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I liberisti? I peggiori

di Gianfranco la Grassa - 03/02/2009

I peggiori ideologi dei dominanti sono sicuramente gli economisti e, in particolare, quelli liberisti. Non sono soddisfatti di tutti i disastri provocati dalla loro dottrina da decenni a questa parte; hanno ancora il coraggio di parlare. Adesso si diffondono in “saggi” (cioè demenziali e disperati) consigli in base alla loro falsa rappresentazione della crisi del ’29, che si sarebbe aggravata perché, invece di cooperare, i vari Stati tentarono (giustamente ma inutilmente, per motivi che vedremo poi) di trovare soluzioni “individuali”. Quando però è utile, allo scopo di attaccare lo “statalismo” (keynesiano), i liberisti si ricordano che la crisi, pur finita la fase più acuta nel 1933, continuò strisciante e con ulteriori cadute fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Allora ribadiamo per l’ennesima volta alcuni concetti chiave. Noioso ripetersi, ma necessario con i duri di comprendonio; e duri quanto i liberisti non c’è nessuno, anche perché la cristallizzazione dei loro cervelli è favorita dall’essere imbottiti di tanti “dollari”.

La teoria dei costi comparati (Ricardo), l’antesignana di tutte le teorie del “libero” commercio internazionale (con vantaggi, presunti, per tutti!), era la teoria dei dominanti centrali dell’epoca, gli inglesi, gli unici ad avere sviluppato un’industria capitalistica, e che volevano quindi ridurre tutti gli altri paesi a zone di smercio dei loro manufatti e a semplici fornitori di materiali agricoli e minerari. In Germania prevalsero di fatto invece – superando l’opposizione dei reazionari agrari rappresentati dagli Junker – le tesi protezionistiche di List (non protezionistiche in linea di principio, ma solo nella fase dell’industrializzazione nascente), e quel paese divenne la nuova potenza industriale, superando a fine ottocento-primi novecento l’Inghilterra. Non diversamente si comportarono gli altri paesi della “seconda ondata” dell’industrializzazione.

La stessa affermazione resta valida per le successive epoche di distruzione creatrice, per quanto riguarda i rapporti tra nuovi settori di punta e quelli delle passate stagioni industriali. Ogni volta, il paese avanguardia in questi nuovi settori predica il liberismo con gli stessi intenti di sempre. E ogni volta, bisognerebbe trovare i nuovi List e mandare al diavolo i “ricardiani” di turno, ben pagati dalla potenza centrale dell’epoca. Questo, tuttavia, non è nemmeno il problema cruciale. Non i soli liberisti, ma l’intera accolita degli economisti è costituita di personaggi pagati per mentire e ingannare “le genti”. La crisi vera, quella “grossa”, con effetti duraturi e striscianti di continua tendenziale stagnazione, è effetto di una situazione di aperto policentrismo (quello denominato a suo tempo “imperialismo”); e fin quando non si verifica il definitivo e duraturo regolamento di conti tra potenze, la crisi non viene mai superata definitivamente. Le misure per combatterla sono tutti palliativi, che hanno talvolta un minimo (e casuale) successo quando non si è ancora nel pieno e maturo policentrismo; ma soltanto in una situazione di crescente multipolarismo, con notevole squilibrio tra la potenza di un polo e quella degli altri.

Nella situazione di multipolarismo, non soltanto il polo più forte usa metodi militarmente aggressivi (Irak, Jugoslavia, Afghanistan, ad esempio), non solo manda avanti a provocare e tastare il terreno vari servitorelli (Georgia e Ucraina, ad esempio), e compie tante altre azioni del genere (magari con il proprio scherano Israele). Esso impiega anche l’ideologia, ben servita però da settori capitalistici arretrati (di più vecchie fasi industriali, assistiti da una finanza parassita) nei paesi succubi: l’ideologia appunto liberista, punta di diamante della più becera reazione. Ad essa, nei paesi asserviti ai predominanti centrali, si oppone l’ideologia detta statalista (“keynesiana”), ma di uno statalismo falso, quello del parassitismo e inefficienza del settore pubblico, puro “succhiarisorse” con lo scopo “ufficiale” di sollevare la domanda ritenuta responsabile, ancora una volta mascherando la realtà con la menzogna ideologica, della crisi e stagnazione.

A contorno di questi ideologi maggiori stanno quelli presunti delle “classi dominate”, gli imbecilli “marxisti” (in specie nella miserabile versione "luxemburghiana" sottoconsumista), che corroborano le falsità dei dominanti in merito alla politica “sociale”: in realtà, una mera dilapidazione di risorse tramite il settore “pubblico” (lo statale scambiato per “anticamera del socialismo”). E’ proprio vero che una merda tira l’altra; e tutte insieme stendono una coltre di puzza e germi infettivi sui cervelli delle “genti”. Il vero statalismo – da non identificare mai con il socialismo né con il sociale, ma visto per quello che è: un mezzo per impedire intanto la sottomissione del proprio paese a quello predominante centrale – è l’azione politica che dà potenza a questo paese e lo rende strumento di crescita del multipolarismo, cioè di affievolimento relativo della preminenza di uno dei poli sugli altri.

E tale statalismo non ha alcun bisogno di seguire il cosiddetto hard power, l’azione militare; anzi deve proprio evitarla, finché possibile. Il problema è però sempre politico, mai solo economico. L’aspetto manifesto, e di superficie, dell’azione condotta può anche essere di quest’ultimo tipo (economico) – esempio: accordi Eni-Gazprom, con le compagnie algerina e libica di supporto, ecc. – ma gli effetti devono essere relativi appunto all’alterazione dei rapporti di forza tra i diversi poli in crescita, a detrimento del predominante e favorevole agli outsiders.

La crisi deve essere quindi considerata un’occasione importante per chiarire le falsità ideologiche – al servizio dei predominanti centrali – raccontate dal liberismo e dal keynesismo (e dal falso marxismo sottoconsumista); ideologie che, in polemica antitetico-polare fra loro, bloccano l’attenzione sullo Stato-si o Stato-no. Ciò su cui si dibatte in termini antitetici non è però lo Stato in quanto strumento principe delle strategie degli agenti politici; è esclusivamente lo Stato in quanto promotore o meno di politiche economicistiche, tutte favorevoli al predominio del paese centrale. Oggi, quest’ultimo – con la mascheratura del nuovo presidente, puro specchietto per le allodole – prende atto che non ha la forza di perseguire una politica direttamente tesa alla preminenza imperiale; accetta quindi la prospettiva multipolare, ma solo per arginare i nuovi poli in rafforzamento con una politica più furba e camuffata.

Smascherare queste ideologie (economicistiche) dei servi filo-statunitensi è decisivo. Noi teniamo presente che una fase è mutata, che gli sciocchi (o figli di p….?) ancora pregni di solo antimperialismo (in generale), di “lotta di classe”, ecc. sono sostanziali alleati del “nemico”. Non dimentichiamo per nulla i non decisori, sappiamo che esiste sempre un problema di equità sociale (tema che riprenderemo). Non ci scordiamo però che non esiste alcuna prospettiva di comunismo o di altri tipi di rivolta (ottocentesca) delle “masse” per mutare questa società da cima a fondo. Partiamo dalla fase (multipolarismo in avanzata) e illustriamo una politica – non semplici manovre economiche – atta a potenziarla. Basta con i liberisti, con i keynesian-“statalisti” (statalismo della pura domanda, potremmo definirlo), con il marxismo degenerato in mera “spalla” per i decisori.