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Dentro il caos dell’economia mondiale

di Marcello De Cecco - 14/10/2008

    
La crisi finanziaria globale spinge Marcello De Cecco a esaminare l’ampia gamma di concezioni del rapporto fra economia e stato nella cultura occidentale. Partendo dal confronto fra le opposte opinioni di Platone e Senofonte rispetto al ruolo sociale dei mercanti, l’autore giunge innanzitutto ad analizzare la nascita e l’organizzazione delle città mercantili durante il Medioevo.
De Cecco rivolge particolare attenzione al rapporto fra stato nazionale ed economia dopo la rivoluzione industriale, esaminando i due opposti poli del liberismo assoluto e della pianificazione economica. La ricostruzione storica è protesa a spiegare gli attuali fenomeni di crisi finanziaria e le soluzioni proposte dagli economisti.


Stati sovrani e mercati convivono da qualche millennio. Gli stati nazionali esistono invece solo da qualche centinaio d’anni, anche se siamo abituati a vederli come parte del paesaggio naturale. Anche i mercati, che hanno la stessa età almeno degli stati sovrani, abbiamo ancora l’abitudine di pensarli racchiusi entro i confini degli stati nazionali, quando invece alcuni di essi tendono quasi per natura a trascenderli, ad avere dimensioni che talvolta coincidono col mondo intero. Ed è stato sempre così, dal neolitico a oggi. Quando, in Europa, si affermarono gli stati nazionali, i sovrani e i loro governi cercarono in ogni modo di mettere i mercati a servizio della politica di potenza che era diventata la loro ossessione principale.
Questa attività prese il suo nome da Colbert, il ministro del Re Sole che più compiutamente la praticò, con risultati che alcuni ritengono eccellenti, altri deprecabili o anche solo futili. Una aberrazione miope e difensiva del colbertismo è lo stato commerciale chiuso del filosofo tedesco Johann Fichte, che riduce i mercati alla stretta dimensione nazionale, in un protezionismo statico ed eterno. Un po’ quel che avrebbe voluto Platone, uno dei più lucidi analisti dei mercati che abbiano lasciato testi scritti, e nemico implacabile di essi. [...] Platone odiava lo spirito inguaribilmente mercantile dei suoi concittadini ateniesi e tentò di ridurlo e renderlo minoritario nella sua città ideale, che pensò come una sorta di anti-Atene. Essa doveva relegare i mercanti in residenze attorno al porto, separarli dalla città, mantenerli stranieri, per evitare che la loro etica infettasse il resto dei cittadini. Giunse anche, Platone, a regolare quella che oggi si chiama microstruttura dei mercati. Vigilati da austeri funzionari statali, i mercanti dovevano negoziare tra loro e con i clienti nel modo meno rumoroso possibile, annunciando il prezzo della merce e lasciando alla controparte di accettarlo o rifiutarlo, ma senza rilanciare né al ribasso, né al rialzo. Diverso l’atteggiamento del suo contemporaneo Senofonte. Mercanti e mercati devono essere attirati entro la città, perché essi sono indispensabili al suo sviluppo. Lo stato deve costruire navi da carico, case e magazzini e dargliele a nolo. Bisogna educare i mercanti a essere buoni cittadini, facendoli a loro spese servire nell’arma di cavalleria, distinta ma costosissima. Così si stimola il loro senso di appartenenza civica e si riducono le spese statali per la difesa.
In un tempo, come il Medioevo, per tanti versi simile al nostro, mercanti e mercati sperimentano una convivenza difficile con gli stati feudali. In luoghi come l’Italia e la Germania sorgono città mercantili, dominate da corporazioni che rivendicano una propria sovranità quasi completa e una crescente estraneità alla struttura feudale. È abbastanza tipico di queste repubbliche rivendicare anche uno spazio di agibilità senza confini per le proprie attività di produzione e di scambio, anche se non di rado esse praticano quel che in seguito si chiamerà appunto mercantilismo, promuovendo le proprie esportazioni di manifatture e tentando di limitare le importazioni alle materie prime non lavorate. I mercanti giungono addirittura ad auto-organizzarsi come una sorta di repubblica internazionale, dotata di una legge dai mercanti stessi creata, e che essi amministrano da soli, la lex mercatoria, madre del diritto commerciale moderno, non a caso amatissima e citatissima dai liberisti di oggi.
Ma è opportuno anche notare che le corporazioni mercantili limitano fortemente l’accesso ai propri mestieri, privilegiando il canale familiare e difendendo i loro monopoli di attività di produzione e di scambio, Così, l’intero apparato corporazioni-lex mercatoria può esser visto anche come una struttura difensiva il cui scopo è la preservazione dei privilegi di coloro che ne fanno già parte. Così lo giudicò Adam Smith, padre della economia politica moderna.
L’arrivo della rivoluzione industriale, col prevalere del sistema di fabbrica, con l’uso del vapore e poi dell’elettricità e dei motori alimentati da derivati del petrolio, dà ai rapporti tra stati e mercati una nuova dimensione. Le fabbriche sono grandi assembramenti di operai e macchine, devono funzionare in tranquillità e continuità. Lo stato nazionale c’è già da tre secoli. Esso non solo assicura il regolare svolgersi delle attività economiche mantenendo ordine pubblico e sicurezza ma spesso suscita direttamente l’industrializzazione. Anch’essa fa parte della politica di potenza. I rapporti tra stati e mercati divengono complementari e più di prima si propone il dilemma sulla gerarchia tra queste istituzioni. A qualche intellettuale viene in mente di poter fare a meno o dell’uno o dell’altro. Liberismo assoluto o economia pianificata. Dalla teoria si passa tosto alla prassi, con risultati nel bene e nel male grandiosi.
Quando l’industrializzazione si estende a tutto il mondo e la produzione, per la caduta dei costi di comunicazione e trasporto, può essere parcellizzata e globalizzata, persino qualche costituzionalista comincia ad accorgersi dell’effetto che tutto ciò ha sul concetto tradizionale di sovranità statale. Si sostiene che la globalizzzione impone lo stato mercantile, espressione in cui l’aggettivo domina il sostantivo. A sostegno di questa tesi si citano riforme che trasformano istituzioni come la cittadinanza, il welfare state, il sistema fiscale, adattandole alla nuova realtà della produzione e dello scambio globali. Ne segue che i paesi che non si affrettano a riformare le proprie istituzioni seguendo l’imperativo mercantile mondiale entrano in crisi esistenziali pericolose.
Nei grandi paesi nuovi, emersi dalla globalizzazione, mercantilismo e colbertismo appaiono invece come unica ricetta naturale per la crescita. In questi paesi lo stato nazionale sembra ancora in grado di dominare i mercati interni e smorzare gli effetti della congiuntura internazionale. Il vangelo liberista e l’individualismo economico sono stati adattati a riti locali che privilegiano la coesione sociale e allo stato mercantile non crede nessuno. Forse proprio perché, nel periodo coloniale, molti di questi paesi ne soffrirono l’applicazione più integrale e stravolgente.
La crisi finanziaria attuale ha rimescolato a un tratto le carte, sconvolto le nuove certezze, mostrato come già obsolete o anacronistiche le riforme tanto penosamente attuate per dar vita allo stato mercantile. Gli economisti liberisti, che erano fino a ieri legione, ora si contano in poche centinaia: la maggioranza ha girato rapidamente insieme al vento.
Gli imprenditori, che già furono ancor più radicali degli stessi economisti nel loro liberismo globalizzatore, ora invocano a voce altissima e senza ritegno veloci ed efficaci interventi statali a proteggerli dagli effetti della crisi. Ci tengono a definirsi uomini (e donne) dell’industria, a distinguersi dai nuovi monatti, gli uomini (e le donne) della finanza. Ma lo stato è come la mamma: ce ne è una sola e quando la si uccide, o sopravvive decrepita per le troppe angherie subite dai suoi figli snaturati, non ci si può più rifugiare nel suo grembo, fuggendo la cattiveria del mondo. Tocca inventare una nuova madre o trovarne una adottiva. In Europa, ad esempio, chi non ha fantasia auspica il ritorno dello stato interventista, mentre i più arditi vogliono far rapidamente crescere le istituzioni europee per fronteggiare i nuovi problemi. [...]