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Un trattato alfieriano contro la tirannide

di Fabrizio Legger - 25/10/2009

    È lecito, per il bene di un intero popolo, assassinare il tiranno che lo opprime?Si tratta di un interrogativo che, puntualmente, ci si pone quasi sempre dopo tentativi di tirannicidio (falliti o riusciti che siano) nei confronti di questo o quel capo di Stato che governa il proprio paese con metodi, per l’appunto dittatoriali (se ne discusse a suo tempo per il cileno Pinochet, per il libico Gheddafi, per il panamense Noriega, per l’iracheno Saddam, e se ne è tornato a parlare qualche anno fa, in seguito all’ attentato da cui è uscì illeso il dittatore pachistano Musharraff).Dunque, uccidere (o tentare di uccidere) un tiranno, è eticamente lecito oppure no? E, inoltre, è conveniente tentare di uccidere un tiranno? Non si rischia, forse (se, come il più delle volte accade, il tirannicidio non riesce), di rendere ancora più repressivo e crudele il regime dispotico?A tal proposito, i pareri sono vari, complessi, e soprattutto molto discordanti tra loro. Non sarebbe perciò inutile, per rendersi edotti su questo delicato e difficile argomento, tornare a rileggere il breve trattato Della Tirannide, che il poeta e tragediografo astigiano Vittorio Alfieri (1749-1803) scrisse nel 1777 e che, data l’affascinante e incisiva lucidità con cui è stato composto, continua a rimanere uno dei testi-base su questo difficile argomento.Il trattato è suddiviso in due libri: nel primo, Alfieri compie una attenta analisi dell’inscindibile binomio potere-tirannia, esaminando minuziosamente la figura del tiranno e la struttura del regime dispotico; nel secondo libro, analizza il modo di comportarsi dell’uomo libero (cioè del ribelle che non si piega alla tirannide) all’interno di un tale regime, teorizzando i vari modi per porre fine all’oppressione o, almeno, per non essere direttamente danneggiati da essa.Così il fiero Astigiano descrive l’odiata tirannide, nel capitolo secondo del Primo Libro: “Tirannide indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzione delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d’impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.”Di fronte a questo stato di cose, sfuggire il regime tirannico isolandosi e vivendo un’esistenza appartata e nascosta, potrebbe sembrare la soluzione migliore, e infatti, non a caso, una delle soluzioni proposte dall’Alfieri, quella che egli ritiene più praticabile, consiste nell’isolarsi totalmente dalla società oppressa dal potere dispotico e di vivere in una sorta di solitario esilio, senza nessun contatto con coloro che, per libera scelta o per costrizione, hanno accettato di scendere a compromessi con il tiranno. Purtroppo, però, questa opzione presuppone che il libertario che la pratica sia economicamente autosufficiente e capace quindi di sopravvivere senza doversi rivolgere per alcunché al sistema dominato dal tiranno (un sistema che, come è ovvio, risulta essere fatto di clientelismi, favoritismi, sottomissioni, nonché dominato da un fosco clima di repressione del benché minimo dissenso), il che la rende difficilmente percorribile ai più.Secondo Alfieri, la tirannide ha il suo fondamento basilare nella “vicendevole paura che governa il mondo”. Puntelli fondamentali del regime tirannico sono dunque la nobiltà cortigiana (oggi identificabile con i funzionari e i burocrati che eseguono tacitamente le scellerate volontà dei dittatori), le milizie professioniste e mercenarie (oggi identificabili con le milizie private o di partito, la polizia politica e le organizzazioni paramilitari che, con sfumature diverse, sono presenti in ogni dittatura), la religione (intesa come istituzione asservita al potere secolare e complice di esso nella partecipazione al potere o nel mantenimento di uno status quo che le consente di portare avanti i propri interessi).Egli, infatti, così descrive l’atmosfera che grava in un regime tirannico o in una società ad esso sottomessa: “Tutti dunque, e buoni e cattivi, e dotti e ignoranti, e pensatori e stupidi, e prodi e codardi; tutti, qual più qual meno, tremiamo nella tirannide. E questa è per certo la vera universale efficacissima molla di un tale governo; e questo è il solo legame, che tiene uniti i sudditi col tiranno.”Ovviamente Alfieri, quando scriveva queste pagine, aveva dinanzi a sé gli esempi dell’Europa settecentesca, dove erano presenti regimi estremamente dispotici, come quello russo, quello prussiano,quello ottomano (solo per citarne alcuni tra i peggiori), ma con le opportune correzioni, questa analisi del regime tirannico è applicabile anche alle dittature e ai regimi totalitari odierni (quella teocratica sciita della Repubblica Islamica dell’Iran, per esempio, oppure quella castrista a Cuba, quella di Kim Jong Il in Corea del Nord, quella gheddafiana in Libia, la dittatura nazionalsocialista del Baath in Siria, il regime narco-militare del Myanmar o la dispotica monarchia del Nepal).Come può reagire l’uomo che ha un animo libero, cioè non corrotto dal virus pestilenziale del servilismo e non incline a sottomettersi al despota, vivendo in un regime così soffocante e così repressivo quale è appunto quello della tirannia?Secondo Alfieri, i modi sono diversi, ma soltanto tre di questi hanno reali possibilità di successo. La prima soluzione, come ho già evidenziato, è quella che l’uomo libero si apparti in sdegnosa solitudine, in una sorta di volontario esilio, lontano dal tiranno, dalla sua corte, dalle sue spie, dalle sue milizie e dai suoi satelliti che tentano (ora con la violenza, ora con la corruzione, ora con i ricatti) di far tacere le poche libere voci che osano protestare contro la tirannia.In questa sua sdegnosa solitudine, il ribelle alfieriano dovrebbe comporre scritti anti-tirannici e libertari capaci di infiammare gli animi degli oppressi e di indurli a ribellarsi contro il despota. In pratica, l’esempio austero, integerrimo del cosiddetto liberuomo, unito ad una attività letteraria totalmente aliena da compromessi e patteggiamenti con il regime, dovrebbe servire ad sprone per quegli animi oppressi che mal sopportano la dittatura e che attendono soltanto un’occasione, uno sprone, un incitamento, per insorgere e ribellarsi apertamente contro il tiranno. Ma si tratta di una soluzione assai difficile da percorrre e che, il più delle volte, non dà i frutti sperati.La seconda soluzione consiste nel fatto che il popolo, a causa della troppa ferocia del regime, insorga spontaneamente contro di esso, scateni la rivolta e lo abbatta, appunto, a “furor di popolo”. In questo caso, afferma Alfieri, più la tirannia è spietata, brutale e sanguinaria, e meglio è, perché le sue continue atrocità potranno condurre il popolo alla sollevazione.Vi è però il fatto che, secondo Alfieri, un popolo che vive per lunghi anni sotto il ferreo giogo tirannico finisce, spesso, con il non avvertine neanche più i tragici effetti: e così, lo scrittore si domanda “se un popolo, che non sente la tirannide, la meriti o no”. Su tale argomento, Alfieri è molto severo e intransigente: egli disprezza nello stesso modo, tiranni e schiavi, despoti feroci e servi vigliacchi, e se un popolo oppresso non sente il bisogno di ribellarsi alla tirannide che lo domina, allora ecco che, quasi quasi, quel popolo codardo si merita la tirannide con tutto il suo sanguinoso corteo di atrocità, repressioni ed efferatezze.Infatti, all’inizio del sesto capitolo del Secondo Libro, egli così scrive:“Quel popolo che non sente la propria servitù, è necessariamente tale, che non concepisce alcuna idea di politica libertà. Pure, siccome la totale mancanza di questa naturale idea non proviene dagli individui, ma bensì dalle invecchiate loro circostanze, che sono giunte a segno di soffocare in essi ogni lume primitivo della ragion naturale; la umanità vuole, che al loro errore si compatisca, e che non si disprezzino affatto costoro, ancorché disprezzati siano e disprezzabili.”Si tratta di un giudizio estremamente drastico e implacabile, severissimo, già nel 1777, anno in cui venne scritto il trattato, ma che divenne ancora più severo ed inflessibile, come è noto, soprattutto dopo i tragici avvenimenti della Rivoluzione francese, di cui Alfieri fu diretto protagonista suo malgrado e, in seguito ai quali, perse completamente la già pochissima fiducia che aveva nel popolo. Infatti, la bestiale massa popolana, per lui (aristocratico repubblicano ma pur sempre aristocratico), altro non era che “vile plebe”, tanto che la definì “ignava greggia insana”, e quindi, nel di lei operato, nutriva ben poche speranze di riscatto.La terza soluzione proposta, allora, consiste nel gesto solitario dell’eroe di libertà, cioè, dell’individuo eccezionale, pronto a sacrificarsi per il bene del popolo, che, in totale solitudine, decide di avvicinare e assassinare il despota. Si tratta del celebre gesto del “tirannicidio”, che Alfieri trattò con dovizia di particolari in molte delle sue Tragedie.L’eroe di libertà affronta il tiranno a viso aperto e lo uccide, pur sapendo che ciò gli costerà la vita. Ma lo farà da solo, non coinvolgendo altre persone, non complottando e non congiurando, perché, secondo Alfieri, i complotti e le congiure sono molto rischiosi, riescono difficilmente, e presuppongono una completa unità di intenti tra i congiurati che, raramente si riesce a raggiungere. Ecco dunque il gesto solitario e tutto individuale dell’eroe di libertà, che uccide il tiranno rischiando la sua stessa vita, ma sperando che tale gesto estremo induca il popolo degli oppressi ad insorgere una volta per tutte e ad abbattere per sempre la tirannia.Così, nel capitolo quarto del Secondo Libro, Alfieri descrive il gesto solitario del tirannicida offeso dal despota, il quale, con il suo atto estremo, vendica se stesso e gli altri suoi fratelli oppressi dal comune avversario:“Quell’uomo adunque, che dal tiranno riceve una mortale ingiuria nel sangue, o nell’onore, si dee figurare che il tiranno lo abbia condannato inevitabilmente a morire; ma che nella impossibilità, in cui egli è, di scamparne, gli rimane pure la intera possibilità di vendicarsene prima, e di non morire quindi infame del tutto. Né altro deve egli pensare in quel punto, se non che, tra i precetti del tiranno, il primo, e il solo non mai trasgredito da lui, si è di vendicarsi di quelli che ha offeso egli stesso. Sia dunque il primo precetto di chi più gravemente è stato offeso da lui, il prevenire a ogni costo con la sua giusta vendetta la non giusta e feroce d’altrui.”Tutto il trattato è pervaso da una profonda amarezza, ma, al tempo stesso, è animato da una sorta di irriducibile furore anti-tirannico. Si tratta di uno scritto che risale ai primi anni dell’attività letteraria alfieriana, uno scritto composto molti anni prima della Rivoluzione francese e che Alfieri, dopo la sua fuga precipitosa da Parigi, si affrettò a smentire, in quanto convinto che, alla luce degli avvenimenti rivoluzionari di Francia, questo libro avrebbe potuto procurare assai più danno che non giovamento alla sacra causa della libertà.Così, l’edizione del Della Tirannide, fatta stampare dallo stesso Alfieri in Francia, prima della Rivoluzione, fu rifiutata dall’autore, che si pentì di averla data alle stampe. Ma, nonostante questa ritrattazione, avvenuta negli ultimi anni della sua vita (anni pieni di delusioni e di amarezza, che videro la composizione di un’opera sarcastica e velenosa come Il Misogallo, cioè “l’odiatore dei Francesi”, un libello in prosa e in versi contro la Francia giacobina e rivoluzionaria), Alfieri, con tale scritto, dette un contributo fondamentale per la comprensione dello sciagurato fenomeno della tirannide, contributo che si prospetta ancor oggi estremamente attuale, continuando il mondo, purtroppo, ad essere tuttora pieno di dittatori e di tiranni. E la recente riedizione del trattato, nella collana economica Biblioteca Universale Rizzoli, costituisce una ennesima prova dell’attualità di questa singolare opera alfieriana.