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Afghanistan, Obama al bivio

di Enrico Piovesana - 15/10/2009





I generali chiedono massicci rinforzi per non perdere la guerra. Il Premio Nobel per la pace deve decidere cosa fare

Sono giorni cruciali per il futuro dell'Afghanistan.
Mentre a Kabul si attende il verdetto della Commissione Onu che sta verificando i brogli elettorali alle elezioni presidenziali del 20 agosto per sapere se ci sarà o no il ballottaggio, a Washington il Premio Nobel per la pace, Barack Obama, sta decidendo come rispondere alla richiesta di rinforzi giunta dal generale Stanley McChrystal, comandante delle operazioni militari alleate in Afghanistan.
Mandare al fronte altri 40 mila soldati come chiedono militari e opposizione repubblicana?
Mandarne solo 10-15mila come suggeriscono il ministro della Difesa, Robert Gates, e il ministro degli Esteri, Hillary Clinton?
Non mandarne affatto come chiede il vicepresidente Joseph Biden assieme alla gran parte del Partito Democratico?
O addirittura iniziare un graduale ritiro come chiedono sempre più cittadini americani impensieriti dall'incubo di un nuovo Vietnam?

Ritirare truppe invece che mandarne ancora. Quest'ultima opzione pare sia già stata scartata dal presidente, nonostante i sondaggi che mostrano la crescente contrarietà popolare a questa guerra (due americani su tre non voglio mandare più truppe) e i numerosi pareri di esperti e analisti che suggeriscono un netto cambio di strategia rispetto agli errori commessi da George Bush.
Notevole, tra questi, l'articolo pubblicato dalla prestigiosa rivista Foregin Policy, edita dal Washington Post, intitolato ‘Definire la vittoria per vincere una guerra. Dopo quasi dieci anni di guerra in Afghanistan, gli Stati Uniti non hanno ancora definito cosa intendono per successo".
Gli autori del pezzo, David Axe, Malou Innocent e Jason Reich, partono dal presupposto che l'intervento militare in Afghanistan deciso dopo l'11 settembre 2001 è motivato dalla necessità di difendere gli Stati Uniti dalla minaccia del terrorismo islamico internazionale di Al Qaida.

"I nemici sono i terroristi, non i talebani". "I talebani e altri gruppi armati locali, come quelli della rete di Jalaluddin Haqqani o dell'Hezb-i-Islami di Gubuddin Hekmatyar, e altre formazioni indigene pashtun, rappresentano una minaccia irrilevante alla sovranità e alla sicurezza degli Stati Uniti. Quindi, portare avanti una campagna di controinsurrezione contro questi militanti non è una pressante questione di interesse nazionale. Di fatto, prolungare la presenza militare Usa in Afghanistan su vasta scala e allargare artificialmente il numero dei nemici, rischia di unire contro gli Stati Uniti questi gruppi guerriglieri, altrimenti irrilevanti. Un regime islamico come quello talebano, magari incoraggiato a moderare le sue frange più militanti, potrebbe diventare un alleato accettabile per gli Stati Uniti", come lo è già stato nella seconda metà degli anni '90, aggiungiamo noi, quando i leader del regime talebano al potere venivano addirittura ricevuti al Dipartimento di Stato e al quartier generale della Cia.

Il parallelo con la situazione somala. Gli articolisti di Foregin Policy sorvolano su questo e, più diplomaticamente, riportano l'esempio della Somalia. "Anche lì Washington ha confuso Al Qaida con un regime nazionalista, quello delle Corti Islamiche che, nonostante l'applicazione della sharìa malvista in Occidente, nel 2006 governavano in maniera efficiente buona parte del paese e godevano di un largo consenso popolare. Le Corti Islamiche erano di fatto la migliore opportunità di stabilità che la Somalia abbia avuto negli ultimi decenni. Ma l'amministrazione Bush non ha saputo distinguere del Corti da quel pugno di rifugiati di Al Qaeda che nel frattempo aveva trovato rifugio in alcuni remoti villaggi somali; distruggere i terroristi implicava distruggere le Corti Islamiche. La disastrosa invasione etiope, sostenuta dagli Stati Uniti, ha scatenato una guerra che non ha facilitato le operazioni contro Al Qaida, ha solo rafforzato i sentimenti anti-occidentali della popolazione locale e la fazione armata somala più radicale, quella di Al Shabaab".

"Solo forze speciali per combattere Al Qaeda". "Sostenere il governo del presidente Hamid Karzai a Kabul non facilita in alcun modo le operazioni contro Al Qaida. Semmai, distrae dall'obiettivo, concettualmente più semplice, di trovare e uccidere terroristi. Senza la protezione degli Usa e della Nato, il regime di Karzai verrebbe, presto o tardi, rovesciato dai talebani, ma questo non vorrebbe dire ‘aver perso' la guerra. Perché la guerra è contro il terrorismo, non contro i governi islamici. Gli Stati Uniti dovrebbero prepararsi a fare la pace e a trattare con i talebani, incoraggiandoli a scaricare i loro elementi più estremisti. Dopodiché andrebbero formate piccole squadre di forze speciali che, assieme a milizie locali, si muoverebbero agilmente su quel difficile terreno e colpirebbero il ‘vero' nemico con efficacia e rischi minimi. Operazioni militari su piccola scala condotte in collaborazione con Cia, Fbi e agenzie d'intelligence regionali. Invece di accrescere il numero di truppe, gli Stati Uniti dovrebbero ridurre la loro presenze militare e adottare obiettivi più limitati. Invece che provare a proteggere i villaggi afgani dai talebani, gli Usa dovrebbero concentrarsi sullo smantellamento delle cellule di Al Qaeda, in Afghanistan e Pakistan".