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Bollettini di guerra possibile

di Gianluca Freda - 27/07/2009


Dal quotidiano israeliano Haaretz viene una buona notizia. Il test eseguito mercoledì scorso in California dagli specialisti della difesa missilistica israeliana è miseramente fallito. Le forze militari israeliane, in preparazione di un possibile attacco all’Iran, avevano deciso di testare i missili intercettori Arrow 2, in grado – almeno a detta del Ministero della Difesa di Israele – di neutralizzare i missili Shihab 3 con cui l’Iran potrebbe effettuare una ritorsione in caso di attacco. Israele non può permettersi di andare in guerra contro la Repubblica Islamica senza possedere uno scudo antimissile adeguato. Gli arsenali israeliani conterranno pure centinaia di testate nucleari, ma per cancellare Israele dalle mappe geopolitiche non serve l’atomica: basterebbe qualche decina di missili convenzionali piazzati con precisione contro obiettivi sensibili e la terra promessa del popolo eletto verrebbe consegnata per sempre alle pagine di storia, politicamente parlando.

Israele sa bene che l’Iran è un osso duro e che non cederebbe ad un’aggressione militare prima di aver giocato tutte le carte possibili. Il sistema di difesa antimissile israeliano Arrow era inizialmente stato concepito per neutralizzare gli Scud irakeni, che erano povera cosa, dotati di un raggio d’azione di 300-400 km., difficilmente in grado di provocare danni seri in territorio israeliano. Con l’Iran è tutto un altro discorso. L’Iran possiede già missili Shihab con una gittata di 1.000 chilometri, progettati in collaborazione con Cina e Corea, che sono perfettamente in grado di colpire qualunque obiettivo in territorio israeliano. In più sta per aggiungere al suo arsenale missili di nuova generazione, che possono colpire nel raggio di 2.000 chilometri. Ne consegue che Israele, per poter ridurre al minimo i rischi di ritorsione missilistica, si è visto costretto a progettare un nuovo sistema di missili intercettori (Arrow 2) che è appunto stato sperimentato tre giorni fa in collaborazione con le autorità americane.

Stando a ciò che riporta Haaretz, l’esercitazione non sarebbe andata granché bene. I responsabili della difesa israeliana hanno riferito che il test in California sarebbe stato “un parziale successo”. Il che, tradotto dal linguaggio militare, significa che è stato un completo disastro, una fetecchia assoluta. I missili Arrow 2 non solo non sono riusciti a colpire il missile di prova lanciato da uno C-17, ma non sono neppure riusciti ad orientarsi in direzione del bersaglio. Questo vuol dire che la possibilità concreta di un attacco all’Iran, che era sembrato imminente dopo l’attraversamento del Canale di Suez da parte di sommergibili e imbarcazioni militari israeliane, si trasforma a questo punto in un’opzione un po’ più remota. Probabilmente ha ragione Carlo Bertani in questo articolo, quando scrive che i piani d’Israele contro l’Iran non contemplano un attacco dall’esterno (se non come opzione estrema e inauspicabile), bensì una progressiva destabilizzazione interna. Tale destabilizzazione è già iniziata con le note vicende postelettorali e con le rivolte foraggiate da Mossad e CIA. Prosegue adesso con lo spiegamento di forze navali nel Mar Rosso, che non ha lo scopo di preparare un attacco vero e proprio, bensì di fornire supporto morale a quelle forze politiche interne all’Iran che lavorano per frammentare la coesione nazionale. Una volta indebolito dalle rivolte e dall’incertezza politica, una volta piazzate – con la collaborazione delle “forze amiche” che operano all’interno della stessa leadership iraniana - le persone giuste al posto giusto, l’Iran potrebbe essere pronto per il definitivo colpo di grazia militare.

Ma anche questa strategia potrebbe non essere facile da realizzare per gli strateghi militari e diplomatici d’Israele. Se da un lato la strumentalizzazione dei ceti medi urbani filo-Mousawi si è rivelata un efficace veleno per debilitare la società iraniana ed aprirla a contrasti e letali antagonismi, dall’altro lato la leadership del paese non sembra disposta a scendere a compromessi che potrebbero indebolirla. Dopo le elezioni di giugno, Ahmadinejad aveva nominato come proprio vicepresidente il “moderato” Esfandiar Rahim Mashahi, che rappresentava una soluzione di compromesso tra le esigenze di governabilità del paese e le pressioni provenienti dagli ambienti filo-occidentali. Mashahi è consuocero di Ahmadinejad, e ciò lo rendeva per il presidente iraniano persona di relativa affidabilità; ma dall’altro lato egli si era distinto l’anno scorso per atteggiamenti di moderata apertura verso Israele, dichiarando che “l’Iran può essere amico del popolo israeliano”. Questa soluzione di compromesso non è piaciuta alla Guida Suprema Khamenei, che subodorando il pericolo ha ordinato ad Ahmadinejad di licenziare il nuovo vicepresidente dopo uno scontro politico sotterraneo durato alcuni giorni. Khamenei, dopo la sponsorizzazione di Mousawi e delle sue rivolte da parte di Rafsanjani e dopo i perduranti voltafaccia del Consiglio degli Esperti, non vuole correre rischi. Nel paese si è aperto uno scontro politico durissimo tra le supreme autorità (Khamenei e Rafsanjani) che coinvolge indirettamente lo stesso entourage del presidente. Solo il tempo potrà dire se questa situazione di assoluta disarticolazione politica porterà ad un rafforzamento del potere centrale oppure ad un clamoroso ribaltamento di poteri del quale Israele non tarderebbe ad avvantaggiarsi.