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Fino a che punto i ricordi conservano l'impronta viva del passato?

di Francesco Lamendola - 23/11/2009


Per svolgere una riflessione sul rapporto con il nostro passato, abbiamo scelto di partire da un brano del filosofo A. N. Whitehead (in: «Scienza e filosofia», traduzione italiana di I. Bona, Milano, Il Saggiatore, 1966; cit. in C. Sini, «I filosofi e le opere», Milano, Principato, 1986, vol. 3, pp. 383-34; 387-88):

«Un modo di vivere è qualcosa di più del variare delle relazioni in frammenti di materia nello spazio e nel tempo. È vero che la vita dipende da simili fatti esterni e che la sensazione più importante dipende da essi e ne è condizionata, ma, se si prescinde da quella particolare atmosfera che è data dal sentimento, tutti i comportamenti si equivalgono e sono tutti altrettanto privi di interesse. La principale validità dei ricordi d'infanzia e della propria fanciullezza sta nel conservare, con naturalezza e senza rendersene conto, l'atmosfera della società in cui sono stati vissuti. Le due generazioni che hanno preceduto l'epoca attuale sono insieme vicinissime e lontanissime. Sentiamo quasi ancora il fruscio dei loro abiti, man mano che svaniscono nell'ombra, e indugia ancora  tra noi il suono delle loro voci e il loro modo di muoversi. E ciononostante la generazione di coloro che non hanno ancora cinquant'anni le conosce così poco: la letteratura attuale, coi suoi clamori e la sua enfasi, ha fatto di tutto per snaturarle. Ma i ricordi illuminano di una luce rasserenante quei modi di sentire che dalla letteratura sono stati distorti per esigenze di narrativa o di confronto.  […]
È curioso come rimangano in mente alcuni particolari.  Ricordo esattamente il vecchio fascinaio che portava la legna nella casa dei miei genitori, tra il 1870 e il 1875. Era un vecchietto strano, ignorantissimo, che si guadagnava a stento da vivere. Indossava un abito di velluto a coste, talmente vecchio che era impossibile calcolarne esattamente la data di fattura. Tagliava gli arbusti dai cespugli nella foresta vicino a Canterbury, a circa 17 miglia da casa nostra. Poi faceva a pezzi la legna nella lunghezza voluta e legava i rami in fascine, ciascuna delle quali rappresentava più o meno la quantità di legna necessaria per accendere il fuoco una volta. Ogni quindici giorni o tre settimane arrivava al villaggio, con un gran carro pieno di fascine accatastate. Passando gridava: "Fascine! Fascine!" con una voce strana, rauca e ritmata, che mi è rimasta impressa nella mente anche se sono passati più di cinquant'anni. Il cavallo era ancor più decrepito dell'uomo - un vecchio cavallo da tiro, completamente sfiancato. Facevano circa un miglio e tre quarti all'ora: l'uomo camminava a fianco del cavallo ed insieme si trascinavano avanti, senza fermarsi e senza stancarsi, vicinissimi alla fine dei loro giorni e nello stesso tempo apparentemente eterni e fuori del tempo. Quell'uomo, il suo cavallo, la regina Vittoria, e i suoi ministri, sono tutti una parte essenziale della storia inglese. E ad essa appartiene anche mio padre, il vicario del distretto, profondamente radicato nella vita di campagna, così come mi viene in mente ora, a distanza di mezzo secolo, con le sue conversazioni col vecchio fascinaio. Quei due erano molto amici, ed è un peccato che io ricordi solo un pezzetto della loro conversazione. Era il vecchio fascinaio che diceva: "C'è gente che per lavorare si affanna dalla mattina alla sera. Ma vede, caro signore, la sera del sabato arriva alla stessa ora per me e per loro". Questo è un autentico frammento di conversazione paesana di circa sessant'anni fa, e gli interlocutori sono tutti morti, e con loro il loro mondo di consuetudini. […]
Il vecchio fascinaio, quando col suo carro e col suo cavallo percorreva lentamente i boschi vicini a Canterbury fino al North Foreland al margine estremo del Kent, attraversava senza rendersene conto e senza saperlo i luoghi in cui era passata la storia inglese. Vi sono ancora in Inghilterra singoli individui al suo livello mentale, ma come genere non esistono più. Per quanto riguarda l'istruzione la frattura fra le classi sociali è stata ampiamente colmata.  Per quell'uomo la storia secolare di Cambridge, con le sue reliquie di martiri, eroi, artisti e re, non aveva nessun significato.  Avanzava attraverso prati paludosi, contornati da fortificazioni romane; attraversava il villaggio di Minster, con la sua magnifica chiesa normanna e i ruderi  di un monastero che un tempo aveva governato il territorio circostante; vedeva il punto in cui Agostino aveva tenuto il suo primo sermone; vedeva la spiaggia su cui erano sbarcati i sassoni; oltrepassava Osengal - cioè il sito delle ossa - che probabilmente è il più antico cimitero inglese.  Ma per lui tutto ciò non significava niente: non poteva capire né il passato da cui egli stesso derivava, né le forze del presente che avrebbero ben presto eliminato i tipi come lui.»

In questo notevole brano di prosa, due sono le questioni che emergono relativamente al significato dei nostri ricordi, ed entrambe hanno a che fare con il rapporto fra la nostra interiorità e il dato esterno che comunemente viene designato con il termine di «oggettività» (ammesso che una cosa del genere esista e che sia accessibile alla nostra sfera conoscitiva; dubbio, per inciso, che tende a capovolgere la prospettiva cui ci ha abituati Kant a proposito della conoscibilità del fenomeno e della inconoscibilità del noumeno).
La prima questione riguarda la storicità dei nostri ricordi, e, più precisamente, della cornice storico-ambientale in cui essi si collocano.
La seconda questione, invece, investe il problema del grado di consapevolezza dei singoli individui rispetto alla cornice storico-ambientale non già del passato, ma del proprio presente.
Le due questioni sono strettamente correlate perché, se si giungesse alla conclusione che, per molti individui, scarso o quasi nullo è il grado di consapevolezza del proprio contesto storico-ambientale, allora sarebbe necessario ammettere che, per essi, vale lo stesso principio di indeterminatezza che esiste, per tutti, fra il presente ed il proprio remoto passato: vale a dire che molti di noi sono estranei alla piena consapevolezza del proprio presente, così come si suppone che lo siano tutti i bambini e, dunque, così come si pensa che siano labili i rapporti fra il nostro presente di adulti più o meno consapevoli, e il nostro passato di bambini inconsapevoli.
In tal caso, dovremmo riconoscere che due sono le cause che tendono a sfumare il nostro rapporto con il mondo: una è data dal trascorrere del tempo, che, mano a mano, erode la nitidezza dei ricordi; l’altra, dalla nostra imperfetta attitudine a vivere consapevolmente il presente, la quale fa sì che noi ci muoviamo come in una sorta di nebbia.
Esisterebbero, pertanto, due generi di nebbia, che fanno da schermo tra noi e il mondo: una relativa al nostro passato, ed è quella propria dell’infanzia, che non coglie i nessi temporali né, in generale, i fattori oggettivi delle situazioni; ed un’altra relativa al nostro presente, che - spesso - viene vissuto inconsapevolmente, per ragioni solo in apparenza diverse da quelle dell’infanzia, mentre, in effetti, si tratta di qualcosa di simile, ovvero la scarsa consapevolezza del soggetto.
Prima di iniziare la nostra indagine, è bene che ci mettiamo d’accordo su ciò che intendiamo adoperando il concetto di consapevolezza.
Diciamo consapevole l’atteggiamento di chi non si limita a vivere a livello immediato e istintivo, fondendosi, in qualche modo, con le cose che lo circondano e con gli eventi che lo coinvolgono, ma possiede la capacità di collocare se stesso e le cose in una prospettiva storica, vale a dire cogliendo la natura continuamente mutevole delle cose, ivi compreso il proprio sé.
In altre parole, la consapevolezza esprime il grado di capacità di oggettivare l’esperienza, tanto quella del sé, quanto quella di quel mondo che, per convenzione, diciamo esterno (ma Berkeley ha mostrato che si tratta di una mera illusione).
Il bambino non possiede affatto questa facoltà; l’uomo adulto, e specialmente colui che sia fortemente portato all’introspezione e alla razionalizzazione, la possiede in grado massimo; la maggior parte degli esseri umani adulti oscillano fra questi due estremi, con la notevole eccezione degli schizofrenici e di altri individui mentalmente disturbati, i quali vivono, per così dire, in un mondo tutto loro, ove non esiste storicizzazione, perché la realtà non è percepita in divenire, ma secondo schemi fissi e immutabili.
Ora possiamo procedere ad esaminare le due questioni che avevamo evidenziato all’inizio: quella relativa alla storicità dei nostri ricordi e della cornice storico-ambientale in cui si collocano, all’interno della memoria, e quella relativa al grado di consapevolezza dei singoli individui rispetto alla cornice storico-ambientale non del passato, ma del presente.
Il bambino, che non storicizza affatto, vive la propria vita e il rapporto con il mondo in maniera immediata e unidimensionale. Se la sua famiglia fa una gita in riva al fiume, lui non si chiede affatto di che fiume si tratti, da dove venga e dove vada a sfociare: quello è il fiume, ed è proprio così che deve essere. Lo accetta nella sua interezza, senza alcun interesse a generalizzarne le caratteristiche o ad inserirle in un contesto più ampio.
Questo non significa affatto che quel fiume non desti in lui alcuna curiosità: ma non è una curiosità di tipo intellettuale, bensì di tipo fantastico. Egli fantastica intorno a quelle rive, a quell'acqua, a quegli alberi; o, per meglio dire, per lui le rive, l'acqua e gli alberi sono lo scenario di uno spettacolo ove tutto è possibile: anche l'improvvisa comparsa delle fate o delle sirene; anche l'irruzione repentina dell'inatteso e del fantastico.
Allo stesso modo, se suo padre lo conduce con sé a visitare un museo storico, poniamo della prima guerra mondiale, al bambino non sorge affatto la curiosità di sapere di che guerra si tratti, e chi combattesse contro chi, e tanto meno perché. Quelle che vede dietro le vetrine sono le armi, gli elmetti, le uniformi: quella che vede è la guerra, la guerra in quanto guerra: che cos'altro c'è da sapere? Con quelle armi combattevano, con quelle uniformi i soldati si vestivano: non è tutto terribilmente chiaro?
Dal momento che vede le cose per la prima volta, di norma non istituisce confronti tra il prima e il poi e non è in grado di cogliere trasformazioni di lunga durata: se lo fosse, non sarebbe più un bambino, perché nei suoi pochi anni di vita le cose non possono che apparirgli come se fossero così da sempre, «ab initio».
L’adulto che rammemora la propria infanzia, d’altra parte, possiede il senso della profondità prospettica costituita dallo scorrere del tempo, e tuttavia ritorna con i ricordi ad un tempo che gli appare come un’oasi felice, proprio perché sottratta allo scorrere del tempo.
La morte, in particolare, gli ha tolto il velo delle illusioni, introducendo la nozione della irreversibilità del tempo. Il bambino non crede veramente alla morte, neppure quando ne è colpito direttamente (per esempio, nella persona di un genitore), perché pensa che il defunto possa, a determinate condizioni, ritornare: è appunto questa inconsapevolezza della irreversibilità della morte, che costituisce la grande differenza tra la percezione del mondo propria del bambino, e quella dell’adulto.
In questo senso, si potrebbe anche dire, senza timore di esagerare, che colui il quale non abbia ancora fatto l’esperienza, personale e diretta, della irreversibilità della morte, non è entrato veramente nell’età adulta, ma si trova ancora in una regione della vita che vive di riflesso l’inconsapevolezza dell’infanzia.
Esiste, pertanto, una doppia difficoltà di storicizzare il proprio passato: una dovuta alla inconsapevolezza di quando lo si stava vivendo, ed una dovuta al fatto che il ricordo che l’adulto ha del proprio passato, è filtrato attraverso la propria esperienza personale dell’infanzia: che è, per sua stessa natura, immediata e perciò inconsapevole.
In altre parole, quando noi ricordiamo com'era il mondo al tempo della nostra infanzia, non abbiamo alcuna garanzia (a differenza di quello che pensa Whitehead) che il ricordo ci restituisca una immagine fedele di quel tempo; al contrario, è quasi certo che i fattori sopra citati esercitino un forte influsso di tipo soggettivo.
Per quanto riguarda la consapevolezza del presente, poi, è necessario fare, anche qui, una distinzione preliminare.
Whitehead sembra persuaso che l'ignoranza della storia e della storia dell'arte precluda alle persone adulte la capacità di vivere consapevolmente il presente; ma questo, a nostro avviso, non è che un tipico pregiudizio da borghese «istruito». Egli afferma che il vecchio fascinaio era terribilmente ignorante e non sapeva nulla dei luoghi che attraversava abitualmente per ragioni di lavoro; ma chi lo ha detto?
È quasi certo che quell'uomo, per il tipo di lavoro che svolgeva, doveva conoscere assai bene il mondo della natura: distingueva le varie specie di alberi e di arbusti, sapeva quale fosse il momento adatto per tagliarli; forse riconosceva gli uccelli dal loro canto, e chissà quanti animali avrà visto sgattaiolare fra i tronchi della foresta. Inoltre, conosceva perfettamente i segni del tempo atmosferico, se si avvicinava il brutto tempo o se, dopo la pioggia, sarebbe venuto il sole; e, sulla neve o sul fango umido, non avrà avuto difficoltà a riconoscere le impronte di una volpe, di un tasso, di uno scoiattolo o di un cerbiatto.
Ebbene, non crediamo di essere molto lontani dal vero supponendo che il giovane Whitehehad fosse spaventosamente ignorante di tutto ciò, e che a stento avrebbe saputo distinguere una quercia da un frassino. In compenso, certo, sapeva riconoscere il luogo ove Sant'Agostino aveva tenuto il suo primo sermone dopo essere sbarcato sul suolo inglese; ed era in grado di godere le meraviglie dell'arte, davanti allo spettacolo di una vetusta cattedrale medievale.
A ciascuno le sue conoscenze, a ciascuno la sua ignoranza. Perché mai l'ignoranza della storia e dell'arte dovrebbe essere più grave di quella del mondo naturale? Perché mai la prima dovrebbe avere per effetto quello di rendere un essere umano inconsapevole del luogo in cui vive, mentre la seconda, no?
Ma ora lasciamo perdere il caso specifico del brano di Whitehead e torniamo alla questione di carattere generale, ovvero la consapevolezza del presente da parte degli adulti. Ricordando la definizione che abbiamo dato della consapevolezza, come la capacità di collocare se stessi e le cose in una prospettiva storica, vale a dire di cogliere la natura continuamente mutevole delle cose, ivi compreso il proprio sé, dobbiamo ammettere che, in tale ambito, la nebbia non è meno fitta di quella che avvolge il nostro rapporto con il passato.
La vera consapevolezza è molto rara: essa presuppone che un essere umano sia un naturalista (come voleva Darwin), uno storico, un archeologo, un sociologo, uno psicologo e un po' anche un filosofo; e, inoltre, che possieda quel grado sensibilità che gli permetta di trasformare le sue conoscenze circa il mondo in cui vive, in qualcosa di vivo e palpitante, qualcosa con cui egli entri in un rapporto di empatia e di profonda partecipazione.
Solo a queste condizioni sarà possibile affermare che un individuo possiede una reale consapevolezza della realtà circostante e, prima ancora, del proprio sé. E non basta ancora: bisognerà pure che egli possieda l'umiltà di farsi piccolo e di ascoltare, con i sensi fisici e con i sensi interni, tutte le voci, quelle della natura e quelle dello spirito; che possieda una forte attitudine creativa e fantastica, tenuta però a freno, o meglio controbilanciata, da una forte attitudine razionale e realistica, in modo da non confondere il piano dell'immaginazione con quello della realtà effettiva, dentro e fuori di sé.
Poniamo il caso che egli attraversi una certa regione geografica: la Prussia Orientale, per fare un esempio (esempio ispiratoci dalla inconsapevolezza di un amico che vi era stato, senza neppure sospettare che quella regione lacustre, polacca dal 1945, era stata, per secoli, il nucleo più vigoroso della nazione tedesca).
Dunque, bisognerà che il nostro viaggiatore conosca la storia di quei luoghi e delle lotte secolari che videro impegnati gli antichi Prussiani di stirpe slava, indi i Cavalieri Teutonici, infine Tedeschi, Polacchi, Russi. Poi, bisognerà che possieda delle discrete conoscenze di botanica, zoologia, geologia e climatologia, in modo da apprezzare la caratteristiche naturali di quel territorio. Dovrà quindi avere una forte capacità immaginativa, di modo che i ruderi di un antico monastero gli rivelino quale doveva essere l'aspetto medievale di quei luoghi; o in maniera che, dietro i brutti palazzoni «socialisti» della russa Kaliningrad, possa intravedere gli antichi edifici della tedesca Königsberg, la città di Immanuel Kant. Infine, dovrà possedere quella intensa spiritualità, quella capacità di abbandono e di profonda immedesimazione con le cose, che sole possono gettare un ponte fra noi ed esse, fra noi e il passato.
Ah, stavamo quasi per dimenticare: bisogna che egli sia anche un ricercatore spirituale, che possieda una discreta conoscenza di se stesso, ciò che gli consentirà di non deformare in senso eccessivamente soggettivo la realtà circostante, ma, al contrario, di unificare la propria visione alla luce di una chiarezza interiore che non si può improvvisare, se non la si è cercata e tenacemente perseguita nel corso di molti anni, a prezzo di numerose veglie e sacrifici.
E ora possiamo domandarci: quanti esseri umani possiedono tutte queste caratteristiche, culturali, intellettuali e spirituali?
E perfino quei pochi, anzi quei pochissimi, saranno davvero in grado di cogliere la realtà con piena consapevolezza, o non sarà anche la loro visione limitata e imperfetta, come è proprio dell'essere umano in quanto tale?