 

L’Italia allineata

agli USA di Bush

 

Dobbiamo infine rilevare la posizione acquiescente, ai limiti del servilismo, dell’Italia rappresentata al G-8 da Berlusconi, che si è adeguato acriticamente alle posizioni di Bush, circa il rifiuto di ammissione di nuovi membri in  seno al G-8. Gli interessi europei non sono compatibili con le strategie statunitensi e la crisi mondiale può essere combattuta solo attraverso una riaffermazione della sovranità politica ed economica verso gli USA. Berlusconi vuole invece preservare questo prestigio formale dell’Italia tra i potenti della terra e pertanto il mezzo migliore per difenderlo sarebbe costituito dalla alleanza subalterna agli USA, i soli che possono garantirla. Il millantato successo italiano è dunque l’espressione della visione politica berlusconiana, basata sul suo presenzialismo mediatico.

Il voto irlandese che ha bloccato l’approvazione del Trattato di Lisbona è stato condannato da Berlusconi, il quale si è unito al coro europeo di disprezzo per la volontà dei popoli, sollecitando, unitamente alla opposizione, una rapida ratifica del trattato stesso. Per preservare il proprio potere interno, Berlusconi delega la sovranità popolare alla BCE.

Ma la politica italiana non ha contestato Berlusconi per la sua politica servile, per questa atavica incapacità di autonome decisioni in campo internazionale. Semmai, il dipietrismo piazzaiolo e giustizialista ha voluto riaffermare la propria vetero – superiorità morale per condannare l’indegnità morale di Berlusconi a governare l’Italia, facendo appello anche a presunti scandali sessuali. Il superomismo virtuale berlusconiano a destra e la millantata superiorità morale a sinistra, sono i surrogati di del vuoto assoluto di contenuti politici determinatosi con la fine delle ideologie novecentesche. La politica virtuale, con il suo vuoto a perdere si è comunque dimostrata efficace per distruggere nelle coscienze degli italiani ogni retaggio culturale comunitario che potesse rappresentare il fondamento morale della sovranità popolare e dell’indipendenza nazionale.