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Le radici passate e presenti del massacro di Gaza

di Yuri Perrotti - 19/01/2009




Più di Mille morti. Un numero di feriti oramai incalcolabile. Uso sistematico di armi chimiche contro la popolazione civile. Danni incalcolabili alle infrastrutture. Una economia devastata, che perpetuerà le sofferenze della popolazione per diversi anni. Esecuzioni sommarie di civili. Scuole convertite dall’ONU in rifugi per i civili, bombardate e distrutte. La città di Gaza assediata dall’esercito israeliano, con una conseguente catastrofe umanitaria di una popolazione già allo stremo da due anni.
Queste le notizie che ci arrivano dalla Striscia, quando sta iniziando la quarta settimana di guerra.
È dunque difficile cercare di abbozzare una analisi della situazione quando le coscienze sono così scosse da questo susseguirsi di massacri e orrori. Ma è ora più che mai necessario farlo. Una prospettiva storica ci aiuterà a focalizzare i punti importanti per capire l’attuale situazione:

L’attuale massacro di Gaza è soltanto l’ultimo capitolo del conflitto arabo-israeliano che insanguina il Medioriente da oltre settant’anni. Ma da cosa è stato generato questo conflitto imbevuto di odio che sembra non poter avere fine?
In una sola parola: dall’Occidente. Dalla sua ideologia, dalle sue politiche. Il sionismo, infatti, è una idea, fondamentalmente razzista, derivante dal positivismo ottocentesco. Semplicemente una versione specifica del colonialismo e delle sue nefandezze. L’idea di una emigrazione ebraica in terra di Palestina per “riprender possesso delle terre abbandonate a seguito della diaspora”, prese seriamente corpo alla fine del diciannovesimo secolo tra gli ebrei europei, non tra quelli che vivevano in Terra Santa, che difatti non accolsero bene i primi immigrati correligionari, e criticarono il sionismo in quanto ideologia sostanzialmente laica e contraria ai principi della Torah. Ancora oggi alcuni settori ultrareligiosi ebraici contestano l’autorità dello stato sionista accusandolo di rubare il “nome di Israele”.
Infatti, chiunque si approcci alla storia di quelle terre, troverà molta difficoltà a scovare prove di dissidi tra palestinesi ed ebrei antecedenti all’emigrazione sionista. In quelle zone i due popoli hanno sempre convissuto senza problemi e gli ebrei, che erano la minoranza, hanno sempre avuto la garanzia di poter avere i propri luoghi di culto e di essere giudicati secondo le loro leggi. Contrariamente a quanto invece accadeva in Europa, dove l’ostilità verso gli ebrei si è manifestata spesso e in diverse zone.
L’antisemitismo, agitato dalle destre europee ad ogni atto di legittima resistenza palestinese, è un fenomeno tutto europeo, non arabo.

Insomma ecco il primo punto: Non c’è nessuna ineluttabilità in questo conflitto insita nei due popoli che, anzi, hanno sempre convissuto senza particolari problemi. È stato l'imperialismo nella forma europea ottocentesca a creare questo conflitto attraverso il sionismo. Ed è l'imperialismo, nella sua forma essenzialmente statunitense del 20° e 21° secolo, che continua ad armare questa guerra ai suoi scopi. Un Medioriente che la presenza di Israele tende a balcanizzare sempre più, è un Medioriente che viene facilmente sfruttato dall'occidente secondo il vecchio adagio del divide et impera.

Se l’ideologia occidentale positivista nella forma del sionismo ha funzionato come miccia, il detonatore del conflitto è rappresentato dalle politiche occidentali nella forma della “Dichiarazione Balfour” del 1917, con cui gli inglesi si impegnarono a favorire l’emigrazione ebraica in Palestina, al chiaro scopo di avere un referente filo-occidentale in Medioriente, ruolo che Israele riveste tuttora.
Ciò non impedì agli inglesi di promettere quella stessa terra anche ai nazionalisti arabi, in cambio del loro aiuto in funzione anti-ottomana durante la Prima Guerra Mondiale. Questo inganno è solo il primo di una serie che ha fatto accrescere in alcuni settori della società araba sentimenti anti-occidentali.
Anche all’inizio, l’emigrazione ebraica non prese forme violente, gli ebrei si limitavano a comprare le terre dei palestinesi nelle stesse zone, in modo da garantirsi una continuità territoriale. Fino alla metà degli anni Trenta non si registrarono significativi scontri tra ebrei immigrati e palestinesi. È questo un periodo a cui bisognerebbe dare risalto, in cui arabi ed ebrei erano sulla stessa barca, ovvero impegnati nella lotta alla potenza mandataria britannica. Un periodo che dimostra come sia possibile la convivenza tra questi due popoli, contrariamente a quanto ci vogliano far credere i pennivendoli dello “scontro di civiltà”.
Al termine della guerra mondiale, tutti gli stati vincitori (URSS compresa), incoraggiarono la formazione di uno stato ebraico. Le pressioni degli ebrei d’America arrivate all’ONU tramite la voce del presidente Truman ebbero l’effetto di una risoluzione (la numero 181) vistosamente sbilanciata a favore degli ebrei, che ricevettero il 56% del territorio e l’80% dei territori cerealicoli. La mancata accettazione da parte degli arabi portò alla guerra del 1948, la prima “guerra arabo-israeliana” su cui entrambe le parti hanno costruito dei veri e propri miti.
Da parte israeliana si negò in pratica l’operazione di pulizia etnica che fece fuggire 700.000 palestinesi, asserendo che costoro fuggirono preventivamente, e dunque l’esercito sionista trovò sul suo cammino case e territori vuoti, prendendone possesso “senza violenze” (sic).
Da parte araba ci fu una grande retorica sulla guerra combattuta a favore dei palestinesi. Nulla di più falso. Gli eserciti arabi combatterono senza neanche comunicare tra loro, ognuno allo scopo di raggiungere i propri obiettivi. L’Egitto voleva la Striscia di Gaza (su cui ha mantenuto il mandato fino al 1967), e la Giordania parti consistenti della Cisgiordania.

Arriviamo quindi ora al secondo punto: I palestinesi sono stati lasciati quasi sempre soli dagli arabi nella lotta al sionismo, con la parziale eccezione del presidente egiziano Gamal ‘Abd el-Naser (“Nasser”, 1956-1970). L’Egitto, dopo Nasser, si è subito affrettato alla pace separata con Israele, ed è oggi il suo primo alleato come si sta vedendo in questi giorni. La Giordania puntava ad annettere la Cisgiordania, e dopo il rifiuto dei palestinesi non ha esitato a massacrare la resistenza palestinese sul suo territorio nell’operazione “Settembre Nero”, del 1970. Nel Libano la guerra civile è scoppiata sostanzialmente contro le organizzazioni palestinesi, molto potenti, presenti in quel territorio. La Siria, che da sempre propaganda di essere il baluardo della causa palestinese, non ha esitato a mettersi contro di loro durante la guerra civile libanese per favorire le proprie mire espansionistiche sul Paese dei cedri. Andando più a fondo, gli arabi hanno sempre avuto una certa diffidenza nei confronti dei palestinesi, anche prima dell'avvento del sionismo, in quanto i palestinesi sono sempre stati un popolo scarsamente interessato agli affari religiosi.

La seconda metà del secolo ha visto lo stato sionista impegnarsi in una sistematica azione di oppressione verso i palestinesi e in una serie di guerre espansionistiche verso i vicini paesi. L'anacronistica guerra colonialista combattuta a fianco di Inghilterra e Francia contro l'Egitto che aveva nazionalizzato la Compagnia del Canale di Suez nel 1956. L'invasione di Siria, Egitto e Giordania nel 1967 contro qualsiasi elementare norma di diritto internazionale. La riedizione di quella stessa guerra avvenuta sei anni dopo nel 1973, stavolta con gli arabi ad attaccare per recuperare le terre perdute nel '67. Le varie invasioni del Libano, da cui Tsahal si è ritirato solo nel 2000, e non completamente (le fattorie di Sheb‘a sono ancora in mano sionista, così come le Alture del Golan in Siria). Sullo sfondo di tutto ciò, il popolo palestinese e la sua strenua lotta per la sopravvivenza.
Il “Processo di pace”, che portò agli Accordi di Oslo del 1993, che prevedevano la nascita di uno stato palestinese comprendente la Cisgiordania e Gaza, sembrarono stare per chiudere il più lungo conflitto dell'era contemporanea. Non fu così. L'assassinio di Rabin portò al potere di nuovo i “falchi” in Israele con la ripresa conseguente delle ostilità. L'ennesimo allontanamento da una soluzione esasperò ancora di più il popolo palestinese che cominciò ad appoggiare gruppi religiosi intransigenti in misura maggiore rispetto a Fath (“al-Fatah”), che puntava tutto su Oslo ed aveva dunque una linea più morbida.

Terzo punto: é stata la scelta del sionismo di minare il processo di Oslo, rappresentata degnamente dalla provocatoria “passeggiata” di Sharon sulla Spianata delle Moschee, a generare la nuova escalation degli anni 2000, dalla seconda Intifada all'attuale guerra. Sabotando il “Processo di pace” Israele ha tolto terreno sotto ai piedi di Fath, quella “parte moderata” a cui oggi con ipocrisia Tel Aviv dice di rivolgersi.

Stabilendo questi punti preliminari, siamo arrivati adesso ai fatti di questi giorni. Probabilmente con queste premesse sarà più semplice districarsi nel labirinto degli attuali avvenimenti. Per prima cosa va sbugiardata una delle presunte "verità" che la nostra stampa ci vende. Non è stata Hamas a rompere la tregua. La tregua Israele semplicemente non l'ha mai rispettata. Anche quando non arrivavano i razzi Qassam sul sud di Israele, la Striscia di Gaza era completamente isolata, stritolata da un blocco imposto da Israele che faceva scarseggiare tutte le materie prime per la popolazione civile. Perfino i pescatori di Gaza erano impossibilitati dalla marina israeliana a svolgere il loro lavoro. Si può considerare questa una tregua? L'imposizione dall'esterno per i palestinesi di Gaza di non avere libertà di movimento, di dover sopravvivere con viveri, acqua e medicinali molto scarsi, si può considerare una tregua? Probabilmente il paragone con i campi di concentramento nazisti può apparire una forzatura, delle differenze sicuramente fra queste due situazioni ci sono. Ma le similitudini sono tanto presenti quanto inquietanti.
Riguardo ad Hamas, tanto si sta scrivendo in Europa, ma la confusione regna sovrana. Proviamo a fare un po’ di chiarezza: Hamas è salita al potere in Palestina per la concomitanza di tre fattori: La disperazione della gente, la sua rete assistenziale e il sistema di corruzione diffusa messa in piedi da Fath.
Per quello che riguarda il primo fattore ne abbiamo già parlato. Sessant’anni di occupazione hanno stremato il popolo palestinese, e quando anche la prospettiva di Oslo si è allontanata, la rabbia ha portato come sempre a una radicalizzazione delle masse. E vista la scelta di Fath ormai improntata alla mediazione, gli unici gruppi pronti a cavalcare la rabbia erano gli islamisti.
Il loro favore presso la popolazione sarebbe però stato impossibile senza la fitta rete di scuole coraniche e ospedali che Hamas fornisce a uno dei popoli più poveri del mondo. Questo è il settore in cui hanno sempre operato le organizzazioni islamiche nel mondo arabo, cosa da cui nasce un equivoco che è bene chiarire. Queste organizzazioni islamiste sono di natura essenzialmente sociale e non politica, si può dire che sono solamente prestate alla politica (con la parziale eccezione di Hezbollah). Nel momento in cui queste organizzazioni, da Hamas ai Fratelli Musulmani egiziani, tentano di sviluppare un programma politico di lunga durata i risultati sono abbastanza scadenti. E allora ci si chiederà, perché si sono gettati nell'arena politica? La loro funzione al momento è quella di colmare un vuoto, quello lasciato dalle organizzazioni di massa di sinistra del mondo arabo. La distruzione delle forti organizzazioni studentesche marxiste egiziane degli anni Settanta, così come l'estrema docilità mostrata da Fath in Palestina, hanno lasciato un vuoto che è stato colmato dagli islamisti. Così come dimostra l'Occidente in questi anni, quando le ideologie non riescono più a far presa sulla gente, le religioni guadagnano spazio.
Per quello che riguarda Fath, il discorso è alquanto complesso. Il suo sistema di corruzione, che ha prosciugato tutti gli aiuti destinati al popolo palestinese, è cosa ben nota. La sua sempre più esasperata moderazione e la sempre maggior vicinanza allo stato sionista, saltano all'occhio di tutti gli osservatori. Ma l'assoluta liquidazione del pilastro fondamentale dell'ANP come di un organismo asservito agli interessi sionisti è forse eccessiva. Innanzitutto Fath si porta dietro una lunga storia di resistenza al sionismo, e probabilmente senza di essa la stessa causa palestinese sarebbe un argomento storico e non di attualità. Come detto, la resistenza in forma islamista ha preso corpo su grande scala solo recentemente, con la seconda Intifada. Prima è stata la “resistenza laica” l'unico baluardo contro l'aggressione sionista. Nondimeno si possono cercare spiegazioni alle politiche di Fath. Forse la politica di appeasement nei confronti di Israele è dettata dal realismo di voler arrivare nel più breve tempo possibile all'edificazione di uno Stato palestinese, per alleviare le sofferenze della gente. E una lucida analisi della realtà parla di un popolo palestinese stremato e poverissimo, che si trova a combattere contro la quarta potenza militare del mondo, dotata di bombe atomiche, appoggiata dagli stati più potenti del mondo. In più, come detto in precedenza, quelli che dovrebbero essere i naturali alleati dei palestinesi, ovvero gli arabi, hanno perlopiù voltato le spalle, e non da adesso, alla “causa palestinese”. Forse la somma di queste considerazioni ha indirizzato la politica di Fath. Questa non vuole essere una giustificazione alla linea del partito che fu di ‘Arafat, ma una semplice ipotesi sulla piega che ha preso il pilastro centrale dell’ANP. In ogni caso siano vere o no queste congetture, il popolo palestinese ha sconfessato Fath, votando in massa per Hamas, cosa che è ancora più clamorosa in rapporto alla tradizione essenzialmente “laica” dei palestinesi cui facevamo prima accenno.

Dalla parte israeliana, altre considerazioni vanno puntualizzate. Innanzitutto che questa guerra venga scatenata poco prima delle elezioni desta più di un sospetto. Fa orrore pensare al massacro in atto come a una mera manovra elettorale, ma gli indizi ci sono. Essenzialmente questa guerra viene condotta dal Ministro della Difesa Ehud Barak, esponente di spicco del centrosinistra, a cui si oppone l'ultradestra di Benjamin Netanyahu. Questa guerra è sicuramente anche una mossa di Barak per mettere fuori gioco i “falchi” di Netanyahu. Il messaggio è chiaro: è inutile votare chi punta tutta la campagna elettorale sul pugno duro contro i palestinesi, visto che il pugno duro ce l'abbiamo anche noi. Inoltre anche la conduzione delle operazioni può essere vista in quest'ottica. Il fatto che all'inizio le operazioni di terra erano assenti desta interesse. L'opinione pubblica israeliana condannò infatti la conduzione della guerra in Libano del 2006, perché l'attacco di terra mise la battaglia sul piano prediletto dai guerriglieri di Hezbollah, la qual cosa fece impantanare l'esercito israeliano condannandolo a una sostanziale sconfitta politica. Lungi dal ripetere quell'errore, Barak ha pensato bene di sfiancare prima con dei massicci bombardamenti la popolazione di Gaza, spezzando centinaia di vite innocenti.
Riguardo agli obiettivi militari da raggiungere, l'analisi è complessa. Il punto di vista maggioritario in diversi schieramenti è che Israele voglia distruggere Hamas così che Fath riprenda il potere, la qual cosa aumenterebbe i sospetti di una stretta alleanza Fath-Israele. Ma questa ricostruzione appare alquanto semplicistica. Israele ha lanciato varie offensive nella sua storia per eliminare gli autori degli attacchi contro lo stato sionista, nei territori occupati palestinesi, come nei paesi arabi circostanti. Ogni volta dicono che sarà l'attacco risolutore. Ogni volta non lo è. Sostengono che seminare morte e distruzione è un deterrente contro le radicalizzazioni, quando è invece vero il contrario. Un popolo bombardato e umiliato, che ha visto morire i propri figli e i propri cari, non avrà alcuna voglia di scendere a compromessi e sarà sempre più deciso a combattere (vedi l’Iraq). Siamo dunque così sicuri che l'obiettivo di Israele sia la distruzione di Hamas? Qualunque gruppo negli anni di resistenza palestinese è stato preso a pretesto dai sionisti per i loro folli massacri. È convinzione di chi scrive che alla fine della guerra, Hamas non sarà stata distrutta. Inoltre, le voci a proposito dei finanziamenti che gruppi ultrasionisti avrebbero dato ad Hamas nei suoi primi anni di vita sembrano essere molto più che semplici dicerie.
Avere un gruppo che lancia su Israele dei razzi (pericolosi probabilmente meno dei botti illegali che ogni Capodanno mietono vittime in Italia) fa comodo ad Israele, che in questo modo giustifica le sue operazioni. Tutto ciò va solo a discapito di quella "Terza parte che schiva missili tra la miopia di Hamas e la complicità di Fath" di cui parla Mustafa Barghouti nella commovente “lettera aperta” da lui scritta il 27 dicembre.
Come segno di speranza è bene chiudere le considerazioni su Israele con i tanti gruppi che nella società israeliana si oppongono all'occupazione e che devono lottare quotidianamente contro l'ostracismo di uno stato che fa della propaganda razzista e dell'odio verso gli arabi l'unico modo di perpetuare il suo potere. Purtroppo la loro lotta è ancora minoritaria, ma è importantissimo da parte nostra appoggiarla, in quanto rappresentano l'unica speranza di vedere un giorno cambiare le politiche israeliane. I vari gruppi di “Ebrei contro l'occupazione” quotidianamente fanno sentire la loro presenza nei territori occupati e appoggiano il popolo palestinese, difendendolo spesso dagli abusi dell'esercito israeliano. Sebbene sui media occidentali abbiano pochissima visibilità, sarebbe bene amplificare tramite i nostri canali la loro voce di speranza per tutto il Medioriente.