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Il ritorno del terrorismo ceceno: una storia già vista

di Alessandro Iacobellis - 02/09/2009

 

Nel 2009 l’operazione anti-terrorismo condotta dalle forze di sicurezza della Federazione Russa in Cecenia ha compiuto dieci anni, da quando, nell’agosto 1999, i separatisti locali avevano tentato il colpo di mano con lo sconfinamento nel vicino Daghestan e una contemporanea campagna di attacchi terroristici coordinati in territorio russo. Da ciò la decisione dell’allora neo-presidente Vladimir Putin di reprimere militarmente le forze ribelli, esito naturale di una situazione che era già drammaticamente deteriorata durante la precedente, sciagurata presidenza Eltsin.
Dopo dieci anni di battaglie cruente (la capitale Grozny sostanzialmente rasa al suolo  già nelle primissime fasi del conflitto), attentati brutali (l’assedio della scuola di Beslan, Ossezia del Nord, del settembre 2004, ma anche nel cuore di Mosca, come la presa di ostaggi nel teatro Dubrovka nel 2002 o l’attacco alla metropolitana del febbraio 2004), in cui la vittima del fuoco incrociato delle due parti  in lotta è stata principalmente la popolazione civile, la situazione sembrava essersi relativamente normalizzata. Perlomeno secondo gli standard della storia del Caucaso, in cui una cronica instabilità è comunque da mettere sempre in conto, a causa dell’inestricabile mosaico di rivalità etniche e religiose che si incrociano in una società strutturata sui clan, in cui è fiorita anche una potentissima criminalità organizzata (la mafia cecena su tutte).
La politica di Putin, dopo la prima fase della durissima repressione militare, era passata alla graduale “cecenizzazione” del conflitto.
Nel febbraio 2007, infatti, la presidenza della Repubblica autonoma era stata affidata all’ex-ribelle Ramzan Kadyrov, poco più che trentenne, musulmano sufi praticante, figlio di Akhmad, a sua volta ex presidente assassinato in un attentato nel maggio 2004. Kadyrov padre e figlio combatterono da indipendentisti durante la Prima Guerra Cecena del ’94-’96, alleando il loro potente clan alla leadership dell’ex ufficiale dell’Armata Rossa Aslan Mashkadov, ma si schierarono al fianco di Putin allo scoppio del secondo conflitto, allorché la partita cominciava ad essere monopolizzata da forze esterne, col determinante influsso di estremisti religiosi provenienti dall’estero.
Arriviamo quindi al 2009. Dopo qualche anno di calma apparente, anche grazie ai metodi inconfessabili utilizzati da Kadyrov e dai suoi uomini, la situazione pareva volgere al meglio, tanto da indurre il presidente Medvedev a dichiarare formalmente conclusa l’operazione anti-terrorismo lanciata una decade fa (16 aprile).
Nel frattempo, però, erano già stati lanciati segnali inquietanti, con l’evidente scopo di offuscare la sostanziale dichiarazione di vittoria russa. Il 2 febbraio il sedicente emiro del Caucaso del Nord, Doku Umarov (epigono del tristemente noto Shamil Basayev, colui che pianificò il massacro di Beslan, ucciso dalle forze di sicurezza nel luglio 2006), aveva dato il disco verde per una nuova ondata di attacchi terroristici anti-russi.
Ritornavano quindi (anche se in realtà non se ne erano mai completamente andati) gli attacchi a pattuglie isolate di soldati per mezzo di imboscate nei villaggi di montagna, le esplosioni di ordigni sul ciglio della strada al passaggio dei convogli di poliziotti locali. E ritornavano anche gli attentatori suicidi.
A seguito di ciò, Medvedev era costretto ad ammettere che la sicurezza dell’area transcaucasica rimaneva comunque instabile, e l’FSB (il servizio di intelligence della Federazione), contava già circa 80 morti tra le forze regolari e 48 tra la popolazione civile nel solo inizio del 2009. A ciò si aggiungeva una stima di 112 ribelli caduti in scontri a fuoco.
Fin qui, verrebbe da dire, nulla di nuovo nella ciclica e secolare violenza della regione nord-caucasica.
I problemi, quelli più seri, cominciano però in giugno, quando il terrorismo comincia a puntare clamorosamente in alto. Si comincia in Daghestan, dove il Ministro degli Interni, generale Adilgerei Magomedtagirov, e il suo braccio destro, Aburazak Abakarovwas, sono colpiti e uccisi da un cecchino mentre partecipano ad un banchetto di nozze in un ristorante.
Si punta ancora più in alto, e con ancora maggiore violenza, il 22 giugno, in un’altra Repubblica autonoma dell’area, l’Inguscezia. Nel capoluogo di Nazran, un kamikaze a bordo di una Toyota Camry imbottita di esplosivo attacca il convoglio presidenziale, puntando ad uccidere Yunus-bek Yevkurov, uomo di fiducia del Cremino, insignito della carica da Medvedev solo nell’ottobre 2008. Nell’attentato muoiono un poliziotto di scorta e il cugino nonché autista di Yevkurov, Ramzan.
Il presidente rimane gravemente ferito, ma si salva miracolosamente. Il messaggio comunque è arrivato.
Così l’Inguscezia diventa negli ultimi mesi il fronte caldo del terrorismo interno alla Federazione. Se pure la Cecenia costituisce storicamente da diversi secoli il cuore del separatismo caucasico più duro, giova ricordare come esso sia esteso con più o meno virulenza anche in diverse altre Repubbliche circostanti: Daghestan, Inguscezia, Ossezia del Nord, Cabardino-Balcaria e Caracievo-Circassia. Seguiranno per tutta l’estate attentati a diversi funzionari governativi ingusci di medio e alto livello, tutti a segno: il 7 luglio viene ucciso il direttore del Centro di Investigazione Forense, Magomed Gadaborshev, cui seguirà, il 13 agosto, il Ministro dell’Edilizia, Ruslan Amerkhanov. Altre vittime eccellenti, l’ex Primo Ministro Bashir Aushev, e il giudice capo della Corte Suprema Aza Gazgireeva.
Agli omicidi mirati si accompagna anche la ripresa drammatica delle tattiche stragiste da parte dei ribelli: il 17 agosto, sempre a Nazran, un attentatore suicida a bordo di un’autobomba si lancia contro l’edificio che ospita il quartier generale della polizia federale. Il bilancio è tragico: 25 morti (una decina dei quali civili) e 164 feriti. Il più grave attentato avvenuto nella Repubblica negli ultimi anni, cui seguiranno aspre polemiche interne agli apparati di sicurezza in merito alla sua evitabilità (l’FSB aveva ricevuto informative attendibili nei giorni precedenti l’attacco). Per tutta risposta il Ministro degli Interni inguscio, Ruslan Meiriyev, viene licenziato in tronco su “suggerimento” diretto di Mosca.
L’ondata di violenza che scuote l’Inguscezia è tale da far passare in secondo piano persino la rinnovata violenza in Cecenia. Anche lì, il terrorismo ha tentato il colpo grosso, però fallendo. Il 26 luglio un separatista si fa esplodere durante un concerto in cui era presente Kadyrov in persona: sei i morti (fra cui quattro esponenti di alto rango delle forze di sicurezza), il presidente illeso. Anche in questa occasione, però, il messaggio è arrivato.


Il Caucaso e il Grande Gioco

Fin qui i fatti.
Ma l’analisi di ciò che si cela dietro a questa recrudescenza ci porta molto lontano.
E ci porta alla storica missione affidata al Caucaso: essere la punta di destabilizzazione interna alla Russia, per minarne la potenza e qualsiasi prospettiva di rinascita. I padrini di questa operazione sono ben noti da tempo, e non bisogna nemmeno scavare troppo per conoscerne i nomi.
Gli sponsor principali del separatismo anti-russo si trovano ad Occidente. Concetto ripetuto, fra gli altri, dallo stesso (miracolato) presidente inguscio Yevkurov subito dopo la strage di Nazran del 17 agosto: l’interesse per un Caucaso perennemente in fiamme riscuote parecchi consensi su entrambe le sponde dell’Atlantico.
Il supporto finanziario fornito ai separatisti dal Quantum Fund e dall’Open Society Institute di George Soros è realtà assodata, così come l’accoglienza affettuosa che i leader ceceni in esilio ricevono nelle capitali e nei ristretti circoli della democrazia-export. Un esempio su tutti, Akhmed Zakayev a Londra (in buona compagnia di Berezovsky e di altri oligarchi fuggiti da Mosca per non rispondere delle loro rapine ai danni dello Stato durante l’era-Eltsin, ma trattati alla stregua di innocenti perseguitati politici), da dove per anni ha rivendicato indisturbato atti terroristici ai danni di uno Stato sovrano che non ha alcun contenzioso aperto con Londra (anche se pare che nelle ultime settimane abbia iniziato qualche timido avvicinamento a Kadyrov, secondo il gioco delle alleanze perennemente mutevoli tipico della storia della regione).
Verrebbe da chiedersi cosa accadrebbe a parti inverse, se per assurdo il comando dell’IRA dirigesse le proprie operazioni anti-britanniche da Mosca. Immaginiamo gli alti lai delle vestali della democrazia occidentale…
Ma allargando ancora di più la visuale non si può non notare come la destabilizzazione caucasica rientri nel quadro più vasto dell’Asia centrale. Laddove, appena al confine con le Repubbliche ex-sovietiche che tuttora costituiscono lo spazio geopolitico di influenza russa ad Est, vi è l’Afghanistan, quel Paese in cui la nuova amministrazione statunitense di Barack Obama si sta giocando tutta la propria residua credibilità, dopo la malaparata irakena. Le cose in Afghanistan vanno male, anzi, sempre peggio per gli Usa e per la coalizione a guida-Nato loro alleata (compreso, purtroppo, un nutrito contingente italiano). L’Afghanistan è fin dagli anni ’80 la chiave di volta per le strategie anti-russe made in Washington. La creazione artificiale (armi, addestramento e denaro) da parte dell’intelligence statunitense dei mujaheddin anti-sovietici rientrava a sua volta nella più estesa dottrina di Zbigniew Brzezinski che prevede il contenimento, l’accerchiamento, e infine  la penetrazione della sfera di influenza russa con una manovra a tenaglia che parte dal versante indo-pakistano e arriva fino all’Europa orientale.
Schema che vediamo perpetuarsi anche oggi, con una serie di provocazioni studiate a tavolino, come lo scudo spaziale anti-missile dislocato in Polonia e Repubblica Ceca, e i golpe atlantici in Georgia e Ucraina, per mezzo dei fantocci Saakashvili e Yuschenko.
Lo scontro tra Russia e Occidente su questa scacchiera si gioca su più ambiti, da quello della cooperazione militare fino a quello, fondamentale, della politica energetica e delle forniture di gas. In merito a quest’ultimo punto, se ne vedranno delle belle nei prossimi mesi, quando i nodi verranno al pettine e l’Europa dovrà presumibilmente scegliere una volta per tutte fra la “via americana” (il gasdotto Nabucco) e quella russa (Nord Stream e South Stream).
La Russia di Putin ha avuto il merito di fiutare subito la trappola, rispondendo a tono ad ogni provocazione e sapendo acutamente dosare in egual misura bastone e carota. Per quanto riguarda il bastone, un buon esempio è la vittoria-lampo sui georgiani dell’agosto 2008 che ha portato all’indipendenza “de facto” di Abkhazia e Ossezia del Sud, nonostante il generoso rifornimento di armi dagli amici di Washington di cui gode Tbilisi, assestando un colpo pesantissimo da cui Saakashvili si deve ancora riprendere (da quel momento in avanti la sua popolarità interna è scesa ai minimi storici). A ciò si accompagna anche una politica più sottile e machiavellica, per esempio nel caso dello stesso Afghanistan, per il quale la Russia ha concesso alla Nato il trasporto merci su suo territorio. Più a sud, nell’area del Mar Caspio, la Russia si tiene ben stretta la partnership strategica con l’Iran di Ahmadinejad, scampato il pericolo della eterodiretta Rivoluzione Verde di Moussavi (i cui sostenitori scandivano durante le manifestazioni lo slogan “Morte alla Russia”… sarà un caso?).
Insomma, uno stallo insostenibile per chi, a Washington come a Bruxelles, aveva sognato un rapido e indolore soffocamento della volontà di rinascita della potenza russa.
Pertanto, dopo il fallimento dei neo-cons di Bush jr. che avevano maldestramente consigliato ai georgiani il disastroso blitz su Tskhinvali, ecco che esattamente un anno dopo col cambio di casacca alla Casa Bianca mutano anche le strategie anti-russe, e si ritorna alla più insidiosa arma del terrorismo interno. Del resto gli uomini sul campo non mancano, visto il copioso afflusso di mercenari wahhabiti confluiti sin dagli anni ’90 grazie all’aiuto dell’immancabile Arabia Saudita, esportatrice di terrorismo amica dell’Occidente ed etichettata dai media allineati “Paese arabo moderato” non si sa bene secondo quali criteri (la laica e socialista Siria, al contrario, viene dipinta come covo di terroristi…). Lo stesso copione ripetuto tra le altre cose nei Balcani, nei casi di Bosnia-Erzegovina e Kosovo.
Mancava solo il via, ed è arrivato: e così riecco a Grozny gli uomini-bomba e i sedicenti emiri, con lo stesso marchio di produzione (CIA-ISI pakistano). Il tutto, si badi bene, ha come prima vittima proprio i popoli caucasici e in primis quello ceceno, costretto a vivere in condizioni miserabili, tra due fuochi, ormai da decenni. Anche perché la trasformazione dell’indipendentismo, da quello pragmatico e laico del primo conflitto, a quello degli estremisti tagliagole sponsorizzati dall’Occidente e fondamentalmente alieni alla storia locale, ha finito per danneggiare proprio i ceceni, ostaggi di quelle che sono a tutti gli effetti due forze di occupazione che si fronteggiano sulla loro terra.
Un popolo divenuto a tutti gli effetti pedina nelle mani di cinici speculatori e vittima di giochi geopolitici ben più grandi di lui.
Si addensano quindi nubi minacciose sul futuro del Caucaso, fra terrorismo e destabilizzazione. Con il consueto strabismo dei nostrani paladini dei diritti umani, campioni ipocriti dell’indignazione e della condanna a senso unico.