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Neve e nebbia

di Francesco Lamendola - 02/02/2010

 

Da parecchi giorni ormai la temperatura scendeva di molto sotto lo zero, specialmente nelle ore notturne.
Ieri sera il freddo ha allentato un poco la sua morsa ed è caduta la neve, che ha seguitato a fioccare per tutta la notte.
Nella luce ancora incerta del primo mattino una soffice, silenziosa coltre bianca si è posata sul mondo e ora lo avvolge nel suo commovente abbraccio.
Gli alberi, specialmente, offrono uno spettacolo affascinante, con i tronchi scintillanti di ghiaccio nella lucida veste della galaverna, i rami ricamati di bianco come dal pennello di un pazientissimo artista giapponese.
Dal silenzio ovattato di giardini fiabeschi, enormi alberi di cedro protendono i loro palchi carichi di neve, simili alle bianche braccia di antichi giganti barbuti emersi dal sogno di un potente incantatore.
La scena è resa ancor più irreale da una densa nebbia che è scesa sulla valle e nasconde non solo le vicine montagne, ma anche le case ed i campi e sembra aver trasportato ogni cosa in una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio, dove tutto è possibile.
Non si vede nulla alla distanza di pochi metri: i punti di riferimenti sono stati ingoiati dalla nebbia e par di fluttuare in una terra di nessuno, inattesa e sorprendente, nella quale potrebbe accadere qualsiasi cosa.
A tratti, percorrendo un cortile o un sentiero interamente coperti dalla neve fresca e privi di qualunque impronta di passaggio umano, si ha l’impressione di vagare nel vuoto, di galleggiare nel nulla, come su una nave alla deriva su mari brumosi e sconosciuti.
È bello; strano e bello.
La nebbia fa pensare alla carezza di un’amica misteriosa, venuta da lontano, che scompare per lunghi periodi e poi riappare all’improvviso, quando meno la si aspetta, col suo sorriso dolce ed enigmatico sulle labbra sottili.

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Neve e nebbia: un binomio straordinario, carico di rivelazioni arcane e di antica, aurorale saggezza che risale dal profondo, come da ricordi quasi dimenticati.
La neve, ricoprendo ogni cosa sotto la sua bianca veste, riduce tutto all’essenziale: nasconde ciò che è superfluo e lascia intravedere solo ciò che conta.
La nebbia, avvolgendo l’orizzonte e inghiottendo le distanze, opera quella chiarificazione che dovremmo perseguire ad ogni istante, rivolgendo lo sguardo all’interno ed aprendo la nostra facoltà visiva spirituale.
È come se la natura avesse spiegato queste due forze quasi impalpabili - i minuscoli, meravigliosi cristalli di neve ed il velo vaporoso, impalpabile della nebbia - per attuare una sua silenziosa pedagogia, per ricondurci dalla dispersione alla concentrazione, dalla provvisorietà degli enti al mistero dell’Essere.
È come se, consapevole della nostra incorreggibile superficialità e distrazione, avesse voluto accompagnarci per mano verso la meta della nostra più segreta nostalgia, togliendo dal nostro campo visivo e uditivo ogni elemento secondario.
Sì, esiste una pedagogia della natura ed esiste un linguaggio delle cose che ci parla ad ogni istante, dal primo giorno della nostra vita fino all’ultimo.
Esistono una musica che dobbiamo imparare ad ascoltare, delle parole che dobbiamo imparare a riconoscere, perché hanno un messaggio prezioso da trasmetterci.
Siamo troppo abituati ad ascoltare insulsi chiacchiericci ed inutili rumori, a smarrirci nella sterpaglia ingrata delle cose banali ed illusorie, ove finiamo per dimenticare la parte migliore di noi stessi.
Abbiamo bisogno di riscoprire il silenzio, per poterci ritrovare; e di prendere le distanze dall’apparenza esteriore delle cose, per poterne penetrare l’intimo segreto.
Viviamo nei pressi di un giardino incantato, del quale abbiamo smarrito la chiave; e così ci accontentiamo di tirare a campare, giorno dopo giorno, davanti alla sua porta chiusa, con l’esile conforto del profumo che un alito di vento sospinge fino a noi, di tanto in tanto.

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Eppure un altro destino ci era stato riservato; non per questi orizzonti meschini siamo stati chiamati, ma per spaziare sull’immensità del Cielo.
Prigionieri di piccole cose, esiliati su minuscoli scogli, contempliamo da lontano il vasto continente ubertoso, verdeggiante di pascoli e ridente di acque e di boschi, che si intravede oltre la cortina del nostro falso Ego, mentre una ardente nostalgia ci morde il cuore.
Pensiamo talvolta a quello che potremmo essere, a quello che potremmo fare, a quello che potrebbe rendere infinitamente più bello il nostro vagare sulle strade del mondo; e un oscuro rimorso ci attanaglia le profondità dell’anima.
Sì: nei momenti di sincerità, siamo costretti ad ammettere di non essere soddisfatti di noi, dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti; di non essere soddisfatti della nostra vita, del nostro passato e del nostro presente. Speriamo nel futuro, ma sempre più debolmente - e, bisogna pur dirlo, non senza cattiva coscienza.
Come l’albatro di Baudelaire, ci dondoliamo goffamente sul ponte della nave, oggetto di scherno per qualunque marinaio, che si spinge fino a ficcarci la pipa nel becco; e intanto teniamo le nostre grandissime, magnifiche ali ripiegate su se stesse. Ali fatte per librarsi nell’immensità, per dominare i venti e le tempeste, regalmente, da un oceano all’altro.
Non per questa miseria ci sono state date; non per questa inerzia mortificante e per questa stanca rassegnazione. Nelle nostre narici è il respiro salino di orizzonti senza fine, il richiamo accorato di una patria che non ha limiti e non conosce frontiere.
La nostra vera patria è l’Essere; la nostra vera cittadinanza è così vasta che abbraccia e oltrepassa i confini dello spazio e del tempo.
Quelle malinconie improvvise, che ci colpiscono come frecce perfino nei momenti più sereni, non hanno altra causa né altra origine che questa: sono come un pungolo nella carne per ricordarci che noi non siamo di quaggiù, né ci potremo mai appagare dell’esistente.
Non è ingratitudine verso le cose.
Le cose sono meravigliose e il mondo è un luogo stupendo, anche se talvolta la sua grandiosità ci opprime e ci spaventa. L’errore è quello di attaccarsi alle cose, di amarle per se stesse e di non comprendere che esse ci sono date perché noi, amandole, le oltrepassiamo: proprio come il figlio che, crescendo, deve staccarsi dai genitori, pur continuando ad amarli e ad essere grato di quanto gli hanno dato.
E la stessa cosa vale per i nostri tenaci pregiudizi mentali: estetici, filosofici, religiosi e di qualsiasi altro genere. Ci sembra di averne bisogno per non smarrire la via, li stringiamo in pugno come il viandante fa col suo bastone; ci sembra che, senza di essi, saremmo persi, come il marinaio che, nella notte nebbiosa, non scorge più le stelle.
Ma non è vero.
Mano a mano che procediamo nel cammino di consapevolezza, il bastone da viaggio diventa un inutile fardello, si trasforma in una palla al piede che rallenta i nostri passi. Finché giunge il momento in cui dobbiamo disfarcene, perché altrimenti non riusciremmo a proseguire.
I pensieri sono lo strumento, non il fine del nostro andare: il fine è e rimane sempre la consapevolezza, vale a dire la liberazione interiore; la liberazione che coincide con il ritorno alla dimora dell’Essere.
Per questo siamo qui: per questo siamo stati chiamati e per questo abbiamo risposto affermativamente, in un tempo di cui conserviamo solo un debole ricordo.

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Ora la nebbia si è diradata e appare il cielo solcato di nuvole grigie.
Le nuvole più basse si muovono a velocità molto maggiore di quelle più alte e, spinte dal vento, delineano una esaltante cavalcata in controluce, fatta di una sostanza quasi evanescente e tuttavia fascinosa nella sua coreografica grandiosità.
È uno spettacolo di una bellezza tale da levare il fiato: poterlo contemplare è un così grande privilegio che, forse, nemmeno un re ne sarebbe degno.
Questa osservazione ci riconduce, ancora e sempre, al nocciolo della questione: ossia che le cose vengono a noi quando noi siamo pronti per esse; e il fatto che siano belle o brutte dipende, essenzialmente, dal nostro livello di consapevolezza.
Una persona poco consapevole gioisce per una vincita fortunata alla lotteria: pensa che la sua vita cambierà in meglio e non viene neppure sfiorata dal sospetto che, se non è pronta per fare un saggio uso di quella ricchezza che non le è costata fatica né sacrificio, essa si trasformerà in una maledizione e recherà non gioie, ma dolori e amarezze.
Una persona che abbia intrapreso il cammino della chiarificazione interiore gioisce per altre cose: gioisce per il sole e per la pioggia, per la neve e per l’ardore dell’estate, per i suoi simili, per gli uccelli che solcano il cielo, per il fiume che scorre mormorando, per l’incanto del cielo stellato, per la pura e semplice felicità di essere, ma di essere desto e consapevole. E la sua gioia è piena ed intera, e nessuno gliela potrà portare via: perché non si basa sul possesso delle cose, ma sulla loro contemplazione spassionata e colma di gratitudine.
Ciascuno gioisce o soffre a seconda del proprio livello di consapevolezza; ciascuno riceve nella misura in cui sa aprirsi e donare. E non è una entità esterna ad assegnare castighi o ricompense: questi sono il frutto delle nostre stesse azioni. Facciamo tutto da soli; beninteso in quel gioco di incessanti relazioni reciproche che forma la trama innumerevole degli enti, nessuno dei quali esiste staccato dal tutto.
Dobbiamo imparare a non giudicare secondo le apparenze. Se vi riusciamo, molte delle nostre invidie e delle nostre gelosie non avranno più ragion d’essere, perché vedremo e capiremo chiaramente che il segreto dell’anima non ha niente a che fare con il denaro, il successo, il potere, dal momento che giace su di un piano di realtà totalmente differente da simili cose.
Chi riesce a comprendere questo, è già un liberato: e non teme più né brama le cose, ma le accoglie con equanimità e benevolenza, senza giudicarle e senza attaccarsi ad esse, ormai sganciato dai pesanti ceppi che tengono avvinti in catene la maggior parte di noi.
Le catene, del resto, siamo stati noi stessi a fabbricarcele.
Lo abbiamo fatto a causa della nostra ignoranza, inseguendo ostinatamente false immagini di bene e rifiutandoci di ricavare il necessario insegnamento dalle nostre stesse esperienze. Lo abbiamo fatto reiterando ciecamente sempre i medesimi errori, e ciò sempre per la stessa causa, con monotona pervicacia: l’attaccamento alle cose, nelle sue due forme - solo apparentemente opposte - del timore e della brama.
Ma non è questo il nostro destino e non è questa la ragione per cui ci troviamo nella condizione di esistenza nella realtà manifestata.
Siano stati chiamati ad altre mete, ad altri orizzonti.
Possiamo farcela.
Non saremo soli, del resto: perché noi siamo parte dell’Essere, siamo una scintilla divina: e una forza benevola ci sosterrà nel cammino, quando saremo più stanchi e scoraggiati.