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La verità cui tendiamo non è un dato razionale, ma una «pace vivente» ove l'anima si ritrova

di Francesco Lamendola - 04/05/2009


 

«Che cos'è la verità?», domanda Ponzio Pilato a Gesù Cristo; e non attende nemmeno la risposta, tanto è sicuro che si tratti di un interrogativo privo di soluzione.
Da allora, e da duemila anni, non abbiamo mai smesso di porci quella domanda, nel tentativo di superare lo scetticismo del procuratore romano; e, a partire dall'avvento della modernità, si direbbe proprio che i nostri MAÎTRES À PENSER siano giunti a una conclusione di cui paiono particolarmente soddisfatti, a dispetto del nichilismo avanzante, giorno dopo giorno, a ondate limacciose e tipico della società post-moderna. La verità, essi dicono, è una sola ed unica cosa con la VALIDITÀ SCIENTIFICA: quello che la scienza convalida, è vero; dunque (esempio clamoroso di falso sillogismo), anche tutto ciò che è vero, deve essere scientificamente valido.
Il guaio è che la scienza moderna, affermatasi con il paradigma galileiano e cartesiano, è - essenzialmente - una scienza QUANTITATIVA e DESCRITTIVA: nulla ha da dirci intorno all'essenza delle cose (il ««noumeno» di Kant), ma solo intorno a quei fenomeni che sono misurabili, verificabili, riproducibili. Ebbene, la vita reale, la vita vera, non quella che i filosofi idealisti e i fanatici scientisti raffigurano in generale e in astratto, non è niente affatto misurabile, verificabile, riproducibile, perché LA VITA VERA È UN TUTT'UNO CON NOI CHE LA STIAMO VIVENDO, e non esiste alcuna distanza fra l'io che la osserva e l'io che la vive e che è immerso in essa, parte di essa, fatto della sua stessa sostanza.
La conseguenza di tutto questo è che la scienza moderna non ha nulla da dirci sulla verità della nostra vita; e che la maggior parte della filosofia moderna, ridottasi ad ancella della scienza, non si trova in condizioni migliori. Dunque, l'uomo moderno - e, a maggior ragione, l'uomo postmoderno - versa in uno stato di analfabetismo totale, proprio riguardo a ciò che sopra ogni altra cosa lo riguarda e lo dovrebbe interessare: la verità di cui è depositario e di cui, al tempo stesso, l'Essere lo ha fatto partecipe, in quanto collaboratore della creazione.
Sembra un paradosso e perfino uno scherzo di dubbio gusto, ma le cose stanno proprio così: gli uomini moderno conoscono, grazie allo sviluppo del paradigma tecnoscientifico, una quantità sterminata di nozioni, ma continuano ad ignorare la cosa essenziale, cui Socrate invitava i suoi contemporanei duemilaquattrocento anni fa: la verità che giace in fondo ad essi, che è tutt'uno con essi, che rende significativa e oltremodo preziosa la loro vita.
Che cosa siamo noi, che cosa saremmo noi infatti - spogliati della verità che ci fa uomini, spogliati della verità che pervade il nostro essere e che costituisce il nostro destino e la nostra ultima, ineludibile meta? L'uomo senza la verità è meno di nulla: una promessa mancata, un tralcio senza grappoli, una spiga senza frutti, un rivo senz'acqua.
Eppure, obietta una legione di pensatori post-moderni, sostenitori del «pensiero debole» e delle sue flebili acquisizioni, la verità non è alla nostra portata, non è cibo per i nostri palati; non possediamo penne per volare così in alto (parafrasando Dante). Addirittura, aspirare al perseguimento della verità sarebbe - a sentire costoro - un atto di arroganza intellettuale, se non addirittura una manifestazione di imperialismo speculativo.
È abbastanza evidente che, nel sostenere simili tesi, essi giocano su una ambiguità di fondo, mescolando il concetto della verità, cui l'uomo tende per sua natura e alla quale eternamente aspira, con intatta nostalgia, se vuol restare fedele alla sua propria natura; e il concetto di possesso della verità, come se quest'ultima fosse qualche cosa di esteriore e di oggettivamente misurabile. Ma l'unica verità che si può possedere è la verità dell'anima: verità che si fa tutt'uno con la nostra vita interiore, con il nostro vero essere.
In altre parole, la verità non è un cosa, ma un come; non è un oggetto, ma un soggetto; non è un dato, ma uno stato dell'anima. La verità non è altro da noi; non è un evento a noi esterno; non è una definizione o un enunciato: la verità è l'Essere.
E poiché noi siamo parte dell'Essere, siamo immersi nell'Essere, siamo un tutt'uno con l'Essere, allora ne consegue che noi siamo fatti della stessa sostanza della verità - anche se non lo sappiamo, o ce ne dimentichiamo così spesso.

Commentando la concezione della verità del filosofo Gabriel Marcel, impropriamente definito esponente dell'esistenzialista cristiano, Enrico Piscione ha scritto (in: «Antropologia e apologetica in Gabriel Marcel», Reggio Emilia, Città Armoniosa, 1980, pp. 27-30):

«Una corretta impostazione del problema antropologico non può non tener conto del problema gnoseologico, quale, da Cartesio a Kant,  e da questi fino ad oggi attraverso l'idealismo, è stato formulato nella storia della filosofia moderna.
Marcel ne ebbe lucida coscienza: nella misura in cui volle indagare  non sull'uomo in generale, pura finzione inventata da un certo razionalismo, ma sui suoi fratelli e su se stesso, non poté non interrogarsi sul significato  e sui limiti della conoscenza  scientifico-matematica. Ciò accade nei primi anni del nostro secolo proprio quando la filosofia francese, in tutte le sue correnti, da Léon Brunschvigc, nutrito da Spinoza e da Kant, ad un modernista come Eduard Le Roy, discepolo cattolico di H. Bergson, era orientata, come scrive il Prini, "dalle coordinate massime  del principio d'immanenza e del principio d'oggettività, cioè dalla identificazione dell'essere con i contenuti dela coscienza  e dalla riduzione del sapere ala formalità logico-matematica.
Il principio di immanenza (come ci ricorda Marcel nel saggio "Valore e immortalità di Homo viator") veniva presentato come una legge irrefutabile dello spirito, e perciò della realtà.
Alla stessa stregua principio della oggettività gnoseologica, dopo le ricerche dei pensatori della scuola di Marburgo, sembrava ormai un fatto assodato: la verità è solo ciò che è riducibile alla coerenza  del sapere matematico, e il pensiero, quando si esercita nella sua pienezza  (si sosteneva da parte di questi neokantiani) ha il diritto e il dovere  di astrarsi dalla concretezza della condizione umana  e dalle dimensioni che le sono proprie, e che sono irriducibili ad ogni astratto sapere.
Contro questo soffocante e cupo razionalismo (alle cui spalle stavano cartesio e Kant) Marcel, già fra gli anni 1906-08, si sentiva di lottare tenacemente, probabilmente incoraggiato dal tentativoi anti-intellettualistico di Hneri Bergson, che proprio in quegli anni andava elaborando la sua filosofia  dell'ÉLAN VITAL e dell'INTUITION.
Già il Marcel  del primo "Giornale metafisico" (1915-23), che avvertiva una strana calamitazione per la trascendenza, si rendeva conto lucidamente dei limiti di ogni sapere analitico. L'epistemologia, come già si è accennato, sostituisce alla verità classicamente intesa come "adaequatio  rei et intellectus", il criterio della verifica, che si esprime nella peretta coerenza del sistema con se stesso.
La funesta dualità, in cui cade una gnoseologia così concepita, consiste, da un lato, nella svalutazione che questa opera  di tutto ciò che non è riducibile al sapere matematico e, dall'altro, nell'abbandonare alla psicologia e alla sociologia gli elementi residuali dell'uomo, che paiono al filosofo idealista  essere refrattari alle norme costitutive di ogni verità L'epistemologia razionalista sostituisce (l'abbiamo già detto) alla verità nel senso forte del termine, il criterio del valido.
Così Marcel si esprime nel suo primo manifesto metodologico, "Esistenza e oggettività" (1927): "Il cogito ci introduce in un sistema di affermazioni di cui garantisce la validità; esso si tiene nella soglia del valido, e soltanto identificando il valido e il reale,. Si può parlare, come si è fatto spesso senza prudenza, di un'immanenza del reale rispetto all'atto di pensare".
Inoltre, le categorie del pensiero logico-matematico, che appaiono come una specie di immensa ed inflessibile contabilità, non riescono, perché costituzionalmente sorde ad ogni "esprit de finesse", ad aprirsi ai ritmi particolarissimi ed irripetibili dell'esistenza umana.. Marcel ribadisce con forza questa affermazione nel solco di una larga protesta anti-idealistica.
L'esistenza, dunque, in ciò che ha di più profondo, sfugge all'ingenua pretesa di onnicomprensività, tipica dell'analitica logico-matematica, che ignora (e peraltro non saprebbe cogliere) le espressioni più tipiche di una coscienza credente che si apre all'esperienza religiosa, attraverso l'esperienza della fede, della speranza e della comunione con gli altri.
Fra l'idealismo (in qualsiasi formulazione esso venga proposto) e una filosofia che tenta di non ignorare il morso del reale, voi è dunque un implacabile dissidio. Non possiamo ammettere - scrive Marcel - che l'idealismo coincida con la filosofia, che in esso si risolva l'intera attività speculativa". Ciò che rende l'idealismo una malattia improponibile è proprio "il divario sempre crescente che si manifesta tra un simile modo di pensare e l'intera esperienza umana nella sua vita palpitante e tragica".
Constatato questo insuperabile divario fra l'idealismo e l'esistenza, l'istanza costruttiva del pensatore francese si attesta nella ricerca della verità, che sia rispettosa della concretezza della condizione umana. Non si tratta, come egli lucidamente scrive, di contrapporre, alle verità particolari, una verità in generale, che poi inevitabilmente rischierebbe di apparire priva di contenuto.
Marcel, facendo suo un termine proprio del pensiero religioso e della predicazione, preferisce parlare di spirito della verità, che anche una sommaria analisi fenomenologica mostra con chiarezza essere irriducibile "a ciò che comunemente si chiama l'intelligenza o la ragione; se quest'ultima - incalza l'autore - possiede la funesta facoltà di staccarsi totalmente dal reale.
Proseguendo in questa analisi si intende facilmente  come lo spirito di verità è l'atto mediante il quale  si mette fine a quell'eterna e superba illusione umana che è l'autocompiacimento. "In relazione a questa illusione - scrive Marcel, con toni che non possono ricordarci le famose parole del capitolo XXIX del "De Vera Religione" di Agostino, "lo spirito di verità si presenta come trascendente, e tuttavia, sembra che la sua funzione consista  nel restituirmi a me stesso; alla sua luce scopro che, adulandomi, io tradivo me stesso".
Marcel, insomma, riprende, con palpitante partecipazione personale, due grandi scoperte  agostiniane: innanzitutto quella che lo Sciacca, felicemente, chiama L'INTERIORITÀ OGGETTIVA, ovvero il principio secondo cui "veritas habitat in interiore homine"; in secondo luogo la riaffermazione, fondamentale per un'autentica filosofia cristiana, che non è possibile essere nella verità, cioè amare Dio, se non si è capaci di superare il proprio egocentrismo, "usque ad contemptum sui".
Queste conclusioni teoretiche non fanno per nulla (e lo andremo riaffermando più avanti) di Marcel un irrazionalista un fideista. La metodologia marceliana ha un suo intimo rigore, che non è però quello della logica deduttiva e della verificazione scientifica: si tratta, bensì, di un rigore che si misura con la concretezza della vita, e nella quale la verità non è mai un astratto principio, ma uno spirito.
Solo adesso possiamo capire fino la definizione, brevissima ma pur densa di significato, che Marcel dà della verità: "Lo spirito di verità va definito in relazione alla nostra condizione". La verità, lungi dall'identificarsi col principio della validità scientifica, attende di essere incarnata dall'uomo vivente, che sia disposto, attraverso il faticoso itinerario di questo mondo, a conquistare quella PACE VIVENTE in cui si identifica la salvezza cristiana.»

La verità, dunque, per Gabriel Marcel, non è un principio astratto, una parola morta inscritta in qualche misterioso Iperuranio; ma è verità vivente e palpitante, il cui cuore batte all'unisono con il nostro, e fatta della sua stessa sostanza.
LA VERITÀ È VIVA: scoperta straordinaria, di fondamentale importanza per la nostra vita e per il suo intimo significato. Non la si può circoscrivere all'interno di formule; non la si può consegnare a una definizione o a una categoria; non è cosa che si possa imbalsamare ed esporre in qualche museo del sapere, magari appiccandola a un espositore, come la farfalla dalle ali colorate che una mano insensibile ha trafitto con uno spillone e posto dietro una lastra di cristallo.
In genere, arrivati a questo punto, l'obiezione dei «realisti» è che la verità non può essere una verità-per-me, poiché, in tal caso, essa perderebbe il suo carattere di necessità e oggettività; che la verità DEVE essere superiore alla coscienza dei singoli individui, pena la sua retrocessione allo statuto di semplice «dòxa», opinione.
Rispondiamo che la verità oggettiva, in quanto tale, è al di fuori della nostra portata, almeno sul piano logico-razionale; ma che il concetto di verità-per-me deve essere sgombrato da possibili equivoci: infatti, non si tratta di fabbricarsi ciascuno una propria versione della verità ad uso personale, quanto, piuttosto, di raggiungere quel grado di persuasione che, solo, rende una verità non solo probante, ma anche convincente.
Cerchiamo di spiegarci meglio. Esiste un tipo di verità che schiaccia, ma non convince; che s'impone con la sua forza dimostrativa, con il suo rigore logico, ma non penetra nelle profondità dell'anima, perché l'anima non si risolve a darvi il suo assenso, ad aderirvi con tutta se stessa. Questo tipo di verità è proprio delle verità parziali, delle verità dimostrative o descrittive; ossia delle verità che informano circa un determinato evento, o un determinato concetto (rispettivamente, le verità di fatto e le verità di principio).
Ma la verità assoluta, la verità senza altra determinazione, trascende questo genere di verità parziali; le quali, per quanto legittime, e perfino utili, nei singoli ambiti della vita, non arrivano a coinvolgere l'intima essenza dell'anima, non giungono a «impegnare» la coscienza in maniera radicale e irrinunciabile.
Il modo in cui la verità assoluta irrompe nella nostra coscienza ordinaria è misterioso, ma non per questo lo si può negare o mettere in dubbio. Vi sono verità che traspaiono all'anima con perfetta evidenza, anche se indimostrabili a filo di logica; ebbene, la verità totale si rivela alla stessa maniera, sfruttando sentieri dei quali il Logos razionale nulla conosce, dei quali - anzi - non sospetta neppure l'esistenza.
Ma esistono, perché sappiamo che taluno è giunto in vetta.
Questo solo fatto taglia il nodo di ogni possibile obiezione. È ridicolo sostenere che nessun sentiero porta alla vetta della montagna, dal momento che qualche ardimentoso è giunto in cima: è stato visto, è stato ammirato da coloro che si trovavano in basso. Dunque, una via per salire deve esistere: il fatto che non vi sia un sentiero tracciato sulla carta topografica, non autorizza a negare che esso esista realmente e che, a determinate condizioni, sia percorribile.
Forse sarebbero in molti a potercela fare; forse sarebbero tutti: ma, ovviamente, dovrebbero prima disfarsi di tutta la zavorra inutile che rende così incerto e faticoso il loro cammino. Poi, dovrebbero imparare a osservare meglio il terreno, a studiare con più attenzione ogni minimo appiglio fornito dalla roccia; provando e riprovando, senza scoraggiarsi tanto facilmente.
Non che sia questione di tecnica. Al contrario, è essenzialmente questione di intuito, esattamente come nella creazione artistica. Un momento c'è solo una parete perpendicolare di nuda roccia, senza il minimo appiglio per le mani o per i piedi; un momento dopo, il terreno rivela chiaramente la via da seguire, con la stessa sicurezza che se fosse tracciata da mani umane.
È questione d'illuminazione.
Così, le verità delle scienza e quelle della logica ci possono venire ripetute all'infinito, senza mai trovare il varco che le faccia divenire delle verità-per-noi. Poi, di colpo, ecco che il muro si apre, e un soffio possente d'aria fresca irrompe nella stanza chiusa: l'anima ha visto la luce, come in un lampo, con la stessa sicurezza con cui l'alpinista tenace ha individuato il passaggio idoneo per aprirsi la via fino alla vetta.
E quella verità, che l'anima ha visto con chiarezza indubitabile, è anche - come dice Marcel - il luogo della pace; il luogo, cioè, dove le contraddizioni si placano e gli assillanti interrogativi si distendono, cedendo il posto a una ritrovata armonia dell'anima con se stessa.
L'anima, infatti, è la verità; per cui, quando la verità le si rivela, l'anima ritrova se stessa, rientra pienamente nella sua dimora.
E l'Essere, dal quale proviene e al quale aspira a ritornare, si pone quale supremo garante della verità che l'anima ha così ritrovato, della sua bontà, della sua bellezza; si pone quale supremo garante della sua fedeltà a se medesima.