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La questione israeliana

di Giuseppe Giaccio - 16/03/2009


In tutte le discussioni sul Medio Oriente, c’è una costante che si ripresenta puntuale, falsandole. Proprio per questo, essa andrebbe eliminata dallo scenario, ma ci si guarda bene dal farlo per il solito, paralizzante terrore di essere bollati come antisemiti. La costante di cui parliamo è la seguente: i riflettori vengono immancabilmente puntati sui palestinesi in quanto si dà per scontato che i problemi in Medio Oriente nascano soprattutto da loro. Spetta a loro, dunque, muovere il primo passo, il che significa rinuncia al terrorismo e riconoscimento dello Stato di Israele. Dopodichè, si potrà cominciare a discutere sul da farsi.
Ora, ad uno sguardo non accecato dal pregiudizio ideologico appare chiaro proprio il contrario, ossia che in Medio Oriente esiste un problema israeliano, dal quale scaturiscono tutti gli altri.
In origine, vi era una questione ebraica affrontata, nel corso dei secoli, attraverso tre strade: l’assimilazione, lo shtetl e la ghettizzazione (prima della drammatica Endlösung nazionalsocialista). Questa vicenda in cui, a seconda dei contesti, le tre strade si alternano o sono compresenti, conosce una svolta fondamentale quando gli ebrei che rifiutano il ghetto e lo shtetl constatano, al contempo, il fallimento del progetto assimilazionista sintetizzato dalla celebre frase proferita nel 1789 dal conte Clermont-Tonnerre in un suo intervento all’Assemblea nazionale francese : “Agli ebrei tutto in quanto individui, niente in quanto nazione”. Herzl scrive il suo famoso pamphlet Lo stato ebraico (Il Melangolo) partendo dal presupposto che l’assimilazione degli ebrei in quanto singoli, alla quale egli non era inizialmente sfavorevole, era fallita. La loro piena partecipazione alla modernità non poteva avvenire individualmente. Allora, se gli ebrei non possono essere come gli altri in quanto singoli, lo saranno in quanto popolo. Il sionismo è la proposta di assimilare gli ebrei come popolo, di farne un popolo come gli altri, anziché individui come gli altri. Anche loro avranno, perciò, un territorio, una capitale, un esercito, una magistratura, un tempio, e conquisteranno in tal modo davanti al mondo quel rispetto che è ad essi rifiutato singolarmente. Bisogna creare dei nuovi ebrei, che saranno dei nuovi Maccabei. Gente, quindi, stufa di continuare a chinare il capo e di farsi imprigionare nei soliti e infamanti clichè dell’ebreo-usuraio e dell’ebreo errante, e pronta a battersi per far valere i propri diritti. Questa è, del resto, la base di partenza anche di altri saggi meno noti al grande pubblico, ma che pure hanno svolto un ruolo nell’affermarsi del nazionalismo sionista, come, ad esempio, Roma e Gerusalemme di Moses Hess (Guida) e Auto-emancipazione di Leon Pinsker (Il Melangolo). Senza la tragedia del nazionalsocialismo e della seconda guerra mondiale, tale programma sarebbe quasi certamente rimasto sulla carta e quello di Herzl sarebbe oggi il nome dimenticato di uno dei tanti bizzarri utopisti che costellano la storia e non quello di un venerato Padre della Patria. In effetti, è proprio questa la fine che il suo sionismo rischiava di fare, almeno a giudicare dalla pessima accoglienza riservata in un primo momento al pamphlet herzliano in alcuni ambienti ebraici che, in sostanza, muovevano (e in parte muovono tuttora) a Herzl e al sionismo due obiezioni, la prima di carattere religioso (è un’empietà fondare uno Stato ebraico prima dell’avvento dell’era messianica), la seconda di carattere più politico (il timore, rivelatosi fondato, di vedersi rimproverare una doppia, e dubbia, fedeltà). Mentre furono gli ambienti antisemiti ad accoglierlo con favore. Essi, infatti, vedevano con comprensibile simpatia l’idea di risolvere la questione ebraica facendo sloggiare gli ebrei dall’Europa per inviarli in Argentina, in Uganda, in Palestina, o in qualunque altro luogo, purché lontano dal Vecchio Continente. È vero che nel 1917, prima quindi dell’avvento al potere di Hitler, c’era stata la dichiarazione Balfour, ma questo documento restava molto vago e non poteva, da solo, costituire una solida base per reclamare, in ambito internazionale, uno Stato ebraico. Solo la traumatica esperienza del nazionalsocialismo muta radicalmente il quadro. La guerra e la persecuzione degli ebrei sembrano infatti dare ragione alla tesi della necessità di un’entità statale ebraica ed inoltre rafforzano i sionisti che, essendosi trasferiti per tempo in Palestina, coerentemente con le loro posizioni, costituiscono, dopo il conflitto, la forza meglio organizzata che l’ebraismo può mettere in campo, mentre i loro oppositori ebrei rimasti in Europa vengono decimati dai nazisti. I numeri parlano molto chiaro. Fino all’avvento al potere di Hitler (gennaio 1933), la percentuale di immigrati provenienti dallo spazio germanofono si aggirava intorno al 2,5% dell’immigrazione globale in Palestina; successivamente, e sino a tutti gli anni Trenta, salì al 70%.  
Se appare formalmente vincente, in realtà il progetto sionista è un sostanziale fallimento che conferisce instabilità all’area mediorientale. Tale tesi può essere espressa anche in questi termini: la vittoria del sionismo fa pensare sempre di più, col passare del tempo, a una vittoria di Pirro, cioè ad una sconfitta. L’obiettivo che Theodor Herzl e i suoi seguaci si prefiggevano è stato raggiunto. Gli ebrei hanno, dal 1948, un loro Stato, e in questo senso si può parlare di vittoria. Ma il conseguimento di questa meta non si è accompagnato a una serie di altri risultati in mancanza dei quali lo Stato israeliano finisce col somigliare a un pacco dono, splendidamente incartato e infiocchettato, aperto il quale, però, ci si accorge che è vuoto o, in una prospettiva un po’ più ottimistica, che il suo contenuto è molto meno pregiato del previsto. L’antisemitismo, infatti, non è sparito, contrariamente alla convinzione di Herzl, con la creazione dello Stato di Israele, ma ha semplicemente trasferito altrove le sue fonti che oggi non sono più prevalentemente situate nell’area europeo-occidentale e cristiana, ma in quella orientale e islamica. E dalle popolazioni di quest’area, demograficamente in crescita, l’ebreo, israeliano o meno, continua a essere percepito come diverso e come un pericolo dal quale difendersi. Gli arabo-palestinesi non si sono affatto scappellati davanti ai nuovi venuti, ringraziandoli per aver dato loro la possibilità di partecipare alle delizie dell’Occidente, come Herzl pensava, secondo quanto si legge nel suo romanzo Altneuland (tradotto in ebraico col titolo Tel Aviv), ma hanno chiesto duramente ragione dei motivi della loro presenza. Può considerarsi un rifugio sicuro un paese che in circa sessant’anni di vita ha dovuto fare continuamente i conti con la violenza, inflitta agli altri o subita (guerra di indipendenza, guerra del Sinai, guerra dei sei giorni, guerra dello Yom Kippur, guerre contro il Libano, prima e seconda intifada, attacchi missilistici da parte dell’Iraq, attacchi terroristici suicidi, costruzione di un muro di separazione, insediamenti di coloni estremisti e bellicosi)? Questo elemento di conflittualità è d’altronde inscritto nel dna del sionismo, presentato da Herzl come un’ideologia aggressiva, protesa alla diffusione della civiltà europeo-occidentale in un’area arretrata e incivile (lo stato ebraico deve essere, secondo lui, “un avamposto della cultura contro la barbarie”) e che ha e avrà sempre dei nemici. Rispondendo a quanti gli obiettano che la sua impresa è senza speranza perché si sarebbe unita a lui solo gente senza arte né parte e non certo il meglio del mondo ebraico, Herzl osserva che questo è un bene perché “all’inizio avremo bisogno proprio di loro! Solo i desperados sono adatti alla conquista”. Egli si fa perciò beffe di quanti, anche tra gli ebrei, pensano che ci si dovrebbe impegnare non a creare altri confini e barriere, cioè un nuovo Stato, ma semmai a favorire i legami e la comprensione reciproci. Per Herzl, costoro sono solo “dei simpatici utopisti”, i quali non capiscono che “la fratellanza tra i popoli non è poi nemmeno un bel sogno. Il nemico è necessario per mettere alla prova la personalità umana. […] Credo che gli ebrei, come ogni altra nazione, avranno sempre abbastanza nemici”, rispetto ai quali “la civiltà attuale dispone di armi sufficienti per difendersi”. I versi di una poesia di Ya’akov Cahan, molto nota in Israele, riassumono bene questo spirito: “Con il sangue e il fuoco è caduto Giuda, con il sangue e il fuoco Giuda risorgerà”. 
Con questi presupposti ideologici, non c’è da stupirsi che, risolta, almeno sul piano formale, del diritto internazionale, la questione ebraica, ne sia nata una palestinese. Quest’ultima non ha quindi un carattere originario, ma derivato, è una conseguenza del fatto che gli ebrei sionisti si sono trasformati in israeliani e hanno scaricato, col consenso delle grandi potenze che dovevano farsi perdonare il loro secolare antisemitismo, la loro condizione ebraica sui palestinesi. La celebre definizione che, nell’Ottocento, il medico ebreo-russo Leon Pinsker dava degli ebrei può infatti, con qualche leggera variante, adattarsi benissimo ai palestinesi. Scriveva Pinsker: “Per riassumere, diremo che l’ebreo è per i viventi un uomo morto, per gli indigeni è uno straniero, per i cittadini un vagabondo, per i ricchi un mendicante, per i poveri uno sfruttatore e un milionario, per i patrioti un uomo senza patria, per tutte le classi un concorrente odiato”. Basta sostituire la parola “ebreo” con la parola “palestinese” ed avremo un ritratto abbastanza fedele dell’attuale condizione dei palestinesi. In un discorso pronunciato, nel 1944, ad Haifa, davanti alla gioventù sionista, David Ben-Gurion così descriveva la situazione degli ebrei che vivevano nel galut (esilio): “Galut significa dipendenza – materiale, politica, spirituale, culturale e intellettuale – perché siamo stranieri, una minoranza, priva di patria, senza radici, staccata dalla terra, dal lavoro dei campi e dall’attività industriale. Il nostro compito è ora troncare questa dipendenza e diventare padroni del nostro destino”. Anche qui, non viene subito in mente il dramma dei palestinesi?
Alla nascita di Israele, corrisponde la nakbah, la catastrofe palestinese, con oltre settecentomila palestinesi costretti a fuggire dalle loro terre e a cercare riparo altrove, a vivere in diaspora, in campi profughi, come vagabondi e stranieri, ospiti in casa altrui, o sopportati e umiliati in casa propria, costretti a veder sorgere come funghi insediamenti di coloni armati e fanatici, con la spada di Damocle perennemente pendente sul capo di ritorsioni e vendette israeliane, che iniziarono subito, il 9 aprile 1948, tanto per far capire che aria tirava, con la strage di Deir Yassin perpetrata da milizie sioniste e che costò la vita a più di duecento palestinesi. Da allora, abbiamo assistito a una lunga sequela di colpi inferti dall’una e dall’altra parte di cui non si riesce a scorgere la fine. Nel frattempo, Israele, da piccolo Davide, è diventato un arrogante Golia armato di tutto punto, anche con ordigni nucleari, e ampiamente foraggiato dagli Stati Uniti. Questa trasformazione è all’origine di quella che abbiamo definito questione israeliana, alla cui soluzione, a nostro avviso, è legata la stabilità dell’area mediorientale, più che alla questione palestinese. Israele è oggi, stando alle analisi di parecchi osservatori, un paese culturalmente e ideologicamente diviso, nel quale il sionismo non è più un fondamento indiscusso e indiscutibile e dove, accanto alle tradizionali posizioni sioniste che legano indissolubilmente Israele e il sionismo, ci si comincia a interrogare su una possibile fase ulteriore al sionismo o su una riforma radicale di esso (anche se poi è difficile distinguere le due cose). Per alcuni, il sionismo costituirebbe un vero tradimento dell’autentico modo d’essere ebraico, che sarebbe ispirato a un’etica universalistica, mentre il sionismo è un’ideologia nazionalistica e quindi particolaristica. Il sionismo avrebbe voltato le spalle alla “scelta di Abramo”, ossia al dialogo e all’ascolto, cui occorrerebbe ritornare (cfr. Wlodek Goldkorn, La scelta di Abramo, Bollati Boringhieri). Goldkorn si sbilancia fino al punto di indicare anche il nome del politico israeliano che potrebbe oggi incarnare questo ritorno, Amir Peretz, ex sindacalista e leader del partito laburista. I fatti hanno purtroppo smentito questa ipotesi. Messo alla prova in qualità di ministro della difesa del governo Olmert, Peretz, fondatore di Peace now, si è dimostrato non meno incline alle maniere forti degli altri suoi colleghi in occasione dei bombardamenti che si sono abbattuti sul Libano adducendo come pretesto la cattura di due soldati israeliani da parte di Hezbollah.
Per Zeev Sternhell, che ha anche lui coltivato illusorie speranze sul conto di Peretz, è invece l’Illuminismo il punto di riferimento in vista di una svolta universalistica, pluralistica e liberale da imprimere alla società e allo Stato israeliano, che finora sono stati segnati dal “nazionalismo tribale” dei padri fondatori. È questo nazionalismo, in versione religiosa o secolarizzata, ad animare i coloni che occupano i territori palestinesi e che rappresentano uno dei principali ostacoli al raggiungimento di una vera pace. Sternhell, peraltro, non ha dubbi sull’esito del conflitto. Come è già accaduto nella storia ad altre forme di colonialismo, anche quello sionista sarà sconfitto: “Il solo fattore oggi incerto è il prezzo morale e politico che la società israeliana dovrà pagare per superare la resistenza che lo zoccolo duro dei coloni opporrà sicuramente a qualsiasi soluzione giusta e ragionevole” (cfr. Nascita di Israele, Baldini & Castoldi).
Altri ancora, come Avraham Burg, sembrano più decisamente orientati in una direzione post-sionista. L’universalismo di Burg comporta, in pratica, una rivalutazione dell’identità ebraica, sulla scia del grande oppositore intellettuale di Herzl, Ahad Ha’am, a scapito di quella israeliana. La sua accusa al sionismo è che esso ha costruito una società e uno Stato privi di quella “narrazione”, che, a suo parere, costituisce l’essenza dell’esistenza ebraica: “L’ho già detto: non c’è esistenza ebraica senza narrazione. E qui, in Israele, una narrazione non c’è più. Ma la cosa più grave è che non ci sono forze capaci di tirare fuori una narrazione dall’interno. Per questo scelgo di andarmene nel mondo, nell’ebraismo. Perché l’ebreo è il primo postmoderno, il primo globalista” (cfr. l’intervista Leaving the zionist ghetto concessa al quotidiano israeliano Ha’aretz dello scorso 8 giugno).
Le tesi di Goldkorn, Sternhell e Burg danno per scontato che l’universalismo è la soluzione, mentre il particolarismo (in questo caso in versione sionista) è il problema, ma non è affatto detto che sia così. Carl Schmitt ha brillantemente dimostrato in sede di analisi teorica, e noi stessi abbiamo ampiamente sperimentato negli ultimi anni in sede pratica (si pensi alle bellicose scelte politiche del governo americano), che in nome dei valori universalistici si può seminare violenza e morte non meno (e forse addirittura più) che in nome dei valori particolaristici ed esclusivistici. Probabilmente, sarebbe più utile che l’intellighenzia israeliana desse uno sguardo ai vasti giacimenti culturali del pensiero federalistico da cui potrebbe venire qualche utile spunto. E nel fare ciò, essa non dovrebbe nemmeno partire da zero, giacché un’ipotesi di questo tipo – lo Stato binazionale – era stata già prospettata negli anni Venti del secolo scorso da un gruppo di intellettuali che aveva in Martin Buber il suo esponente più prestigioso. Vero è che questa idea è stata finora sempre liquidata con un sorriso, un’alzata di spalle e una parola: utopia. E questo sia da parte israeliana che palestinese. Ma oggi, dopo aver ampiamente sperimentato la formula disastrosa della divisione in due (lo Stato di Israele da un lato e una sorta di bantustan palestinese dall’altro) questa presunta utopia potrebbe avere qualche freccia in più nel suo arco. E in ogni caso, varrebbe la pena riprovarci. Sarebbe un compito certo difficile, perché una simile soluzione presuppone una reciproca e sincera accettazione, su un piano di parità. Ma è forse più facile e auspicabile vivere costantemente nella paura?   
Qualunque sia l’evoluzione del dibattito interno al mondo ebraico – dibattito nel quale si sostanzia la questione israeliana e del quale abbiamo fornito solo alcuni sommari accenni – ci pare di poter dire che la percezione che gli ebrei hanno di se stessi e del loro ruolo (un problema, quindi, metapolitico) avrà un’importanza capitale nella determinazione dei futuri assetti dell’area mediorientale. Un’importanza infinitamente più grande degli innumerevoli incontri al vertice sui quali si soffermano, con dovizia di particolari spesso irrilevanti, i mezzi di informazione. Osservando con uno sguardo d’assieme la storia degli ebrei, Aleksandr Solgenitsin, autore di un imponente saggio sui rapporti tra ebrei e russi (Due secoli insieme, Controcorrente), la descrive come un movimento prima espansivo, che li ha portati dalle sponde del Mediterraneo “fino alle regioni orientali dell’Europa”, poi di ritrazione, che li ha fatti “ritornare alla terra da cui erano partiti”. Probabilmente, lo strumento di cui gli ebrei, nel secolo scorso, si sono dotati per ottenere questo risultato, il sionismo, è giunto al capolinea, ed occorrerebbe porsi il problema di un nuovo fondamento politico, di un nuovo inizio, di una nuova e più pacifica base di legittimazione.  

[tratto da Diorama letterario n° 285]