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Ahmedinejad e Berlusconi: i due complotti

di Claudio Moffa - 20/10/2009

Fonte: claudiomoffa

Due paesi e due leaders diversissimi, entrambi sotto attacco sul piano interno e internazionale

Uno strano destino sembra accomunare due personalità e due paesi così diversi fra loro: è dal giugno scorso che l’Italia di Berlusconi e l’Iran di Ahmedinejad sono teatro di eventi che solo uno sguardo molto ingenuo potrebbe percepire come casuali o come frutto esclusivo delle “intemperanze” o delle “aberrazioni” dei due leaders. In realtà, è evidente che si è di fronte a due complotti tesi a destabilizzare i governi di Roma e di Teheran, consacrati dal voto popolare e protesi a cambiamenti capaci di incidere non solo sugli equilibri interni ma anche su quelli internazionali. Le due derive sono, fatte salve le differenze storiche e istituzionali fra i due paesi, molto simili: prima l’aggressione sul piano elettorale, poi la mobilitazione di piazza, infine – falliti i due tentativi, e a fronte della consimile determinazione di Ahmedinejad e Berlusconi a non “mollare” alle pressioni delle rispettive cosiddette “opinioni pubbliche” – l’escalation violenta: alle voci sulla morte di Khamenei, alle violenze di piazza contro Ahmedinejad, e all’attentato stragista del Belucistan, ben corrispondono - tenuto conto delle diversità storiche fra i due paesi - da una parte la diffamazione permanente via internet, tv e “stampa progressista” contro il Presidente del Consiglio italiano, e dall’altra le minacce dirette contro la sua persona. Alcuni, mezzo loffi e mezzo superficialii, minimizzano, ma in realtà quell’istigazione a delinquere via internet di un dirigente del PD di De Benedetti “sparate a Berlusconi”, e il volantino “comunista” che promette la “rivoluzione” contro la maggioranza liberamente eletta dal popolo e dal proletariato italiani, non sono da sottovalutare. Solo per un caso fortuito la bomba del disperato musulmano milanese non è esplosa, altrimenti avremmo avuto anche qui da noi la prima vera e propria strage della strategia della tensione del nuovo secolo: rivolta, oggi, contro il rinnovamento del paese proposto dal centrodestra, così come di quella degli anni Settanta obiettivo era stata l’avanzata di una sinistra non ancora erosa e distrutta dall’egemonismo del giornale partito di De Benedetti (1976). Peraltro, in entrambi gli attentati iraniano e italiano funziona la disinformatio tipica delle strategie complottiste: in Iran, la maschera sunnita per una strage che, come del resto denunciato esplicitamente da Ahmedinejad, puzza lontano mille miglia Mossad (con relative proiezioni anglo-americane); in Italia, le maschere islamica dell’oscuro Mohamed Israfel e quella “comunista”, riedizione becera delle BR del “compagno” Moretti, assassine del filoarabo Moro.
Fin qui gli aspetti esteriori che accomunano le due crisi iraniana e italiana. Ma la forma dei due complotti non permette certo di concludere automaticamente circa l’identità di campo e di minacciato “destino” dei due governi. Una prima differenza sta nell’elite politica che circonda i due leaders: Ahmedinejad è personalità determinata, ma anche prodotto di una generazione diffusa di leaders politici forgiatisi dopo il 1979, e nel pieno di un rivolgimento
profondo della società iraniana. Questo anche spiega la ferocia dell’attentato di tre giorni fa, un chiaro tentativo di fare il vuoto attorno al presidente iraniano. Quanto a Berlusconi, egli è invece prodotto soprattutto di se stesso: ha inventato lui stesso il suo partito, sconvolgendo i piani del complotto di Tangentopoli, e ricompattando attorno a se una parte almeno del ceto politico dei vecchi partiti della prima repubblica. Ma proprio questo rende assai più debole il suo progetto e il suo establishment politico: non c’è alcun ricambio vero nelle fila del centrodestra alla sua leadership, è un dato oggettivo prima ancora che una critica o un apprezzamento.
Ma questo ragionamento riguarda più che altro il futuro, le tenuta nel tempo lungo del programma del centrodestra. La domanda dell’oggi è invece, confrontando le crisi in Iran e in Italia, soltanto questa: riconosciuta l’esistenza di due piani di destabilizzazione consimili nelle forme, si può forse estendere la similitudine alla loro natura ultima? Sono le stesse forze che vogliono eliminare Ahmedinejad, quelle che minacciano in Italia il governo Berlusconi?
La risposta non è semplice: per l’Iran il quadro è sufficientemente chiaro, chi vuole il rovesciamento di Ahmedinejad e la fine del suo programma di sviluppo nucleare è il solito Israele e il solito sionismo oltranzista: non solo oggi Obama resiste, ma persino Bush junior aveva alla fine puntato i piedi contro i tentativi di Tel Aviv di coinvolgere gli Stati Uniti in una aggressione contro Teheran. E’ sempre e solo Israele che predilige la “soluzione finale”, oggi per il “caso Ahemdinejad”, ieri per tutte le altre crisi mediorientali: che riesca o no a tentare questa partita (vincerla è altra cosa), dipenderà dalle pressioni (ad orologeria?) della giustizia israeliana su alcuni leaders politici dello Stato ebraico, dai rapporti interni allo stesso sionismo internazionale e, negli USA, dal braccio di ferro fra Obama e la Rodham Clinton, assediata nel suo Dipartimento di Stato dall’attivismo concorrenziale di George Mitchell e del suo consorte. Una partita sottile e incerta che, fra le altre cose, la dice lunga sulla vacuità delle analisi della solita sinistra antiamericanista, incapace di distinguere fra le proprie condivisibili opzioni e aspirazioni, e i fatti; e fra i tempi lunghi (forse lunghissimi) e lenti (forse lentissimi) della diplomazia obamiana, e la direzione effettiva della strada intrapresa dal nuovo capo della Casa Bianca: il quale, in Honduras come nel Darfur mostra di essere pressato ma nello stesso tempo anche desideroso di liberarsi dalla stretta mortale della “lobby”.
Quanto a Berlusconi, il suo filoisraelismo è plateale e sbandierato ad ogni occasione, ben saldo anche nella composizione della compagine governativa di centrodestra. Cosa che spinge Odifreddi a compiere la sua eroica scelta antisionista attaccando la Gelmini (ma sulla riforma universitaria Giorgio Israel ha detto cose sagge) e collaborando con Il fatto di Travaglio e Colombo, che più filoisraeliani non si può.
Ma le contraddizioni non sono solo del matematico e della sinistra finta antisionista, ma anche, all’opposto, del centrodestra: perché, nonostante l’Afghanistan, nonostante il non riconoscimento di Hamas, ci sono altri capitoli del programma del governo di centrodestra che, commisti al decisionismo del leader del PDL, spaventano molto i poteri forti internazionali: l’alleato Gheddafi, assolutamente necessario per bloccare i flussi migratori senza regole in Italia, è sicuramente – nonostante le belle parole terzomondiste e anticolonialiste con cui il premier italiano ha commentato l’accordo con Tripoli di 14 mesi
fa – molto scomodo, viste certe denunce forti del leader libico contro Israele, l’ONU e la sua in-giustizia internazionale. Di più e più dirompente, l’opzione nucleare è una sfida non solo all’immobilismo interno ammantato di bucolicismo ecologista, ma anche agli equilibri mediterranei. Certo l’Italia non è l’Iran, ma imboccata la strada dell’energia atomica, le iniziali opzioni possono anche mutare o quanto meno essere percepite come mutabili da chi è ossessionato dal monopolio strategico nel settore. Per il nucleare (anche per il nucleare) morì molto probabilmente Mattei.
Infine, per toccare un altro fronte, la manovella aquilana di Tremonti, il meccanismo che ha messo in moto l’attacco ai paradisi fiscali e all’anarchia destabilizzatrice del grande capitale speculativo transnazionale – un avvio che che spiega la ragionevolezza, con tutte le sue contraddizioni, dello scudo fiscale – rischia di incrinare la dittatura finanziaria non solo sull’economia – le questioni cruciali del signoraggio, dello strapotere bancario e appunto dei paradisi fiscali - ma persino sul ceto politico del “mondo libero”: perché quel sta procedendo, sia pure attraverso l’insopportabile mediazione dei “grandi” del mondo (la cui “autonomizzazione” non esaurisce certo il problema) è la possibile liberazione della Politica dalla sua schiavizzazione ad opera del mondo finanziario e dunque massmediatico. La rabbiosa reazione – cadenzata a suon di mignotte e di domande diffamatorie – di Repubblica contro Berlusconi e Tremonti rappresenta appunto questo: non si tratta solo o tanto di invidia personale fra i due big del capitalismo italiano (il “fallito” De Benedetti contro il vincente Berlusconi) quanto della certezza che il centrodestra non si comporterà mai, sotto la guida del suo attuale premier, come il cagnolino addomesticato del centrosinistra postbipolare, istruito giorno per giorno dagli spocchiosi e minacciosi editoriali di Scalfari.
In Italia è Repubblica a giocare, peraltro fin dai tempi del PCI di Berlinguer, Napolitano e Cossutta e delle micidiali campagne polacca e afghana, questo ruolo antidemocratico che svuota le istituzioni repubblicane e il voto popolare della loro legittimità e sacralità costituzionale: all’estero, lo stesso ruolo è svolto oggi dai media cugini, dall’Economist al Times dalla Frankfurter Allegmeine al New York Times, da El Pais a Sky di Murdoch. Il vero impero massmediatico del nostro secolo, altro che Mediaset: l’impero che aggredisce giorno dopo giorno non solo l’Italia di Berlusconi ma anche l’Iran di Ahmedinejad, dipingendolo come una dittatura integralista e feroce, conciostesso creando il terreno – come nel 2001-2003 nei confronti dell’Iraq, e nel 1999 contro la Jugoslavia – per un suo rovesciamento o dall’interno o dall’esterno.
E’ troppo presto per fare di questa coincidenza il punto focale per capire una situazione molto complessa, proponendo conclusioni affrettate: tanto più che, a fronte di certe possibili direttrici “neomatteiane” dell’ENI con cui il centrodestra mostra una sintonia forte, o a fronte del ben diverso atteggiamento nei confronti della Russia di Putin (un paese odiato dalla solita lobby mediatica internazionale, tanto quando l’Iran) la stampa berlusconiana usa esattamente gli stessi clichet quando scrive di Medio Oriente, con toni troppo accesi e netti per poter cercare di leggere “fra le righe” un comportamento solo tattico (un tatticismo che peraltro, se fosse tale, rischierebbe di trasformarsi in un boomerang: un po’ come la scelta di Craxi e Andreotti di partecipare alla guerra d’Iraq del 1991, in controtendenza con lo spirito di Sigonella). Tuttavia, lo svolgersi degli avvenimenti
nei due paesi merita anche in futuro un’attenzione comparata per cercare di comprendere quel che accade: in Iran se la campagna internazionale cui è sottoposto il governo di Teheran non ripeta nei meccanismi profondi della disinformazione (prendere un episodio condannabile e amplificarlo a “simbolo” della perfidia del regime) quella contro l’Italia; e in Italia, quali delle componenti della politica internazionale del nostro paese – se quella puramente diplomatica, quella ideologica, o quella “strutturale” intracapitalistica – costituisca alla fine la pietra miliare su cui elaborare una corretta analisi e eventualmente – per chi ne avesse voglia e coraggio – un agire politico diverso.