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Perché è un errore isolare l'Iran

di Gianni Petrosillo - 08/02/2010

Per comprendere l'importanza che gli americani assegnano all'area dei cosiddetti “Balcani Globali”,
quella che va dallo stretto di Suez allo Xinijang, nella guerra geopolitica per la dominazione
mondiale, occorre riprendere le riflessioni di Brezinski tratte dal suo libro del 2007 “l'Ultima
chance”. Secondo il politologo statunitense è qui che si gioca la partita più importante della
presente fase multipolare ed è in questa parte di Mondo che le potenze costruiranno quel vantaggio
geostrategico indispensabile a proiettarle verso un futuro di predominanza globale.
Ma per poter “agganciare” l'Epoca e tracciare una prospettiva storico-geografica confacente alla
loro idea di “umanità” stabilizzata (che non vuol certo dire pacificata, quanto piuttosto “orientabile”
verso determinate direttrici di sviluppo politico e sociale) le superpotenze, con vocazione
suprematistica, devono essere in grado di incastrare i singoli pezzi del mosaico geopolitico per farli
aderire al loro disegno egemonico volto alla predominanza.
Per fare ciò occorre, in primo luogo, avere il controllo degli Stati Pivot dell'area in questione,
impedendo, al contempo, che questi assurgano al ruolo di potenze regionali autonome. In tal senso,
diviene prioritario l'obiettivo di ostacolare l'ascesa di quelle leadership nazionalistiche autoctone
che coltivano valori distanti da quelli occidentali e con le quali l'arma del condizionamento
culturale è quasi del tutto spuntata. Quali sono gli Stati in grado, nel medio e lungo periodo, di
approfondire le loro caratteristiche di paesi-guida su questa “placca” geografica in ribollimento?
Iran e Turchia, per quanto riguarda le popolazioni musulmane, la Russia e la Cina sulle ex-
Repubbliche sovietiche di Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kazakistan ecc. ecc.. Queste
ultime risentono, al contempo, sia dei richiami politico-economici dei potenti vicini asiatici ed
euroasiatici ma risultano altresì sensibili ai legami religiosi con le potenze che adottano un
rivestimento confessionale dei propri assetti statali. In sostanza, nei piani statunitensi occorrerà
muoversi utilizzando due approcci dirimenti ed ugualmente confacenti ad uno stesso obiettivo
egemonico: con le azioni dirette e vigorose sulle potenze che avanzano velleità di “copertura”
egemonica regionale (vedi l'Iran e, probabilmente, un giorno anche la Turchia se essa persevererà
nella sua “deriva” antioccidentale) oppure, indirettamente, servendosi delle manovre destabilizzanti
nei vari “ventri molli” presenti nello spazio geografico asiatico e mediorientale (vedi l'Afghanistan,
l'Iraq e la caterva di province ribelli a partire dallo Xinijang, ecc. ecc.), per interrompere le
traiettorie di “allungamento” geopolitico di Stati il cui ordine non è alterabile, per il momento, con
iniziative “militari” prorompenti (Russia e Cina). Ovviamente, lo sbilanciamento dei rapporti di
forza in un senso più o meno favorevole agli Usa o ai suoi competitors geopolitici dipenderà anche
dal ruolo che intenderanno giocare gli altri giganti di questo versante del globo come l'India
(attualmente più in sintonia con gli Usa dopo le concessioni sul nucleare) ed il Pakistan (dove la
presenza americana è molto forte ma molti forti sono anche i collegamenti con la Cina).
Per aiutarci visivamente ad inquadrare la scacchiera laddove si disputano attualmente le sorti della
diatriba geopolitica mondiale riportiamo la stessa cartina presente nel testo di Brzezinski:
Nella didascalia associata alla figura Brzezinski riporta queste informazioni: “I Balcani Globali.
Estesi dal canale di Suez in Egitto alla regione dello Xinijiang in Cina, da Nord del Kazakistan al
Mare arabico, i Balcani Globali sono oggi lo specchio dei Balcani tradizionali del XIX e XX secolo,
nel senso di instabilità politica e dell'importanza geopolitica che causano rivalità all'estero. I
Balcani contemporanei, racchiusi nel cerchio qui sopra, sono abitati all'incirca da 500 mln di
persone, sono afflitti da instabilità interna derivata da tensioni etniche e religiose, povertà e
governi autoritari. I conflitti etnici in quest'area coinvolgono 5,5 mln di ebrei israeliani e 5 mln di
arabi palestinesi; 25 mln di kurdi, sul territorio suddiviso tra Turchia, Iraq, e Siria; e l'India e il
Pakistan nella disputa per il Kashmir, oltre a numerosi potenziali conflitti in Iran e Pakistan”.
Inoltre, non dobbiamo dimenticare che quest'area è strategica anche dal punto di vista economico
perché è ivi concentrata la gran parte delle risorse mondiali di petrolio e gas; va da sé quindi che chi
controllerà gli approvvigionamenti, le prospezioni e i commerci avrà l'opportunità di convogliare,
con sempre maggiore capacità penetrativa, la propria visione politica ed economica del mondo,
imponendo agli altri il proprio modello di crescita e di sviluppo. Tanto è vera siffatta affermazione
che lo stesso Brzezinski attribuisce a Clinton una delle intuizioni più grandi dell’epoca, quella di
aver favorito la costruzione dell'oleodotto, sponsorizzato dagli Usa, da Baku a Ceyhan, al fine
bypassare la Russia e togliere ad essa il monopolio del transito di gas verso l'Occidente.
Ma l'aspetto più interessante dell'Analisi di Brezinski ci riporta agli sforzi profusi dagli Usa per
convincere gli altri partner occidentali ad avanzare celermente sulle sanzioni all'Iran come risposta
alle sue iniziative nucleari. Stabilito che questa ossessione della bomba musulmana è solo un
diversivo per mobilitare la pubblica opinione su un pericolo più “concreto” e tangibile - rispetto al
quale occorre opzionare un intervento militare sempre più imminente (ma, come ammette lo stesso
Brezinski, un altro stato mediorientale, Israele, dispone di un arsenale nucleare segreto sul quale la
comunità globale non ha mai fatto troppe domande e, di più, la bomba musulmana esiste già in
mano al Pakistan) - la necessità di colpire l'Iran è tutta geopolitica. Tuttavia, non si può procedere
unilateralmente mettendo gli alleati di fronte al fatto compiuto, come accaduto in Iraq, né tanto
meno si può rinnovare l'errore di ammantare le imminenti “missioni civilizzatrici” utilizzando un
involucro ideologico manicheo di tipo bushista, esteso a iosa ai vari contesti territoriali sotto la
presidenza del “rampollo” texano (es. il famigerato “asse del male”). Brezinski sostiene che i
Balcani Globali sono per gli Usa quello che per Israele è il medio-oriente, con tutto ciò che questo
comporta in termini di difficoltà geostrategiche. Alla superpotenza occidentale mancano
attualmente i mezzi per agire unidirezionalmente proprio perché i suoi interessi, così come sono
stati posti dalle precedenti amministrazioni neocon, non inglobano le visioni altrui. Quindi, in prima
istanza, c'è bisogno di ridefinire la partnership globale sulla base di valori universali condivisi che
conducano gli alleati a fare realmente proprie, indentificandosi con esse, le preoccupazioni
americane. Un tal genere di compito riesce meglio ad un Presidente democratico, il quale, come
ribadisce Brezinski, può con il suo idealismo, l'eloquenza e la giovane età incarnare un'America
benevola la cui leadership viene amata dalle folle di tutto il pianeta, ma che, non di meno, nasconde
un potere ed una volontà di primeggiare assoluti (la descrizione era riservata a Clinton, eppure,
come vedete, calza a pennello anche per Obama).
A partire da ciò dobbiamo aprire un altro capitolo di questo intervento soffermandoci per un attimo
sulla piccola svolta attuata da Berlusconi in Israele. Questa inversione di rotta verbale sta già
producendo delle conseguenze pratiche che non si può fingere di non vedere. Non è la prima volta
che esponenti del governo italiano stigmatizzano l'Iran per il suo odio contro Israele o per la sua
ricerca, non autorizzata e visionata da organismi “super partes”, in campo nucleare. Ma è la prima
volta che alle parole seguono i fatti.
Poiché uno degli strumenti con i quali il nostro paese conduce la sua politica estera è l'Eni, impresa
di punta del settore energetico (quello più strategico e redditizio in questa congiuntura storica),
proprio ad essa è stato chiesto di limitare i suoi affari con la Repubblica Islamica e di rinunciare ad
ulteriori contratti. L'AD del Cane a sei zampe, Paolo Scaroni, ha ricordato che già a partire dal 2001
(anno in cui si raggiunsero i 5 mld di investimenti) la sua azienda non conclude nuovi accordi,
anche se, in questi ultimi tempi, il flusso commerciale con l'Iran si era comunque esteso sino a 6
mld di euro. Cifra precipitata di un 40% pieno nel 2009. Di questo passo e in questo clima
bellicoso non è detto che non aumenteranno le pressioni internazionali (cioè americane) per
spingere Roma a disattendere anche i contratti in essere. Questa notizia è talmente verosimile che, a
quanto pare, Berluconi sta per consegnare una lettera a Scaroni contenente i freschi diktat italiani
sulle ultime diatribe con l'Iran, grazie alla quale il capo di Eni potrà giustificare, dinanzi alle
autorità iraniane ed ai suoi azionisti, il progressivo disimpegno economico dal Paese degli
Ayatollah. Tutto questo è di una gravità inaudita perché toccare l'Eni e contenerne i movimenti
internazionali significa legare le mani all'intera politica estera del Bel Paese1. A quanto detto va
aggiunta l'offensiva interna, con gli organismi comunitari in prima fila, tesa ad ingabbiare le
iniziative dell'Eni sul mercato europeo, rimettendo in questione i suoi rapporti privilegiati con
Gazprom. Anche nel Vecchio Continente il “colpo” per la nostra azienda energetica è stato
durissimo, sia sotto il profilo simbolico che sotto quello economico. L'Ente nazionale idrocarburi, il
cui azionista di maggioranza resta il Tesoro con il 30% delle azioni, è stata costretta dall'Antitrust
europea a mettere sul mercato i cosiddetti tubi di Mattei, quelli che il compianto Presidente
marchigiano considerava fondamentali per la proiezione strategica dell'Italia sui mercati esteri. Pur
se il gasdotto Tag (Russia) resterà in capo alla CDP - soluzione frutto di una mediazione faticosa tra
Italia ed Ue - da questo momento in poi gli appetiti politici sullo stesso saranno di certo più copiosi.
Praticamente perse sono invece le due pipelines Tenp e Transitgas del Mar del nord, diritti di
transito a parte. Ma si tratta di una magra consolazione perché la filosofia dell'azienda di San
Donato è da sempre orientata al controllo diretto delle proprie infrastrutture, cosa che le consente di
trattare, da una posizione di forza, con omologhe straniere e corrispettivi governi nazionali. Si tratta
1 Per ribadire il concetto ecco una notizia riportata su Il Giornale on line del 7.2.10: “E sulla questione iraniana tra
Berlusconi e Gates [segretario alla difesa statunitense] c’è piena sintonia. L’Italia, infatti, è disponibile a partecipare
alla definizione di uno schieramento internazionale che coinvolga i Paesi europei per definire le sanzioni da
applicare, cosa che il Cavaliere ha ripetuto nella sua recente visita in Israele anche a Netanyahu. Un’attività di
mediazione che Roma potrebbe estendere anche a Russia, Turchia, Brasile e Libano. È chiaro, però, che la
disponibilità italiana sul fronte delle sanzioni - pur essendo calato del 40% nel 2009, nel 2008 l’Italia era il primo
partner commerciale europeo dell’Iran - avrà un costo, soprattutto per le aziende esportatrici del Nord. Circostanza
che la diplomazia italiana ha già fatto presente a Washington e su cui tornerà domani il ministro degli Esteri Frattini
nel corso del suo bilaterale con Gates.” Quindi, il governo non solo vira pericolosamente sulla politica estera rispetto
a pochi mesi fa ma si presta anche ad attivare una mediazione con la Russia per ottenere l'imprimatur di Putin-
Medvedev sulla probabile inversione dei rapporti con l'Iran e conseguente isolamento del paese guida da
Ahmadinejad. Il risultato che Berlusconi otterrà, contro le sue previsioni, sarà quello di rovinare i rapporti con il
gigante dell'est.
della stessa questione ribadita, in una lettera di qualche tempo fa a Il Giornale, da un rappresentante
di vertice della Gazprom il quale si premurò di denunciare l'autolesionismo italiano su un'azienda di
grandi potenzialità che, seguendo queste tortuosità nella definizione proprietaria dei suoi assetti,
finiva per diventare un partner senza capacità decisionali immediate. Proprio detta caratteristica
aveva reso l'Eni, benché più piccola di altre multinazionali del settore, un referente adeguato per le
grandi imprese di Stato leaders nei tubi e nell'estrazione di materia prima, come appunto il colosso
energetico russo Gazprom (il quale aveva dichiarato esplicitamente di preferirla, rispetto alle
speculari imprese inglesi o francesi, per la rapidità nel sapere scegliere il meglio per sé e per il
proprio paese).
Questo è il quadro della nuova situazione con le piccole e grandi decisioni internazionali,
commerciali e industriali annunciate dal governo. La situazione è peggiorata molto rispetto a pochi
mesi fa e l'Italia sembra essere ritornata, simmetricamente ed acriticamente, ad aderire alle richieste
europee e statunitensi sulla politica estera e sugli accordi bilaterali (da fermare) con i paesi non
graditi a Washington. Si sta rinunciando, pertanto, a quell'abbozzo di linea d' azione autonoma, sulle
grandi questioni geopolitiche di questo primo scorcio del XXI secolo, sulle quali il governo
Berlusconi si era inizialmente smarcato dagli “amici” atlantici per rispondere meglio alle sfide di
riequilibrio dei rapporti di forza aperte dai tempi.
Per tale motivo dobbiamo immediatamente organizzarci ed alzare un muro di protezione sulle
conquiste già ottenute. Prioritariamente, l'idea che sarà lanciata nei prossimi giorni dal blog, con
un'analisi più dettagliata della situazione, è quella di costituire un Comitato strategico (oppure un
Osservatorio nazionale) di difesa dell'Eni dagli attacchi di Usa ed Ue e dai cedimenti del governo
sui temi dell'energia e della politica estera. Proprio perché detta impresa, in questa particolare fase
storica di multipolarismo, veicola importanti scelte internazionali dell'Italia nel grande gioco della
geopolitica mondiale, dobbiamo assumerci il compito di raccogliere ogni possibile informazione,
denunciando, contestualmente, le aggressioni, subdole od esplicite (messe in pratica da Stati e
nazioni solo apparentemente amici), volte a depotenziarla sui mercati esteri o ad indebolirla sulle
posizioni di privilegio già guadagnate. Difendere l'Eni, secondo questa impostazione, significa
proteggere l'Italia da chi vuole ridurla al rango di nazione subimperiale.