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Maternità e lavoro

di Claudio Risé - 14/01/2010

 

 

Le mamme, soprattutto giovani e lavoratrici, sono in difficoltà. Medici, psicologi, presìdi sanitari, strutture educative sono bersagliati da segni di smarrimento di fronte a problemi spesso banali: la difficoltà del bimbo a lasciare il pannolino, o ad accettare l’asilo.
Mal di pancia passeggeri o raffreddori qualsiasi diventano fonte di panico. Il principale imputato è il lavoro: le donne fanno fatica a coniugare professione e maternità, anche perché i padri le aiutano poco.
Che maschi, strutture pubbliche e aziende, siano inadeguati ai bisogni materni, è indiscutibile. La maggior parte d’Italia ha una tradizione di lavoro femminile più breve e fragile di quella di altri paesi europei, e questo ritardo lascia sulle donne pesi che non ci sono nei nostri confinanti: Francia, Svizzera, Germania. Ascoltando le madri però, e guardando a come media e strutture specializzate affrontano il problema, ci si accorge che il problema più profondo è un altro.
Il fatto è che si è fatta strada nelle donne, ma prima ancora nel modello presentato da media e dibattiti pubblici, l’idea che l’impegno professionale, e l’attività di crescita dei bambini siano due lavori equiparabili. Coi loro classici parametri professionali: obiettivi, capacità di raggiungerli, tempi impiegati, costi, ricavi. Di qui frustrazioni infinite per le mamme.
Con i figli, infatti, gli obiettivi si rivelano difficili da ottenere in tempi stabiliti. I bambini sono spesso riluttanti a collaborare. Soprattutto però, diversamente dal lavoro, la cura materna è piena di aspetti non calcolabili: malattie, interazioni con altri (bimbi, i loro genitori, i propri stessi familiari, gli educatori), che rappresentano variabili imprevedibili, a differenza dell’ufficio, dove si è tenuti a comportamenti più o meno standard.
Il fatto è che stare e crescere i bambini è una situazione completamente diversa dalla professione. Il lavoro è caratterizzato dal fare: si compiono delle operazioni, sulla base delle proprie competenze, per ottenere risultati concreti: aumenti di stipendio, carriera, visibilità, prestigio. Accogliere e crescere i bambini ha invece al proprio centro non un fare, ma un essere: essere con loro, per loro, trasmettergli questa consapevolezza, su cui si fonderà poi tutta la loro sicurezza nello stare con gli altri, nella società (gli altri bambini, gli educatori, i maestri).
Nell’essere con i bambini (non il «lavorare» per loro), ogni risultato dipende innanzitutto da quanto pienamente tu sei con loro, ed essi lo percepiscono. Se il bimbo avverte con certezza la sensazione che tua madre è con te, ti ama per come sei e non a seconda di quanto ti mostri plasmabile dalle sue richieste, ogni problema prima o poi si risolve.
A differenza dell’ufficio, dove le scadenze sono importantissime, qui non significano granché: il bimbo lascia il pannolino quando percepisce che tu non sei più in ansia per questo, e gli vuoi bene comunque.
Perché è così importante per il bambino il fatto che la mamma sia davvero con lui, e non semplicemente lavori per lui? Perché sono stati una cosa sola per nove mesi, e per molti aspetti, sia affettivi che biologici, lo sono ancora. Perciò, per attraversare le varie fasi dello sviluppo e per organizzare il proprio io, il bimbo ha bisogno, e per molto tempo, che la madre sia con lui.
Il padre conta, ma per ora meno della madre: è con lei che il bimbo è ancora in simbiosi. Anche il tempo conta, ma molto meno del come mamma e bambino stanno insieme.
Decisiva è invece questa pienezza e riconoscimento amoroso da parte della madre: il bambino ne ha un bisogno vitale.