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Il capitalismo e i suoi derivati

di Vittorangelo Orati - 16/01/2009

 

Il capitalismo e i suoi derivati



Nel “fondo” scalfariano de “La Repubblica” di domenica 28 dicembre dell’anno ormai trascorso, dal titolo “La triste storia dell’Italia corrotta” la usuale lucidità del suo estensore “marca visita”. Nell’ottica, evidentemente, di un lettore mai contaminato dal “crocianesimo di sinistra” del fondatore del giornale romano, alle cui angosce filosofiche manca quella del carattere affatto problematico del concetto di “democrazia” che in punto di scienza mostra tutta intera la sua natura utopica sancita dai molti teoremi che ne dimostrano la “impossibilità”. Vista la sempre pirotecnica cornice culturale in cui si inseriscono gli articoli di Eugenio Scalfari vale forse la pena segnalarli la testa e la coda della lunga serie di pensatori che hanno dato il contributo citato; serie che inizia con il matematico illuminista marchese di Condorcet e che per ultimo annovera il Nobel per l’economia Kenneth Arrow. Per il quale, vale ancor di più la pena sottolineare, che da neowalrasiano convinto ha mancato da parte sua di declinare il nesso storicamente e quindi scientificamente rilevante tra democrazia e capitalismo inteso come economia di mercato, per antonomasia fondata sulla liberté democratica del bourgeois travestito tutt’ora nella Kultur e (congiunzione da enfatizzare) Zivilisation della “democrazia reale” da citoyen.
Non manca di indurre a riflessione, per chi voglia comprendere l’implosione “liberale” ( seppure à la matriciana) della sinistra (lombrosianamente intesa) “sinistra” italiana cui Scalari non manca di plaudire (“se c’è stato - e c’è sicuramente stato - un processo di sviluppo democratico, esso è dovuto in larga misura alla sinistra italiana”), la circostanza che vede il Nostro attribuire a Enrico Berlinguer il merito di avere individuato la “vera causa”della deriva autoreferente e affaristica della politica italiana con la sua denuncia della “questione morale”. Per il segretario dell’allora ancora marxista (?) Pci riscoprire il ruolo cruciale della “morale” nella storia avrebbe dovuto scandalizzare persino dei seri hegelo-crociani, convinti perciò che la politica è “ il regno dell’illusione”.
Ebbene alla base dell’ingenuità storico-filosofica (come mai religioni millenarie - con miliardi di seguaci e praticanti - e quindi primitivamente ispirate a modelli di condotta morale non hanno cambiato il mondo?) che vede nell’appello all’etica la “variabile indipendente” con cui spiegare e risolvere il problema della corruzione che - viene riconosciuto da Scalari - “non è un fatto solo italiano”, va posto il particolare per cui viene disconosciuto il cardine del materialismo storico per il quale la morale “deve convenire”. E il giudizio di “convenienza” è esclusivo dominio della logica che è propria ai diversi modi di produzione (e distribuzione) e delle sottese “culture” che comprendono coerenti modelli di comportamento sociale. Orbene senza piagnistei moralistici (in essenza religiosi e quindi alienati e alienanti) la “prassi” razionale all’interno dei vari modi di produzione è quella che ne ottimizza la adeguatezza tra fini e mezzi quale si impone nel quadro del “regno della necessità” ovvero nella dimensione dell’economia. E senza aprire parentesi qui non affrontabili relative al rapporto tra i diversi modi di produzione, quand’anche rimanendo nell’ipostatica cornice scalfariana del capitalismo e del suo assetto di classe, quello che il fondatore de “La Repubblica” manca di fare - in assenza del cinismo necessario di chi non abbia visioni moralistiche della storia – è non considerare il “diritto storico” delle classi dirigenti ad una rendita di posizione “di classe” spettante a chi tra esse ottimizzi al meglio la logica del sottostante modo di produzione. In altre e più chiare parole nel panorama contemporaneo il deficit morale della classe capitalistica e del suo “organico” apparato politico non sta nella “corruzione” in quanto peccato “morale”, quanto nel fatto che questa corruzione è in relazione di trade-off (contraddizione o opposizione antagonista) con la accumulazione del capitale e la esigenza che tale accumulazione massimizzi il suo saggio di crescita nel tempo e che quindi a tal fine venga a capo di ogni sua deprecata interruzione ciclica. Interruzione ciclica o crisi vissuta “culturalmente” nelle “democrazie reali” come incidente “non necessario” del laissez-fair (traduzione economica della libertà politica nella democrazia). E già qui un primo vulnus logico: la inconciliabilità della “irregular regularity” (Schumpeter) delle crisi con il loro carattere “non necessario” seppur, e ancora, correlato allo “scandalo pubblico della miseria nel mezzo dell’abbondanza”. Parole, queste ultime virgolettate, di Keynes, che pur ciò denunciando non è riuscito - come esponente di punta e non ancora superato nel mondo canonizzato dell’akkademia delle democrazie occidentali in materia di crisi - a spiegarne la loro “legittimità” capitalistica in un’economia di mercato di libera e perfetta concorrenza. Mancata spiegazione che per questo ha condotto oltre che ad una errata e fuorviante diagnosi delle crisi cicliche di
sovrapproduzione ad una ancor più deleteria e per molti versi conseguente (keynesiana) tragica terapia. […]
La corruzione è la negazione (“mal-tolto”) del “merito” di cui sia la teoria della democrazia che quella del sotteso modo di produzione capitalistico fanno il loro assioma prassiologico. Chi ha avuto da rimproverare in termini morali la Regina Elisabetta, se a Keynes fu lecito far osservare che nei giorni in cui egli scriveva gli investimenti all’estero dell’Inghilterra corrispondevano (opportunamente capitalizzati) alla quota spettante alla suddetta monarca del tesoro portato in patria dal pirata Drake? Il predominio dei mari e la rapina corsara non sono stati una componente dell’accumulazione primitiva che Smith (l’autore, tra l’altro de The theory of Moral Sentiments ) e poi Marx (Il Capitale, Vol. I, cap. XXIV) hanno affermato essere precondizione essenziale del modo di produzione capitalistico? E questo non prometteva di salvarci dalle superstizioni pre-capitalistiche e in tendenza dal “mondo dei bisogni” (la sartriana rareté) attraverso la spietata “violenza” dell’estrazione del plusvalore? Non si è (vanamente) interrogata la scienza economica degli albori sul “lavoro produttivo e improduttivo” (possibile architrave epistemologico di un’etica economica capitalistica scientificamente fondata), circostanza ormai rimossa dalla economics mostruoso aborto conclamato del primitivo seme della Political Economy? Seguendo questo filo del discorso, è autentica classe dirigente quella che accodandosi al barbaro imperialismo Usa non ha superato la tradizione inglese delle “Guerre dell’oppio” nell’affidare alle armi la sbandierata ideologia (“falsa coscienza”) “pacifista” del free-trade (libero scambio)? O quella che non capisce che il divorzio con la natura significa in realtà il divorzio dell’uomo da se stesso e perciò confonde Eros con Thanatos mettendo quest’ultimo nel Pil escludendo il primo? O che (perciò) invano permetterebbe a un ministro, per esempio in Italia, che sovrintende all’Università di assegnare motu proprio per meriti scientifici una cattedra a chi quel falso articolo di fede nel disarmato e universalmente conveniente libero commercio confuta o falsifica con stringente analisi, così liberandolo dall’immondizia akkademica che ne ostacola l’insegnamento? Ministro che, ben al contrario, resta intimorito dinanzi alle minacce dei capi della corporazione akkademica rimanendo sordo alla dimostrazione della degenerazione “politica” dell’università e ai suoi altissimi costi economico-sociali, aprendosi invece a mercanteggiamenti con il “comitato regnanti università italiana” (CRUI) sulla quantità di cretinismo clientelar-nepotistico ammissibile attraverso le regole da stabilirsi per i truccati concorsi pubblici (in realtà del tutto privatissimi con sigillo pubblicistico). Di tutt’altro segno, di contro, è stato invece potere illuminato quello che nelle monarchie del XIX secolo ha dato totale libertà di pensiero nel caso della figura del publicus professor, concedendogli di insegnare ottanta ore all’anno ben sapendo che in quelle ore si sarebbero portati ai discenti i risultati di carte sudate elaborate da menti eccellenti - ergo meritevoli di autogoverno nella disseminazione dell’autentico Sapere - nelle notti appena precedenti la Lectio. Nel mentre è scempio allo stato puro quello che, nel putrescente clima del tardo capitalismo italiota, permette di mandare - in clima di autonomia akkademica (alias infeudamento della “ricerca” e del cattivo potere su di essa ), variante legalizzata di “cosa nostra” a livello di mandarinato - a far lezione (per ottanta ore accademiche di quarantacinque minuti autentico furto legalizzato, nel migliore dei casi) su testi d’altri o da altri copiati, praticanti di studi privati da ripagare poi con posti di ruolo alimentati con danaro della collettività. Ovvero pretendere, per puro diritto politico, cattedre a pochi chilometri dalla capitale satrapica per i propri discendenti, proteggendo in contropartita autentici e persino imparentati autocrati con ermellino, vera causa del coup de grâce alla già moribonda università italiana, senza avvertire che così si esercita un malinteso e malefico jus. […]
Classe politica e suoi referenti e mandanti di ultima istanza al comando incondizionato dei mezzi di produzione, che meritino perciò l’appellativo di élites. Agone capitalistico globale – ammessa e non concessa affatto l’ipotesi di mancanza di alternative alla “globalizzazione” - rispetto al quale si può in varia gradazione misurare la maggiore o minore inadeguatezza delle classi dirigenti della nostra epoca e segnatamente in Occidente, assegnando quindi a quella dell’ ex “Bel Paese” e senza pericolo di smentita uno degli ultimi posti, pur in un ranking dove nessuno non solo non merita la sufficienza ma neanche la speranza di meritarla.
Con l’aggravante che è tutt’ora l’Occidente ad avere la responsabilità maggiore del fallimentare stato di cose in atto e il residuo potere per riscattarsi da quello che per molti versi rappresenta una tragica finis erae.
Sul ruolo che svolgono gli economisti(ci) quali consiglieri dei contemporanei principi “ bizantini” durante questa epoca di redde rationem del capitalismo occidentale, ce ne occuperemo in altre occasioni, vista la centralità di tale argomento che non può esaurirsi né in questo né in un singolo articolo.