Chi aiuta il maestro, quando ha bisogno d'aiuto? Chi comprende la sua solitudine?
di Francesco Lamendola - 08/12/2008
Nel romanzo di Hermann Broch «La morte di Virgilio» (1945), lo scrittore austriaco descrive le ultime ventiquattr'ore di vita del sommo poeta latino, a Brindisi, subito dopo il ritorno dal viaggio in Grecia: la sua angoscia, la sua solitudine, la sua insoddisfazione per il grande poema epico, l'«Eneide», che vorrebbe far gettare nel fuoco.
D'un tratto, gli appare un misterioso fanciullo, Lisania, che, vedendolo in preda a una febbrile agitazione, gli si accosta e lo rassicura, dicendogli (Milano, Feltrinelli, 1993, p. 225):
«Aiutarti? Aiutare chi dà l'aiuto? Tu aiuti, anche quando desideri l'aiuto…».
Virgilio vorrebbe distruggere il suo poema, perché si è convinto che esso è generatore di una impura bellezza, di una fuorviante esaltazione della dimensione terrena.
Ma, davanti alla ferma volontà dell'imperatore Augusto, cede e acconsente a lasciare che Plozio e Tucca si incarichino di pubblicare il manoscritto, così come esso è rimasto, compresi alcuni versi incompleti.
A spingere Virgilio ad acconsentire è stata l'intuizione che solo così, accettando che la sua parola «impura» venga trasmessa ai posteri, il proprio sacrificio sarà completo: sacrificando, cioè, la sua stessa volontà di sacrificio. In cambio, egli non chiede altro che la liberazione di tutti i suoi schiavi: solo così potrà affrontare serenamente la morte.
Così, l'«Eneide» sopravviverà, ma Virgilio morirà impuro.
Nella scena finale, percorsa da visioni in cui è difficile distinguere la realtà dal sogno, al sommo poeta sembra di salpare a bordo di una nave, in compagnia di Lisania, mentre una folla plaudente lo saluta dalla riva; indi gli pare di rivivere, inspiegabilmente, tutta la storia del genere umano, a ritroso nel tempo, fino all'uomo primitivo che ancora non sa parlare e, quindi, dove la parola è «muta», mormorio indifferenziato.
E, poi, la pace del Nulla.
Uno dei passi più drammatici e densi di significato è quello in cui una voce misteriosa, che forse viene dal fanciullo, ricorda a Virgilio che la sua poesia costituisce un tesoro prezioso che ha sconfitto per sempre la solitudine; per cui egli stesso non conoscerà più la solitudine e, dunque, non deve temere la morte solitaria che ormai gli si appressa.
Scrivendo l'«Eneide», egli ha vinto non solo per sé, ma per tutti gli uomini; perché la sua parola non era realmente sua, ma era la parola del Dio: per mezzo di lui, era il Dio che aveva parlato all'umanità, spezzando il maligno incantesimo della solitudine (ed. cit., pp. 222-23):
«E la voce lieve del fanciullo, come la voce una patria vicina e insieme lontana, la voce che dissolve le pene, proseguì: - Eterna è la risonanza della tua poesia. - E allora egli disse: - No, io non voglio più ascoltare la risonanza della mia voce; io attendo la voce che è al di fuori della mia voce. - - Tu non puoi più ridurre al silenzio la consonanza dei cuori; la loro eco è presso di te, inalterabile, come la tua ombra. - Era l'ultima tentazione, ed egli aveva l'ordine di respingerla: - Io non voglio più essere io; voglio sparire nel più profondo del mio cuore, dove non esiste l'ombra; voglio sparire nella più profonda solitudine: e laggiù il mio poema deve precedermi. - Non seguì nessuna risposta, pareva che l'alito del sogno spiasse dall'invisibile; un alito lungo come in sogno, breve come il sogno; e finalmente egli udì: - La speranza vuole essere accompagnata dalla speranza, ed anche la solitudine del tuo cuore è una speranza antica, è la speranza del tuoi principio.- - Può essere, egli convenne, tuttavia è la speranza di udire una voce che mi assisterà nella solitudine della mia morte, se questa voce mi verrà mi verrà negata, non ci saranno parole per consolarmi, sarò sempre privo di conforto. - Ci fu ancora una pausa di imprecisabile durata, poi venne la replica: - Tu non potrai mai più essere solo, mai più: perché la musica che è venuta da te, era più grande di te e più grande della tua solitudine, perciò tu non potrai più distruggerla; oh Virgilio, nel canto della tua solitudine vi sono tutte le voci, vi sono tutti i mondi, essi sono in te insieme con la loro risonanza, hanno infranto per sempre il muro della tua solitudine, saranno intessuti per sempre con tutte le cose future, perché la tua voce, Virgilio, era fin dal principio la voce del dio.»
Hermann Broch è stato uno degli intellettuali che maggiormente hanno esplorato il mistero della solitudine e dell'angoscia che, fatalmente, colpiscono anche le grandi anime, le anime dei maestri; solitudine e angoscia rese ancora più devastanti dalla consapevolezza che gli uomini sono abituati a vedere in essi coloro che aiutano, non coloro che possono avere bisogno d'aiuto e, pertanto, non vogliono e non possono credere alla loro fragilità e alla loro indigenza.
L'episodio di Gesù nell'orto degli olivi è altamente emblematico. L'unica volta in cui egli chiese ai suoi discepoli più cari - Pietro, Giovanni e Giacomo - di vegliare e pregare con lui nell'Ora della passione interiore, essi lo lasciarono solo e, addirittura, si addormentarono (e sia pure «per la tristezza», come precisa il Vangelo di Luca); e ciò per tre volte consecutive.
Questa angoscia, questa solitudine mancano, invece - apparentemente - nella vicenda di Socrate, il quale (almeno come ce lo tramandano i dialoghi del suo discepolo Platone, che però non era presente al processo e alla morte) si mantenne saldo e sereno fino all'ultimo, confortando anzi i suoi discepoli che piangevano per lui.
Non sappiamo fino a che punto la biografia di Socrate sia attendibile, poiché è certo che Platone e Senofonte, l'altro suo antico discepolo, ce ne hanno tracciato una versione sicuramente idealizzata; ad ogni modo, per quanto ci riguarda, è proprio questa inflessibile saldezza d'animo di Socrate che ce lo rende meno comprensibile e meno caro di altre figure di grandi maestri, a cominciare da quella, umanissima, di Cristo.
Chi non ha mai provato l'angoscia della solitudine, dell'incomprensione, dello scoraggiamento; chi non ha mai provato un brivido di orrore nel sentirsi sfiorato dalle nere ali della morte, non può dirsi un maestro nel senso più vasto e profondo della parola. Per essere tale, gli manca qualcosa di essenziale: qualcosa che fa parte della natura umana. E bisogna essere profondamente umani, per diventare maestri degli uomini.
Forse, la verità è che esistono due generi di maestri: coloro che hanno ricevuto l'insegnamento diretto e, per così dire, l'investitura ufficiale da parte di un altro maestro, più anziano e da essi riconosciuto come superiore; e quelli che si sono fatti da sé, andando avanti a tentoni, cadendo e rialzandosi più volte, e apprendendo direttamente dalla vita tutto ciò che hanno imparato, per poi trasmetterlo ad altri - per lo più non di propria iniziativa, ma su richiesta di altri, bisognosi di una guida e convinti di averla trovata proprio in essi.
A costo di scandalizzare i cultori della Tradizione con "t" maiuscola, non crediamo che solo quelli del primo tipo siano maestri a pieno titolo, né che essi siano comunque superiori a quegli altri. E, se è vero che vi sono gradi successivi di ascesa verso l'illuminazione, è altrettanto vero che tra due maestri la differenza non può mai essere qualitativa, ma solo quantitativa. Non si può essere mezzi maestri: o lo si è, o non lo si è. Se lo si è, lo si è a pieno titolo, sempre e comunque e di fronte a chiunque; e a dispetto di quanto possano pensare o dire coloro i quali non si sono mai neppure avvicinati all'illuminazione interiore.
L'opinione del volgo, in questi casi, vale meno di zero.
È incredibile la quantità di individui meschini, di autentiche nullità, che passano il proprio tempo a fare le pulci a chi si è messo in gioco sino in fondo, a chi è infinitamente più grande di loro; di miserabili scarafaggi che, in tutta la loro vita, mai hanno osato alzare un peso maggiore del loro dito mignolo, eppure si permettono di criticare e perfino di beffeggiare chi non ha mai fatto altro che portare pesi giganteschi, e sia pure - talvolta - solo per accorgersi di avere imboccato una valle senza uscita e aver dovuto ritornare indietro.
E tuttavia non vale nemmeno la pena di spendere parole per questi presuntuosi lillipuziani, per queste mosche cocchiere, la cui insipienza è pari soltanto alla loro abissale ignoranza.
Ma chi è il maestro, dunque; ed è possibile che anche lui provi nel cuore quella stretta di ghiaccio che si chiama angoscia?
Non si può dare una definizione del concetto di maestro. È qualcosa che si sente, che emana da certe persone - molto rare, in verità. È pur vero che esistono molti falsi maestri e molti sedicenti maestri; ma, in fondo, è facilissimo smascherarli: basta vedere se si fanno pagare per elargire la loro sapienza.
Questa è la condizione minima per separare il grano dal loglio; ma non è, di per sé, sufficiente. Non tutti quelli che non chiedono denaro sono, perciò, dei veri maestri. Eliminiamo dunque un'altra grossa fetta di pretesi maestri: quelli che si presentano come tali. Se si proclamano maestri, è certo che non lo sono - almeno nella nostra cultura. E ciò basta a tagliare la testa al toro di eventuali dubbi o malintesi.
Poi c'è un terzo criterio discriminante: eliminare tutti quelli che se ne vanno in giro per convincere la gente. Il vero maestro se ne sta nascosto, per il semplice fatto che, per sé, non certa la gloria: questo è l'ultimo dei suoi pensieri.
Quando ritiene di aver individuato un possibile discepolo, è lui che lo chiama: non perché voglia mettersi in mostra, ma unicamente perché desidera trasmettere il suo sapere - che egli sa non essere affatto suo e, quindi, non appartenergli. Egli non desidera altro che di restituire il dono dell'illuminazione, che gli è stato fatto; e, con esso, di rimettere in circolo quella sapienza di cui è attualmente il depositario, ma non certo il padrone.
Questo è il primo tipo di maestro: quello che ha ricevuto il suo sapere da un altro maestro, e quello da un altro ancora; e così via, indietro nel tempo, lungo il corso delle generazioni, dei secoli e dei millenni.
Il secondo tipo è, come dicevamo poc'anzi, quello che non ha incontrato un altro maestro o che non l'ha incontrato all'epoca della sua ricerca e della sua formazione; pertanto, se è divenuto tale, lo è divenuto in maniera spontanea e involontaria. Non cercava di diventare un maestro, cercava semplicemente la verità; ma, trovatane almeno un riflesso, è divenuto tale senza averlo voluto e senza averlo sperato. In altre parole, egli appartiene alla esigua categoria di coloro che hanno saputo divenire maestri di se stessi.
Non ha imparato dai libri, anche se, probabilmente, ne ha letti molti; e non ha imparato nemmeno dagli uomini, anche se ogni uomo o donna che ha incontrato nella sua vita, sono stati per lui altrettanti preziosi maestri di esperienza, in positivo o anche in negativo: nel primo caso ha visto e appreso almeno qualche cosa, qualche spunto, qualche scintilla, sviluppandola poi per proprio conto; nel secondo, ha imparato ciò che non si deve fare e ciò che non si deve diventare.
Il primo tipo di maestro è anche quello che meno facilmente si lascia turbare dalle circostanze della vita; non necessariamente perché il suo sguardo sia più limpido e il suo cuore più saldo e trasparente; ma perché la sua fiducia riposa sulla roccia di chi gli ha trasmesso un sapere millenario, di origine non umana, e sull'esperienza di generazioni di uomini saggi e forti, i quali hanno già affrontato e sgominato ogni possibile dubbio, timore o angoscia.
Il secondo tipo di maestro non ha nessuno alle spalle: è solo, a tu per tu con l'Assoluto, del quale si sente null'altro che un indegno ricercatore. E, se dall'Assoluto sa di poter ricevere forza e acutezza visiva, purché li domandi con la giusta disposizione d'animo, la sua psicologia era e rimane quella dell'uomo semplice, che sa di essere nulla e di dovere tutto ciò che ha raggiunto a un potere che scende dall'alto, e di cui egli non è che il temporaneo strumento.
Di conseguenza, questo tipo di maestro è anche più solo e più esposto: simile a una sentinella che veglia sul limitare del deserto, in mezzo a un mondo buio ed ostile, nulla presume di poter fare con le proprie forze e sa di avere in sé tutta la debolezza di qualunque altro essere umano.
Sa che basta poco per offuscargli la luce, per rendere malsicuri i suoi passi: non perché si senta inferiore alla media degli uomini, ma perché ha misurato la distanza enorme che ha compiuto da quando si è messo in cammino, e sa pure che nemmeno se ne percorresse altrettanta si porrebbe al riparo dalla fragilità della condizione umana.
In un certo senso, egli è più angosciato perché conosce, per averli veduti, gli abissi sui quali si è innalzato, e nei quali potrebbe precipitare; mentre la massa degli uomini comuni può sfoggiare un maggior grado di sicurezza apparente soltanto perché, non avendo mai percorso nemmeno un metro verso le altezze, non sospetta neppure quali immense voragini si aprono sotto i piedi di ogni essere umano.
È facile apparire coraggiosi, quando si è soltanto inconsapevoli del pericolo; ed è relativamente facile passare per sapienti, quando si ignorano gli abissi senza fine dell'ignoranza umana, e ci si pavoneggia con il poco o niente che si sa.
Resta da vedere se un maestro possa provare, insieme al senso del proprio limite, anche l'umana necessità - talvolta - di cercare un volto amico, una parola di conforto, esattamente come farebbe (ma per abitudine e per fiacchezza morale) qualunque altro essere umano.
La risposta non può che essere affermativa.
Nessun maestro trascende totalmente la condizione umana, a meno di varcare la soglia suprema ed entrare nel Nirvana; nel qual caso potrà tornare indietro per soccorrere gli altri uomini, ma come un essere trasfigurato e non più solamente umano.
Si tratta, invero, di casi eccezionali.
Pertanto, la norma è che il maestro, specialmente se è divenuto tale in solitudine, attraverso lo studio e il perfezionamento di se stesso, è anch'egli soggetto a momenti di debolezza, dubbio e sconforto; anch'egli può sentire il peso della solitudine quasi inumana, che si è caricato sulle spalle (non necessariamente chiudendosi in un monastero di clausura; benché sia certo che, in quei luoghi, vivono parecchi maestri sconosciuti).
Del resto, colui che è divenuto maestro di se stesso non si ritiene un maestro: sono gli altri a vedere in lui la figura e il carisma del maestro e che lo sollecitano a perseverare sulla via intrapresa, perché sentono di aver bisogno della guida spirituale che egli può dispensare loro, anche indirettamente (ad esempio, attraverso la diffusione dei suoi scritti).
A questo punto, però, bisogna ribadire una circostanza fondamentale: nessuno diviene maestro, in qualsivoglia maniera, soltanto per mezzo delle forze umane. L'elemento decisivo riguardante l'illuminazione interiore è fornito da un aiuto di origine non umana, che giunge dall'alto e che costituisce il coronamento di lunghi e sinceri sforzi personali, spesso ignorati da coloro che osservano stando al di fuori.
Ed è quella forza di origine non umana, che i cristiani chiamano Grazia ed altri chiamano con nomi diversi, che giunge l'aiuto di cui il maestro ha bisogno. Certo, può giungere anche da un altro essere umano il quale, in tal caso, agisce come uno strumento dell'istanza superiore; ma è raro: perché la norma è che solo chi è simile o superiore a noi (superiore, nel senso di più avanzato spiritualmente) ci può veramente aiutare; non chi si trova ancora ad uno stadio più basso.
Tuttavia, ordinariamente, l'intervento della forza soprannaturale opera direttamente nelle profondità dell'animo del maestro, allorché questi si è riconosciuto e dichiarato fragile e bisognoso. Per le persone comuni, è più frequente l'altra forma di intervento, quella indiretta, mediata cioè da altri esseri umani; ma ciò si spiega col fatto che una persona comune può sempre aiutare un'altra persona comune, mentre il maestro è come se vivesse in un deserto inanimato, anche quando si trovi nel cuore di una megalopoli: non c'è nessuno, o quasi nessuno, che abbia fatto così tanta strada come lui, dunque non c'è nessuno che lo possa realmente aiutare.
Per aiutare qualcuno, infatti, bisogna essere in grado di capirlo: solo così gli si può offrire il conforto di cui ha bisogno. Ma chi si trova in basso sul sentiero, non può materialmente aiutare chi si trova molto più in alto; né l'alpinista dilettante può prestare un soccorso efficace al rocciatore esperto, impegnato su di una parete di quinto o sesto grado.
Può essere, d'altra parte, che quando il maestro si sente in difficoltà, non cerchi un conforto di tipo intellettuale o propriamente spirituale, ma semplicemente il calore umano che può sciogliere il gelo della sua angoscia, anche nelle forme più semplici ed elementari. Era questo, crediamo, che cercava Gesù nei suoi tre discepoli prediletti, allorché li invitò a vegliare e pregare con lui nell'Orto degli ulivi, allorché l'anima sua era «triste fino alla morte».
Sì, questo genere di aiuto chiunque può darlo, anche una persona illetterata, anche un bambino. Una strana legge della vita, tuttavia, fa sì che perfino un aiuto così generico e non impegnativo viene spesso negato al maestro in difficoltà, il quale si vede costretto a misurare doppiamente tutto il peso e l'angoscia della propria solitudine esistenziale.
O, addirittura, può accadere che, proprio mentre egli geme e prega affinché l'amaro calice sia allontanato da lui, gli si presenti una persona straziata dall'angoscia e bisognosa di appoggiarsi a una spalla più forte, di riversare su un altro essere umano la propria sofferenza: sicché il maestro, già turbato in cuor suo per un momentaneo venir meno della luce interiore, si trova gravato anche dal peso di colui che gli si aggrappa per averne conforto e consolazione, tutto preso dai propri problemi e incapace di pensare a quelli altrui.
Può sembrare una ironia del destino: lo spirito forte, che sempre si è prodigato per gli altri e ha trascurato se stesso, la propria stanchezza, i propri timori, proprio quando è sfiorato da una drammatica crisi interiore, si trova nuovamente inchiodato al proprio ruolo - non voluto né cercato - di maestro che distribuisce, sempre e a chiunque, gesti e parole di coraggio e di fede.
Non importa.
Quella stessa forza che lo ha sostenuto finora, non lo lascerà stramazzare sotto questo duplice, gravoso fardello; ma prontamente verrà in suo soccorso, se il suo cuore si è mantenuto puro e l'ambizione o l'orgoglio non ne hanno minato la trasparenza interiore.
Come narra quell'apologo: quando l'uomo sofferente si lagnò con Dio di essere stato lasciato solo, come parevano attestare le sue orme solitarie sulla sabbia, Dio gli rispose che quelle orme non erano le sue, ma le proprie, poiché Egli lo aveva preso in braccio e trasportato appunto nei passaggi più difficili e pericolosi.