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C'erano un saudita, un turco, e un iraniano...

di Simone Santini - 03/12/2009

 
 
 
Mesto addio di Mohammed El Baradei da direttore generale dell'Agenzia atomica internazionale dopo dodici anni. "Abbiamo davvero raggiunto il fondo della impasse" ha dichiarato il diplomatico egiziano sulla questione del nucleare iraniano presiedendo l'ultimo atto formale della sua direzione: una risoluzione di condanna contro Teheran.
Presentando il suo rapporto davanti l'assemblea della AIEA, nonostante anni di negoziati e ispezioni, El Baradei si è trovato ad ammettere: "Siamo nell'incapacità di statuire sulla natura pacifica del programma nucleare iraniano". Nell'ambiguo linguaggio diplomatico la frase può essere ribaltata nel suo opposto, ovvero non c'è alcuna evidenza che l'Iran punti al nucleare militare.
La questione, nei suoi giusti termini, appare quindi più politica che tecnica: l'Iran deve essere lasciato, pur sotto controllo, libero di perseguire un proprio diritto (l'accesso al nucleare civile) o preventivamente ciò gli deve essere impedito sulla supposizione/sospetto di una infrazione al Trattato di Non Proliferazione?
Manovre politiche, infatti, e non risultanze tecniche, sono alla base della risoluzione presentata alla AIEA da Stati Uniti e Francia che hanno chiesto la condanna dell'Iran. E tutto politico è il risultato della votazione. Per la prima volta Russia e Cina votano sulla questione insieme alle potenze occidentali con una maggioranza schiacciante di 25 sì, 3 no (Venezuela, Cuba, Malaysia), sei astenuti (Afghanistan, Brasile, Egitto, Pakistan, Sudafrica, Turchia), assente l'Azerbaigian.
La risoluzione chiede essenzialmente due cose all'Iran: la sospensione della costruzione del sito di Qom, tenuto segreto fino a settembre e recentemente visitato dagli ispettori AIEA che ne hanno rilevato l'attuale non pericolosità; la comunicazione ufficiale all'Agenzia della non esistenza di altri siti nucleari segreti.
Il voto non ha conseguenze coercitive immediate e tuttavia apre la strada al Consiglio di sicurezza dell'Onu nella cui sede la condanna potrà essere ribadita e ampliata con l'imposizione di sanzioni. Sarà questo il luogo di verifica dell'azione diplomatica svolta dagli Stati Uniti lungo tutti questi ultimi mesi soprattutto verso Russia e Cina. L'Iran sarà lasciato solo difronte la Comunità internazionale?
Da Teheran la risposta appare dura. In un discorso al Parlamento, Ali Larijani, che ne è il presidente, ha giudicato "un imbroglio politico" la manovra dei 5+1, minacciando di "ridurre seriamente la cooperazione con l'AIEA", e avvertendo: "non pensate che questo modo vi dia la possibilità di negoziare con noi". Ahmadinejad va oltre e rilancia. Il governo come risposta annuncia la costruzione di altri 10 siti nucleari della grandezza di quello in opera a Natanz e di voler iniziare i lavori in tempi brevissimi, appena due mesi. Allo studio, poi, la possibilità di procedere autonomamente con l'arricchimento dell'uranio fino al 20%.
Il piano inclinato verso lo scontro si fa sempre più ripido e inarrestabile.

Mentre nel confronto pubblico tutto sembra procedere secondo una road map predefinita, è interessante analizzare come si stanno delineando i rapporti tra alcune potenze regionali del Medio Oriente, ovvero Arabia Saudita, Turchia, e appunto Iran.

I rapporti tra Arabia Saudita e Iran, benché storicamente non siano mai stati ottimali, hanno raggiunto in questo frangente un picco alquanto pericoloso. Alle aree di contrapposizione per procura di questi ultimi anni, in particolare Libano e Iraq, si è aggiunto lo Yemen.
Il governo di Sanaa sta cercando da alcuni anni di stroncare l'attività di un gruppo ribelle denominato Houti (dal nome del suo fondatore) che ha portato la guerra civile nel nord-ovest del paese. Gli Houti sono una fazione confessionale sciita e le loro rivendicazioni politiche si mescolano con quelle religiose. La guerra ha già provocato centinaia di morti e decine di migliaia di sfollati ma si rischia una drammatica recrudescenza che può coinvolgere l'Arabia Saudita. Gli Houti agiscono infatti al confine tra Yemen ed Arabia, la loro ideologia è profondamente contraria al wahabbismo sunnita e Riyad teme seriamente una influenza deleteria verso le minoranze sciite in ebollizione del suo paese.
I sauditi sono intervenuti militarmente in maniera diretta contro gli Houti all'inizio di novembre con bombardamenti aerei e dure incursioni di terra. Ma l'aspetto più preoccupante è che Riyad accusa l'Iran di finanziare e sostenere i ribelli con forniture di armi.
Un tale coinvolgimento di Teheran non è stato ancora provato, e tuttavia la simpatia del regime degli ayatollah verso gli Houti è palese nelle posizioni pubbliche. Sauditi e iraniani si scambiano reciproche accuse di "incitamento settario" che sono anche sfociate in scontri e violenze tra i pellegrini sciiti iraniani in visita nei luoghi sacri della Mecca e gli apparati di sicurezza sauditi, per cui sia la guida spirituale Khameni che il presidente Ahmadinejad hanno preannunciato "contromisure" nel caso che tali "maltrattamenti" abbiano a ripetersi.
Il livello dello scontro verbale e mediatico si è talmente innalzato che a Riyad hanno deciso l'oscuramento della televisione iraniana in lingua araba Al-Alam, mentre Teheran accusa che la retorica della "Rafida" che si scaglia contro i "rinnegatori" sciiti, che mai hanno riconosciuto i califfi succedutisi al profeta Maometto, possa essere alla base non solo della tensione crescente nel mondo islamico tra sunniti e sciiti, ma anche della violenza terroristica che ha colpito l'Iran (come da ultimo l'attentato in Belucistan) in cui Teheran sospetta possa esserci anche lo zampino saudita dietro la maschera di Al-Qaeda.
Su un piano più generale, chi ha da guadagnare da questa contrapposizione tutta interna al mondo islamico è ovviamente Israele che può giocare strumentalmente la carta "il nemico del mio nemico è mio amico". Il recentissimo annuncio di Netanyahu di congelare per 10 mesi la costruzione di nuovi insediamenti ebraici in Cisgiordania per rilanciare i negoziati coi palestinesi, è al tempo stesso una risposta alle pressioni diplomatiche di Stati Uniti e Francia e un contentino ai paesi arabi, Arabia Saudita in testa. In questo modo Israele può far apparire (anche se probabilmente in modo solo transitorio ed illusorio) che una soluzione sulla Palestina può essere trovata coi paesi arabi sunniti, mentre il nemico vero da isolare e sconfiggere, l'ostacolo alla pacificazione della regione, è soltanto l'Iran.

Ma per una frattura che si approfondisce c'è un dialogo che si rafforza. Il viaggio ufficiale a fine ottobre del primo ministro turco Recep Erdogan a Teheran è stato il segnale definitivo di un progressivo avvicinamento tra i due paesi.
Questo sbocco è il risultato della crisi geopolitica in cui si trova la Turchia, che sempre più, negli ultimi anni, vede confliggere gli interessi occidentali con quelli propri nazionali. Tutto è cominciato probabilmente con la seconda guerra del Golfo e l'invasione statunitense dell'Iraq.
La nascita di una entità autonoma sul confine turco, il Kurdistan iracheno, ha rinfocolato il decennale problema di Ankara con la sua minoranza curda (che sembrava ormai risolto con la sostanziale sconfitta militare del PKK, il partito armato indipendentista curdo), ed ha spinto i turchi a cercare una visione comune con Teheran che ha una sua minoranza curda interna. Più in generale, la destabilizzazione dell'Iraq riguarda entrambi i paesi e li rende più vulnerabili in una situazione di conflitto regionale permanente, spingendoli, di nuovo, a cercare soluzioni comuni di stabilizzazione e pacificazione.
Vi è poi il nodo energetico. La Turchia era destinata a diventare il fulcro del transito del gas e petrolio tra Asia centrale, Caucaso, ed Europa, grazie alle pipelines del progetto occidentale Nabucco. Ma la debolezza strutturale del Nabucco rispetto al progetto rivale South Stream (russo-italiano, ovvero Gazprom/Eni) rischia di tagliare fuori la Turchia da fondamentali rotte energetiche. Il Nabucco, infatti, può contare solo sul gas dell'Azerbaigian, largamente insufficiente, o su quello turkmeno, ancora ad appannaggio in larga parte dei russi. Solo l'Iran può fornire risorse tali da ribaltare la convenienza del Nabucco rispetto al South Stream, ma le attuali condizioni politiche non consentono una joint-venture tra iraniani e occidentali. La Turchia ha pertanto tutto l'interesse a mediare per rendere Teheran un partner affidabile da associare al Nabucco.
Di pari passo sono peggiorati i rapporti tra Turchia e Israele, fino a questo punto solidi alleati. La fine della guerra fredda ha determinato anche il superamento del ruolo della Turchia quale baluardo e argine militare della Nato contro l'Unione Sovietica in Medio Oriente. Il precedente protagonismo delle Forze armate ha perso progressivamente peso nella società turca fino alla conquista del potere dei partiti nazional-islamici come quello dell'attuale primo ministro Erdogan, portando allo scoperto una sensibilità anti-israeliana delle masse popolari in contrapposizione alla stretta alleanza militare tra Ankara e Tel Aviv.
Su questo ha poi certamente contribuito la scoperta della organizzazione Ergenekon (cosiddetta Gladio turca), un gruppo clandestino della rete atlantica stay-behind, legato come in altre parti di Europa a fenomeni di strategia della tensione e controllo politico occulto. Secondo le più recenti indiscrezioni, Ergenekon non rispondeva solo alle centrali atlantiche ma era anche strettamente legato al Mossad israeliano ed era in procinto di promuovere un colpo di stato militare in Turchia.
Le reazioni turche a queste rivelazioni (inchieste giudiziarie sono tuttora in corso) non sono state affatto morbide. Erdogan si è scagliato più volte contro la politica israeliana in Palestina, arrivando ad inveire pubblicamente al Forum di Davos, lo scorso gennaio, contro il presidente dello stato ebraico Shimon Peres, accusandolo senza mezzi termini di essere un assassino di bambini. Più recentemente ha annullato l'esercitazione militare congiunta turco-israeliana "Aquila dell'Anatolia", prevista ad ottobre, e ha fatto astenere il proprio delegato in occasione del voto alla AIEA contro l'Iran.
Quale sia il percorso definitivo della Turchia ed il suo ruolo è ancora incerto. Da paese architrave della Nato, in procinto di entrare nell'Unione europea, anche ad Ankara i più occidentalisti convinti si stanno chiedendo se sia meglio per il paese diventare una provincia marginale di Bruxelles o essere una potenza regionale autonoma in Medio Oriente. D'altro canto gli occidentali si interrogano se la Turchia possa ancora considerarsi un affidabile alleato.
Riportiamo quanto sostenuto da Daniel Pipes, direttore del Middle East Forum, potente think-tank americano che si occupa di Medio Oriente, e membro del Dipartimento della Difesa statunitense: "L'islamismo non costituisce il solo problema con la Turchia. In quella che sta assumendo i contorni di una Guerra Fredda mediorientale - con l'Iran alla testa di una fazione e l'Arabia Saudita che guida l'altra - Ankara si è ripetutamente schierata con la prima: ospitando Mahmoud Ahmadinejad, sostenendo il programma nucleare iraniano, sviluppando un campo petrolifero iraniano, trasferendo armi iraniane ad Hezbollah, appoggiando apertamente Hamas, condannando crudelmente Israele, mettendo contro gli Stati Uniti l'opinione pubblica turca. Osservando questi cambiamenti la columnist Caroline Glick esorta Washington a ‘lanciare l'idea di rimuovere la Turchia dalla NATO'. L'amministrazione Obama non ha intenzione di farlo; ma, prima che Ankara renda inefficace l'Alleanza atlantica, degli imparziali osservatori dovrebbero attentamente ponderare questo argomento [...] Ambienti ufficiali in Occidente sembrano quasi ignari di questo importantissimo cambiamento nella fedeltà della Turchia o delle sue implicazioni. Il prezzo del loro errore presto diventerà palese. Perché la Turchia non è più un alleato" (1).


(1) http://www.eurasia-rivista.org//2152/daniel-pipes-la-turchia-non-e-piu-un-alleato