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L'attualità di Enrico Mattei, l'imprenditore eretico

di Claudio Moffa - 27/10/2008

Fonte: mastermatteimedioriente

Cominciamo dalle fondamenta, che è allo stesso tempo cronaca dei nostri giorni, l’economia mondiale in crisi, la rovina di tantissimi lavoratori e famiglie, i timidi o difficili tentativi di reazione del capitalismo industriale produttore di ricchezza reale, ai contraccolpi borsistici della finanza transnazionale. Una dialettica oggi forte e eclatante, dopo che alla svolta del secolo il rapporto fra capitale industriale e capitale finanziario ebbe raggiunto il gap di 1 a 10, ma vecchia quasi quanto il capitalismo e già esistente al tempo di Enrico Mattei: figura eccezionale – il fondatore e presidente dell’ENI - di capitalista di stato, sostenitore del sistema misto pubblico-privato, produttore come pochi capitani d’industria italiani di “ricchezza reale” per il benessere e lo sviluppo del suo paese: a cominciare, ma non solo, dalla metanizzazione dell’apparato produttivo nazionale Come si collocava Enrico Mattei rispetto a questo allora sotterraneo confronto fra due mondi che solo certo schematismo “marxista” può ridurre ad una monolitica realtà? Disegnando le storie parallele e antagoniste di Raffaele Mattioli e Enrico Cuccia, Giancarlo Galli così inserisce nel suo Il Padrone dei Padroni. Enrico Cuccia, il potere di Mediobanca e il capitalismo italiano, la vicenda Mattei e il capitolo oscuro della sua morte, il 27 ottobre 1962: «Qualunque sia stata la causa della sua morte, fra i “nemici” si collocava, in primissima fila, lo gnomo di via Filodrammatici (…) Fu a cena da Enrico Mattei... che sentii per la prima volta nominare Enrico Cuccia… disse Mattei: “È molto bravo, sa dove vuole andare, e bisognerà fare i conti con lui. Se passa ci distrugge... Qui stanno le divisioni di Cuccia: i francesi, gli americani, i tedeschi, gli ebrei...” Baldacci [direttore del “Giorno”] fece presente che “è uomo di Mattioli, un amico”; al che Mattei scosse la testa, con un “ne riparleremo” pieno d’irritazione” » [1].  Due mondi e due visioni del mondo diversi, quelli del finanziere laico e azionista Cuccia e dell’imprenditore cristiano e democristiano Mattei: da una parte Cuccia con la sua morbosa e calvinisteggiante bramosia per il Denaro – per lui «il danaro è numero, e nei numeri risiede la geometria cosmica del potere…» [2] - e col suo progetto totalitario teso al «primato della finanza e del suo supercapitalismo sulla politica, evitando gli errori del comunismo e del keynesismo o capitalismo statalistico» [3]. Un Cuccia proiettato sul piano internazionale per il tramite del Gruppo Lazard, la grande banca dell’ ‘anticomunista viscerale’, masson-socialista e radicale ebreo francese André Meyer.Dall’altra Mattei, amico di Nasser e alleato “organico” del mondo arabo e islamico mediorientale; alieno alla sudditanza prona ai circoli finanziari ebraici dei suoi tempi ricordatigli dal sottosegretario agli Esteri Folchi in una lettera del 1957 [4], in modo non dissimile dai suoi coevi Eisenhower, come lui in contrasto con Israele durante la crisi di Suez del 1956; e forse Kennedy, con cui non a caso Mattei avrebbe dovuto incontrarsi se non fosse stato ucciso un anno prima dell’attentato di Dallas; fascista “rivoluzionario”, il diciottenne Enrico ma poi – dopo essere diventato imprenditore e aver conosciuto a Milano gli ambienti cattolici antifascisti di Boldrini - comandante partigiano durante la Resistenza, stimato dal comunista Luigi Longo. Mattei patriota convinto in un’epoca in cui il termine “patria” era tabù; edificatore di una impresa che aveva al suo centro sia un’idea di lavoro per la creazione di ricchezza reale, sia il fattore umano: “gli uomini”, come ci ricordano i filmati sull’attività dell’ENI da lui voluti e come sanno bene i suoi ex collaboratori ancora memori del suo carisma e della sua carica umana. Mattei, infine, che all’opposto dell’elitario Cuccia, una delle eminenze grigie di Tangentopoli, era stato fra i protagonisti indiscussi della costruzione della democrazia parlamentare repubblicana fondata sui partiti di massa e sulla effettiva partecipazione del popolo alle vicende politiche nazionali.  Oggi quel mondo è pressoché scomparso, con la fine del bipolarismo sul piano internazionale e, su quello interno, con Tangentopoli e l’abbandono del proporzionale, due eventi-processi sorretti dalle micidiali campagne di stampa del “centrosinistra finanziario”: eppure proprio per questo l’eredità di Mattei resta forte e suona come un monito, un esempio utile – certo in una situazione storica radicalmente diversa - su come affrontare l’attuale crisi “di sistema”.  Qualcuno ha evocato il 1848 per spiegare le agitazioni di questi giorni: non so nulla delle specifiche argomentazioni del paragone – non ho letto gli articoli di riferimento - ma comunque l’evocazione-confronto è per metà vera e per metà fuorviante: vero il confronto, perché oggi è il mondo della finanza e dell’economia borsistico-virtuale a minacciare le fondamenta di quella reale, composta di parti differenziate e fra sé anche fisiologicamente conflittuali, ma comunque entrambe sottoposte hic e nunc alla supremazia e all’anarchia distruttrice del capitale bancario-finanziario. Come appunto accadde nel 1848 descritto mirabilmente – per quel che riguarda la Francia di Luigi Filippo controllata dalla finanza dell’epoca – da Marx  nel suo Le lotte di classe dal 1848 al 1850 in Francia: una raccolta di articoli pieni di strali feroci ed “estremisti” contro “l’aristocrazia finanziaria” salita al potere con Luigi Filippo nel 1830 [5]; contro “la dinastia Rothschild”; contro gli speculatori di borsa parassitari che non erano altro secondo Marx che «la riproduzione del sottoproletariato alla sommità della società borghese» (come dire – secondo la drastica categorizzazione di Marx - la parte delinquenziale della borghesia); e con la sia pur temporanea fotografia, nel libello di Carlo Marx,  di «un compromesso tra le diverse classi» come base dell’abbattimento del trono di Luigi Filippo nella rivoluzione di febbraio del 1848: proletari e borghesi, insomma, uniti contro la cricca dei parassiti di Borsa che, speculando e usando a loro profitto il debito costante dello Stato [6], minavano la ricchezza reale prodotta dal lavoro francese co-creato - in una dialettica interna comprensiva anche di vessazioni e dunque conflitti - da lavoratori e capitalisti.Ma è falso e fuorviante, il confronto fra oggi e il 1848, per quanto appena detto: e cioè non solo perché di opposizione “proletaria” almeno per ora non se ne vede granché, ma anche perché sul piano soggettivo la protesta giovanile odierna rischia di essere strumentalizzata  proprio dagli eredi del XXI secolo di quel milieu finanziario – vera causa della crisi attuale - contro cui Marx giovane nel libello appena citato - scritto vent’anni prima delle ben diverse teorizzazioni de Il Capitale (il cui paradigma è tutto rivolto contro la borghesia industriale, fino alla assurda marginalizzazione delle figure del banchiere e del commerciante a meri “commessi” del capitano d’industria: teoria, anche all’epoca, ben opinabile) - scagliava i suoi strali infuocati. C’è già chi – ma non è Armani o Valentino – vuole mettere il vestito d’ordinanza al movimento di protesta studentesco: con rigida esclusione della kefiah, ovviamente [7]. Ora, rispetto alla dialettica odierna fra economia reale e economia bancario-finanziaria – contornata e operante da assetti istituzionali e tecnologici assolutamente diversi rispetto a quelli dei tempi di Mattei: dai comizi all’era informatica, dai partiti di massa ai partiti “leggeri” che sopravvivono senza “sezioni popolari”, solo grazie allo strapotere dei grandi mass media – non c’è alcun dubbio che oggi il fondatore dell’ENI sarebbe per il compromesso interclassista fra le classi produttive minacciate dal mondo della finanza “selvaggia”. Un compromesso che riecheggia indirettamente nella diffidenza di Mattei verso Cuccia e del quale comunque fu esempio significativo l’azienda ENI: i cui ex collaboratori di Mattei hanno sempre sottolineato lo spirito di impresa come sua linfa vitale, la coscienza di lavorare a qualcosa di grande e importante per il bene del paese, secondo costanti suggerimenti dal suo presidente: con dirigenti che si sobbarcavano volentieri impegni e riunioni extraorario senza pretendere gli esosi stipendi d’oro dei loro attuali eredi: animati da un ideale produttivistico che oggi cozzerebbe con le pietose esaltazioni del non sviluppo alla Latouche o con i miti infausti e neoconservatori dell’estremismo ecologista.     Una visione dell’impresa e del rapporto lavoratore-dirigente d’industria, quella di Enrico Mattei, che lo accomunava all’epoca a  un altro grande industriale suo coevo, anche lui promotore di una cultura industrialista e allo stesso tempo umanitaria: l’ebreo Adriano Olivetti – con cui Mattei ebbe ottimi rapporti – grande dirigente di una azienda che allora era all’avanguardia nel panorama dell’industria italiana, con i suoi prodotti eccellenti a cominciare dalla mitica Lettera 22 e con la sua “filosofia” d’impresa capace di rispetto vero per i lavoratori. Epoche storiche radicalmente diverse, dal 1848 agli anni Sessanta del secolo scorso, ad oggi: ma comunque sottese dalla stessa dialettica fra capitalismo industriale e capitalismo finanziario”puro” che sembra continuare ancor oggi, almeno in parte, o almeno in Occidente, secondo “medesimi” protagonisti: con la vicenda Fazio ad esempio, il governatore della Banca d’Italia accusato anche lui di essere un po’ come Raffaele Mattioli [8], ma sul versante della “finanza bianca” del filone Sindona-Calvi, un banchiere “eretico”, alieno all’estremismo di un principio usurario concepito come dogma: e per questo non a caso avversato – al di là di altri scontri secondari – da Cuccia finché fu un vita; dall’ “anglo-olandese” Abn Amro, che egli cercò di contrastare con l’operazione Antonveneto; da Il Corriere della sera, che rimarcò l’assenza di provvedimenti contro il Direttore della Banca centrale da parte del governo Berlusconi …La collocazione di Mattei è dunque chiara: si ritrova contro Cuccia e le sue proiezioni internazionali, a loro volta interne al più vasto mondo della finanza “laica” mondiale. Per lui, il denaro non può essere come per Cuccia obbiettivo ma strumento per costruire il benessere del paese; per lui la “patria” è valore positivo – se intesa dentro il quadro della democrazia internazionale e del rifiuto del colonialismo – e non «lo lascia freddo, ciò che conta sono le classi superiori... » come accadeva al presidente di Mediobanca [9] . Una dialettica sotterranea – quello fra borghesia produttiva o bancario-produttiva e borghesia speculatrice parassitaria della ricchezza reale - spesso non compresa al momento giusto né dai giornalisti – come lo stesso grande Baldacci prima citato – né dai politici («Cuccia rassicurava l’intero arco costituzionale: gli americani, dato il suo passato resistenzial-azionista, i comunisti che lo ritengono una “longa manus” di Mattioli, la DC e De Gasperi, data la sua amicizia col cardinale Spellman» [10]) e tenuta nascosta fino a quando è necessario, come nel caso del conflitto Cuccia-Mattioli svelato da Eugenio Scalfari dopo la morte del presidente della Comit nel 1973 [11]. Una dialettica che sembra accomunare la fine di Mattei a quella di altre personalità del mondo economico italiano entrate in rotta con lo “gnomo” di Mediobanca, l’alleato di Meyer e del gruppo Lazard: «Sindona considera il presidente di Mediobanca come uno dei peggiori nemici  - scrive ancora Giancarlo Galli - … Le cronache dell’affare Sindona (a partire dagli inizi degli anni Settanta sino alla morte, causata da una tazzina di caffè avvelenato, nel supercarcere di Voghera nel marzo 1986) restano… tuttora avvolte in una pesante coltre di nebbia. Esattamente come era accaduto per “l’incidente” aereo di Enrico Mattei, e come accadrà per l’impiccagione di Roberto Calvi… Resta la considerazione che il destino ha sempre assegnato ai “grandi nemici” di Enrico Cuccia: una tragica uscita dalla scena di questo mondo»[12].
E’ questa collocazione e figura imprenditoriale di Mattei che spiega comunque il silenzio e i travisamenti che coprono la sua opera e memoria ancora oggi. Mattei imbarazza: a destra perché, pur difensore dell’industria privata, fu e partigiano e capitalista di stato orgoglioso di questo suo ruolo, in anni in cui il mondo politico era rigidamente diviso fra partiti dell’arco costituzionale e MSI, e lo “statalismo” era considerato dai conservatori un “demone” ispirato dal PCI e dall’Unione sovietica: e a sinistra perché la sinistra di oggi – comprese le sue appendici “radicali” – non ha nulla più dei partiti di Togliatti e Nenni, ed è alla fin fine “centrosinistra finanziario” egemonizzato dalla grande stampa “progressista” legata agli eredi infedeli della filosofia d’impresa di Adriano Olivetti e alla tradizione elitaristica di Enrico Cuccia. Basti guardare a tutte le “riforme” del centrosinistra negli anni Settanta, dalle privatizzazioni messe in atto con un golpe notturno agli inizi degli anni Novanta all’aggressione al mondo del lavoro con la legalizzazione del precariato, alla guerra di Jugoslavia.
Leggete alcuni articoli della stampa “progressista” in occasione del centenario della nascita del fondatore dell’ENI (2006): sul versante estremistico potrete trovare la lettura di Mattei in chiave tutta antiamericana (ma Mattei, fra i fondatori di Gladio, ebbe buoni rapporti con gran parte dell’establishment USA, ben diverso da quello odierno), e sulla “grande stampa” troverete quasi sempre un lavorìo ai fianchi del primo presidente e fondatore dell’ENI, dove i presunti aspetti negativi della sua opera sono più sottolineati di quelli positivi: o dove tutto si risolve nel mistero della sua morte, da lasciare perennemente tale, senza alcuno sforzo per mettere assieme i diversi tasselli, incastonarli nel fenomeno più generale del terrorismo di cui l’attentato di Bascapé, secondo una battuta di Fanfani [13], potrebbe essere stato proprio il primo capitolo, un’anticipazione della “strategia della tensione” dilagata qualche anno dopo, dopo il ‘68.     Aprite poi – per passare a Internet - Wikipedia alla voce Mattei: troverete la sottile diffamazione di questa intelligente enciclopedia mediatica, opera di personaggi che non possono che avere in odio un politico-manager come il fondatore dell’ENI, amico dei paesi arabi e di Nasser. I luoghi comuni sulla sua presunta “corruzione”, sui suoi presunti difetti e mancanze di imprenditore, sul suo presunto “cinismo”, sul suo carattere “avventuriero”: tutti aspetti in realtà da vagliare – nessun politico è mai un puro - e comunque smentiti da chi lo ha conosciuto direttamente, oltre che da una vasta saggistica  non adeguatamente valorizzata e dalla documentazione di archivio. La natura di “imprenditore eretico” di Enrico Mattei, cristiano, sviluppista, alieno dalla filosofia del “profitto per il profitto”, nemico del mitico Cuccia - a sua volta in buoni rapporti con il suo successore Cefis - è il primo fattore che spiega, certo assieme ad altri, il suo obnubilamento da parte del giornalismo e dell’editoria di regime: che sono quelli, essenzialmente, che costituiscono la “forza” del centrosinistra postbipolare, un raggruppamento  eterogeneo e diviso ma senza quasi più alcuno spazio di autonomia dalla catena editoriale che lo controlla e soffoca.         
Ma queste stesse caratteristiche di Mattei possono probabilmente proporne anche la straordinaria attualità: su questi aspetti della sua figura di imprenditore – che avrebbe detto Mattei della crisi dell’Alitalia? La risposta è per chi scrive, molto semplice: si sarebbe schierato dalla parte dell’italianità dell’azienda – e su altre questioni assolutamente fondamentali, a cominciare dalla politica mediorientale dell’ENI. Una politica che venne bruscamente interrotta dopo il 1962 con l’ascesa ai vertici del palazzo dell’EUR di Eugenio Cefis, l’ex partigiano legato ai servizi segreti inglesi dai tempi della Resistenza, firmatario dell’accordo “al ribasso” con Israele nel dicembre del 1957
[14], e che, all’oscuro del suo Presidente, aveva intessuto attraverso l’ANIC rapporti commerciali con lo Stato ebraico, suscitando gli attacchi di tutti i paesi arabi contro l’azienda di cui era vicepresidente: e per questo probabilmente, avendo messo a repentaglio l’intera strategia di amicizia e collaborazione con i paesi produttori di petrolio del Medio Oriente elaborata in dieci intensissimi anni dall’ENI, espulso da Mattei nel gennaio 1962, otto mesi prima l’attentato di Bascapé.
 LA POLITICA ESTERA DELL’ENI DI MATTEI: UNA POLITICA DI PACE, DI AMICIZIA E DI COOPERAZIONE PARITARIA CON I PAESI ARABI E ISLAMICI.La principale            eredità positiva tramandataci da Enrico Mattei è la costruzione intelligente, perseguita con grande tenacia e determinazione, di una vera politica di pace nel Mediterraneo e nel Vicino-Medio Oriente grazie ad una politica di cooperazione paritaria fra l’Italia, paese privo di risorse energetiche, e i paesi arabi e islamici della regione produttori di greggio. Il volano economico di questa strategia alla fine anche culturale e politico-diplomatica fu la famosa “formula” ENI, con cui Enrico Mattei riuscì ad incrinare il cartello delle mitiche Sette sorelle insidiandone il monopolio petrolifero: una formula fondata sulla compartecipazione attiva e non solo renditaria dei paesi produttori, e che finiva peraltro per combinare - in modo geniale e “anticonformista” per un’epoca in cui la “patria” sembrava dovesse essere solo appannaggio delle destre - la difesa degli interessi nazionali italiani e quella dei popoli ex coloniali: la grande stagione cioè della decolonizzazione, sostenuta apertamente dai partiti e dall’intellighentzia di sinistra. Ecco dunque che Mattei, sostenitore attivo come Nasser del FLN algerino – non a caso un anno prima di morire, il presidente dell’ENI aveva ricevuto una lettera minatoria firmata “OAS” francese - si ritrovò nei fatti a fianco di un’altra grande personalità del mondo ebraico italiano dell’epoca, il regista comunista Gillo Pontecorvo, l’ autore de La battaglia di Algeri, cultmovie di una contestazione giovanile degli anni Sessanta e Settanta spesso incline ad un astratto e antinazionale “internazionalismo”.           
Ed ecco che Mattei fu nel decennio ENI da lui guidato, alfiere della bandiera italiana in tutti i paesi arabi e islamici del Vicino e Medio Oriente: una bandiera sorretta però non da soldati in divisa e armati di mitra, ma da tecnici in tuta della SNAM e dell’AGIP, invitati dai suoi discorsi e dai filmati che egli faceva produrre a collaborare fraternamente con i colleghi arabi e iraniani. Mattei patriota convinto, e convinto amico dei paesi produttori di greggio al di là del Mediterraneo: un aspetto questo che – certo assumendo fino in fondo la diversità fra le due epoche storiche, non ultima la crisi della centralità del Vicino-Medio Oriente come regione petrolifera per eccellenza – dovrebbe o potrebbe far riflettere su quali siano, anche oggi, i veri interessi nazionali dell’Italia. L’assassinio di Calipari ad opera dell’ “americano” Lozano potrebbe essere per noi italiani la cartina di tornasole di una verità scomoda: che le guerre posbipolari che hanno visto coinvolto il nostro esercito sono state e sono tutte “per procura”, a difesa di interessi che peraltro – stando al monito del democratico Jim Moran a Bush Junior pochi giorni prima dell’attacco all’Iraq del 2003 -  potrebbero essere neppure “americani”.
Quanto appena detto, a proposito della “lezione” di Mattei per l’oggi, è sicuramente solo un accenno generale per approfondire il quale occorrerebbero più convegni, capaci di filtrare la sua esperienza umana politica e economica nella realtà internazionale attuale, diversa in tanti cruciali aspetti, dalla fine del bipolarismo alla scomparsa della DC e dei partiti di massa italiani a seguito di Tangentopoli; dall’emergere di un islamismo estremista fino al terrorismo transnazionale stragista di “Bin Laden”, all’accresciuto potere, dopo la scomparsa del blocco sovietico, del lobbismo filoisraeliano in Europa, negli Stati Uniti e più in generale nel mondo.          
Ma, per continuare nella descrizione comunque di quella che è l’eredità storica di Mattei, almeno due considerazioni vanno aggiunte.       
La prima è che nel perseguire la sua politica di amicizia e collaborazione con i paesi arabi, Mattei finì per scontrarsi con l’allora ancora giovane Stato ebraico: questa è verità comprovata da fatti  e documenti, e come al solito è taciuta, obnubilata, nascosta volontariamente o ingenuamente dalla stragrande maggioranza della saggistica e pubblicistica che si sono occupate del “caso Mattei”. Per un motivo molto chiaro, che è quello sinteticamente ma con grande efficacia accennato nella prima pagina della Prefazione dell’ultimo libro di Ariel Toaff, Ebraismo virtuale, lo storico ebreo già fustigato in patria per il suo Riti di sangue. Gli risponde un collega a cui aveva domandato perché tante “aspre reazioni” al suo libro: perché ti sei “impelagato” nella Shoa? La Shoah? fa Toaff, e che c’entra in un saggio che tratta di una vicenda di sei secoli fa? “In un modo o nell’altro, la Shoah c’entra sempre”, conclude  il suo interlocutore.            
E’ la sacralizzazione integralista della storia degli ebrei e di Israele – che solo oggi comincia ad essere incrinata grazie ai coraggiosi studi di alcuni revisionisti israeliani, come Pappe – che produce un occultamento di fatto di Israele e degli Ebrei in ogni pagina negativa della storia recente, contemporanea o passata: come il dossier Mitrokhin ridotto alla dialettica Est/Ovest, nonostante Scaramella e la comparsa nella lista ricattatoria di un giornalista assolutamente liberal e puro, tutto fuorché un “agente del KGB”, ma sicuramente “colpevole” di aver criticato duramente nel lontano 1982, l’invasione israeliana del Libano; come tutta la strategia della tensione in Italia, ridotta sempre ai binomi CIA/KGB, estrema destra/estrema sinistra, nonostante l’anarco kibbutzista Bartoli, il caso Argo, le pur vagliande dichiarazioni sulla strage di Bologna del terrorista Carlos; e il sequestro Alfa Romeo con stella “a sei punte” del “compagno Moretti”, il sequestratore del filoarabo Moro, Curcio e Franceschini rinchiusi in carcere.         

Anche per Mattei il meccanismo narcotizzante – capace di lobotomizzare persino studiosi e giornalisti eccellenti – è consimile: Mattei si era scontrato frontalmente con Israele nella crisi di Suez, fino a ipotizzare nel 1957 una campagna di stampa contro lo Stato ebraico che non voleva risarcire adeguatamente – questa almeno la sua opinione - quanto razziato nei campi di Abu Rudeis l’anno precedente
[15]; era grande amico di Nasser, l’ “Hitler” del mondo arabo secondo le accuse reiterate di Israele finchè il leader egiziano fu vivo; sosteneva attivamente una guerriglia algerina che aveva finito per scontrarsi duramente, durante la guerra di liberazione – e questo spiega peraltro perché l’OAS fosse guidata da un Soustelle nettamente filoisraeliano – con la antica comunità ebraica della colonia francese [16]. Come possono perciò la sua vicenda e il suo caso non essere vagliati anche alla luce del cruciale conflitto arabo-israeliano, che vedeva l’ENI sicuramente sbilanciata dalla parte dei paesi arabi, non fosse altro che perché era in quei paesi che si trovava il petrolio di cui necessitava l’Italia?             
Del resto, alcune carte d’archivio dimostrano chiaramente che quella che potrebbe essere definita “l’ultima battaglia di Mattei” fu rivolta contro una “campagna di diffamazione” che accusava la sua ENI di intessere rapporti commerciali con Israele. Non è vero, risponde con tanto di certificazione autenticata dall’ambasciata della RAU a Roma, il presidente dell’ENI, e aggiunge: “tali voci sono di natura tendenziosa e … l’ENI non ha rapporti con Israele e non intende averne sotto alcun aspetto”. Ben “forte” la smentita. Invece era vero: nel dicembre 1961 Mattei fa un’inchiesta interna all’ormai mastodontica e ramificata ENI e scopre che l’ANIC guidata da Cefis aveva effettivamente alcuni suoi rappresentanti nello Stato ebraico. Nel gennaio 1962 Cefis viene espulso dall’ENI, una pagina clamorosa nella storia del Palazzo dell’EUR, ma ancora oggi – a quasi mezzo secolo dal suo accadimento!! – sottaciuta, dimenticata, al amssimo mormorata a bassa voce dagli ex collaboratori ENI ancora vivi e sulla breccia. A giugno Montanelli, l’innamorato respinto di Golda Meir secondo sua tardiva confessione nella rubrica delle Lettere del Corriere della Sera, spara i suoi servizi anti-Mattei sul quotidiano di via Solferino, pieni di dati di prima mano fonte ENI. Il 27 ottobre successivo Bascapé: un attentato, secondo la conclusione dell’inchiesta del pubblico ministero Calia del 2005.
La seconda considerazione – insieme di fatti che di nuovo, per diventare esempio e “lezione”, deve essere vagliato con attenzione, e filtrato nella diversità radicale fra il Medio Oriente degli anni Cinquanta e Sessanta, proiettato nel processo di modernizzazione di una ancora giovane decolonizzazione, e quello attuale, imbarbarito dallo “scontro di civiltà” e dalle guerre dell’Occidente contro i suoi veri o presunti nemici – riguarda la percezione assolutamente opposta del mondo islamico e arabo da parte di Mattei, rispetto a quella oggi egemone nel centrodestra come nel centrosinistra (si pensi all’impatto del Corriere  con la sua indicazione di voto nelle penultime elezioni).      
A parte la categoria “terrorismo” in cui oggi i soliti “grandi opinionisti” pretendono di accomunare sia lo stragismo di Al Qaeda, sia gli atti di violenza armata compiuti da movimenti di liberazione nazionale ancorati a territori ben circoscritti (come avrebbe potuto l’ex partigiano Mattei accettare una simile lettura del FLN algerino, che non faceva che seguire l’esempio, eccessi inclusi, della Resistenza europea contro il nazismo e fascismo?), il caso principe che in qualche modo tutto comprende della “revisione” dell’Islam degli ultimi dieci-ventanni in Occidente è costituito – in Italia - dal libello di Oriana Fallaci diffuso in 2 milioni di copie dal Corriere della Sera. Un libello – La rabbia e l’orgoglio - non solo infarcito di insulti gratuiti, non solo animato dalla convinzione che l’Islam è il “nazifascismo” della nostra epoca, ma che a monte – scritto poco dopo il criminale attentato delle Torri Gemelle – parte da un apriori che qualsiasi serio professionista dell’informazione avrebbe dovuto porsi dopo l’11 settembre: tanto più la Fallaci, attiva giornalista nell’epoca di Ho chi minh e della contestazione degli anni Settanta, già compagna di Panagoulis, formatasi dunque in un’epoca in cui era assolutamente normale e professionale allo stesso tempo, interrogarsi sui veri autori e mandanti degli attentati stragisti della strategia della tensione italiana e europea. Nel caso delle Twin Towers, dunque, chi è il mandante, o il co-mandante dell’attentato che ha cambiato la storia del mondo, scatenando lo scontro di civiltà e producendo sconfitte a ripetizione per il mondo arabo e islamico, a cominciare dal rovesciamento del laico Saddam Hussein, l’unico a ben sopravvivere  proprio e solo “Bin Laden” e Al Qaeda?          
Questa domanda banale, la Fallaci non se la pone, accetta la versione ufficiale della stampa americana e mondiale: preferisce rivolgere immediatamente la sua “rabbia” tutta contro i musulmani, un odio antico, di vecchia data, probabilmente incrudito dalla terribile malattia che l’aveva colpita, come sottolineato da Giulio Andreotti all’inaugurazione del master Enrico Mattei all’Università di Teramo il 6 febbraio 2006: stupisce perciò che il suo libello venga riproposto come un esempio di alta professionalità, così come stupisce che ella venga assunta dalla destra a simbolo di un Occidente ferito nella sua identità, minacciata di certo non solo e non tanto dall’integralismo islamico.  
 MATTEI SVILUPPISTAInfine, due altri aspetti importanti da prendere in considerazione quando si parla di eredità di Mattei: il primo è la questione immigrazione, solo per ricordare che – parlando all’epoca ovviamente dell’emigrazione italiana – Mattei collegava i flussi migratori ai grandi processi strutturali dell’economia, rifuggendo dunque da ogni approccio immediatistico e “caritatevole”: il suo appello augurio agli emigranti siciliani a tornare in patria, fatto in un comizio poco prima di morire, aveva alle spalle la forza strutturale del progetto di Gela, fonte di ricchezza e di occupazione per l’intera isola. Questo aneddoto va a ricongiungersi alla sua strategia generale nei confronti dei paesi emergenti: il problema di fondo per colpire alla radice il fenomeno immigratorio in Italia oggi, è quello tracciato da Mattei 40 anni fa. Da una parte cioè lo sviluppo di una cooperazione internazionale con i paesi emergenti in grado di favorirne la crescita economica, e dall’altra  una politica di pace. Due banali considerazioni che sembrano di difficile acquisizione oggi da parte del ceto politico italiano alle prese con il drammatico fenomeno immigratorio, diviso, il ceto politico, fra un buonismo irrazionale e autolesionista e un non rifiuto netto delle guerre che hanno fra le altre cose aggravato e incentivato – dai Balcani e dal Curdistan – i flussi immigratori verso l’Italia negli ultimi 15 anni.Il secondo aspetto è l’opzione e intuizione nucleare di Mattei: una pagina tutta da vagliare, ma che ancora una volta pone all’avanguardia il presidente dell’ENI nella lotta per lo sviluppo del nostro paese. I problemi di cui si discute oggi, con una Francia che dispone da tempo di centrali nucleari capaci di esportare nel nostro paese energia elettrica, erano già stati avviati a potenziale soluzione con la centrale di Latina agli inizi degli anni Sessanta. Claudio Moffawww.mastermatteimedioriente.it 


[1] Giancarlo Galli, Il Padrone dei Padroni. Enrico Cuccia, il potere di Mediobanca e il capitalismo italiano, Garzanti, Milano 1995, pag. 80

[2] Idem, p. 41.
[3] http://www.doncurzionitoglia.com/mattiolcuccia.htm.

[4] Claudio Moffa, Dalla guerra di Suez all’attentato di Bascapé: l’ombra di Israele sul “caso Mattei”, in AA.VV: Enrico Mattei. Il coraggio e la storia, a cura di Claudio Moffa, Roma 2007.

[5] «Dopo la rivoluzione di luglio il banchiere liberale Laffitte, accompagnando il suo compare, il duca di Orléans, in trionfo all'Hôtel de Ville, lasciava cadere queste parole: "D'ora innanzi regneranno i banchieri"». E’ l’inizio de Le Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 di Marx..

[6] «L'indebitamento dello Stato era, al contrario, l'interesse diretto della frazione della borghesia che governava e legiferava per mezzo delle Camere. Il disavanzo dello Stato era infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la principale  fonte del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offriva all'aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo Stato che, mantenuto artificiosamente sull'orlo della bancarotta, era costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli. Ogni nuovo prestito era una nuova occasione di svaligiare il pubblico …». Carlo Marx, Le Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, prefazione di F. Engels, Uffici della Critica Sociale, 1896 – Milano, Feltrinelli Reprint, s.d., p. 25-26.

[7] Così Repubblica in un suo articolo di cronaca sul modo di vestire degli studenti in rivolta di qualche giorno fa: non è la prima volta che il quotidiano di via Colombo descrive o per meglio dire diffonde le “regole” del modo di vestire dei movimenti di protesta: anni fa fu la volta dei “girotondini” di Nanni Moretti. 

[8]Giancarlo Galli, Il Padrone dei Padroni. Enrico Cuccia, il potere di Mediobanca e il capitalismo italiano, Garzanti, Milano 1995, p. 41:  «gestire una grande banca... è un’incombenza faticosa e persino ingrata. Per lui, legato alla cultura classica, il denaro è semplicemente un mezzo (e nemmeno troppo nobile) per realizzare delle cose».

[9] Ibidem.

[10] Ivi, pp. 60-61, tondo in evidenza, mio.

[11] Mattioli muore nel luglio 1973. Ne L’Espresso del 5 agosto dello stesso anno Eugenio Scalfari scriveva: «Niente di più lontano da lui [Mattioli] di un Cuccia, di un Rockefeller o d’un Abs [il ministro delle Finanze di Hitler] (...). Questi uomini hanno portato nel loro mestiere un che di puritano e d’esclusivo, ...relegando al margine della loro giornata quanto non fosse banca. Il contrario di Mattioli.. » (citato in http://www.doncurzionitoglia.com/mattiolcuccia.htm).

Cfr. anche E. Scalfari-G. Turani, Razza padrona, Feltrinelli, Milano, 1974, pp. 159 e segg..

[12] Giancarlo Galli, Il Padrone dei Padroni. Enrico Cuccia, il potere di Mediobanca e il capitalismo italiano, Garzanti, Milano 1995, pp. 125-126.

[13] «Chissà, forse l’abbattimento dell’aereo di Mattei, più di vent’anni fa, è stato il primo gesto terroristico nel nostro Paese, il primo atto della piaga che ci perseguita »: discorso di Fanfani al Congresso dei Partigiani Cattolici, Salsomaggiore 1986: citato in Giorgio Galli, Enrico Mattei: petrolio e complotto italiano, Baldini Castoldi Dalai 2005.

[14] Claudio Moffa, Dalla guerra di Suez all’attentato di Bascapé: l’ombra di Israele sul “caso Mattei”, in AA.VV: Enrico Mattei. Il coraggio e la storia, a cura di Claudio Moffa, Roma 2007.

[15] Claudio Moffa, Dalla guerra di Suez all’attentato di Bascapé: l’ombra di Israele sul “caso Mattei”, in AA.VV: Enrico Mattei. Il coraggio e la storia, a cura di Claudio Moffa, Roma 2007.

[16] Claudio Moffa, Il caso Mattei e il conflitto arabo-israeliano, “Eurasia”, 4, 2007, pp. 255-269.