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Il potere dei tubi tra Caucaso e Vicino Oriente

di Fabrizio Fiorini - 30/03/2010


Se non avessimo di recente letto di una teoria secondo cui iniziare un articolo con una frase a effetto cattura l’attenzione del lettore per tutta la lunghezza dell’articolo stesso, e se non fossimo stati quindi frenati dal timore di essere accusati di aver fatto ricorso a tale trucchetto, le presenti righe sarebbero incominciate con questa lapidaria affermazione: la Turchia entrerà a far parte dell’Unione Europea.

Ciò per due valide ragioni: la prima è che lo imporrano all’Europa gli Stati Uniti. I governi di impronta liberale, militare e laicista che si sono susseguiti negli ultimi decenni nei palazzi del potere di Ankara hanno sempre dato sfoggio delle loro velleità di adesione all’Unione Europea, per ragioni sinteticamente identificabili in una convenienza economica e in una ricerca di maggiore stabilità politica e istituzionale della – per sua natura instabile – terra di mezzo dell’Anatolia. L’esclusivo club dell’Ue ha sempre ciurlato nel manico, adducendo pretestuose ragioni di natura politico-umanitaria (risum teneatis: perché non era ancora stata abolita la pena capitale; ma nella libera Francia fino al 1977 oliavano ancora la ghigliottina) che celavano reali preoccupazioni di natura demografico-economica. Demografica, perché l’ingresso della Turchia, forte dei suoi ottanta milioni di abitanti, romperebbe in seno all’Unione gli equilibri eurocentrici di “rappresentanza” delle istituzioni Ue; economica, perché le ricche oligarchie dell’Europa occidentale avrebbero dovuto farsi carico del rilevante finanziamento delle strutture statuali e amministrative anatoliche per permettere a queste di raggiungere gli agognati standard burocratici, privatistici e monetari che l’adesione a tale struttura comporterebbero. Ankara, quindi, stanca dei continui rifiuti e dell’auto-referenziale atteggiamento di Bruxelles, ha iniziato inesorabilmente, già a partire dagli anni Novanta, una lenta ma continua manovra di avvicinamento e di ripiego geopolitico verso Oriente, nei termini di rapporti di buon vicinato con la Repubblica Islamica dell’Iran e di convergenze economico-commerciali colla Federazione Russa. Atteggiamento che, naturalmente, gli Stati Uniti non potrebbero mai tollerare, pena la progressiva perdita di uno strategico avamposto vicino-orientale e l’indebolimento delle strutture militari della Nato, di cui la Turchia moderna è membro d’eccellenza.

La seconda ragione per cui Ankara verrà agevolata nel suo avvicinamento e nella sua chiusura nelle gabbie delle istituzioni europee-atlantiche, è strettamente connessa alla prima. Si tratta della questione degli oleodotti. Volendo sintetizzare la complessa questione, è d’uopo ricordare le tre direttrici in cui si è sviluppata, nel corso degli ultimi due decenni, la politica delle vie di transito energetiche che hanno visto la longa manus di Washington direttamente coinvolta nella gestione del potere e nell’ingerenza sulla politica degli Stati interessati. Occorre ricordare  innanzitutto l’oleodotto Baku-Tbilisi-Cheyan, che consente il transito degli idrocarburi dal Caspio  al Mediterraneo solcando un territorio (l’Azerbaidžan, la Georgia e la Turchia) che gli Stati Uniti d’America, attraverso manovre politico-militari di ingerenza, hanno saputo mettere in sicurezza e allineare alle proprie direttive politiche ed economiche.

Naturale prolungamento di tale operazione risiede nel progetto Nabucco, che amplia il tracciato azero-georgiano originario sviluppando una rete di transito energetico attraverso tutta la penisola anatolica fino a giungere alla Bulgaria comunitaria attraverso il confine turco. A tali velleità a stelle e strisce è giunta la puntuale risposta delle Federazione Russa che, attraverso il progetto Južnji Potok (più conosciuto con la sua traduzione inglese di South Stream) sta ponendo in essere la possibilità di far giungere nell’Unione Europea, attraverso il Mar Nero, la sua esportazione di gas e petrolio eludendo il transito attraverso nazioni ‘ostili’ o comunque allineate ai progetti nordamericani, quali la Georgia e la Turchia. Analogo piano, incentrato sulle stesse finalità, sta essendo sviluppato da Mosca nel nord-Europa, dove il progetto North Stream permetterà il collegamento diretto degli oleo-gasdotti russi con il cuore dell’Unione Europea, evitando il passaggio per la ‘marca’ baltico-atlantica lettone-lituano-polacca.

I piani di Washington hanno quindi previsto una sorta di divisione tra Stati in buoni e cattivi, in seno alla quale i secondi sarebbero dovuti essere preclusi alle dinamiche di approvvigionamento energetico volto a soddisfare le necessità dell’Occidente.

Da una parte quindi la Georgia (piegata agli interessi statunitensi dalla violenza della rivoluzione colorata che ha portato al potere una classe politica che può vantare un tasso di allineamento alle imposizioni nordamericane senza precedenti), un traballante Azerbaidžan (ove gli Usa hanno subdolamente saputo indirizzare verso i loro interessi le dispute istituzionali e internazionali con Mosca) e la Turchia ‘blindata’ dalla annosa adesione  al Trattato Nordatlantico; Turchia su cui l’oligarchia a stelle e strisce ha quindi scommesso e pesantemente investito, e che non può quindi permettersi di perdere a causa della velleitaria conventio ad excludendum che nei suoi confronti stanno timidamente orchestrando i viceré della colonia-Europa.

Dall’altra parte della barricata, naturalmente, la Russia, l’Armenia (che alla prima si è di fatto vincolata per via del sostegno che Mosca le ha conferito nella risoluzione pacifica delle controversie caucasiche) e – inutile sottolinearlo – l’Iran.

Se nei confronti di Teheran gli Stati Uniti hanno però potuto addurre pretestuose e infondate motivazioni di natura ideologica, che quotidianamente si manifestano nell’embargo commerciale tuttora in vigore nei confronti della Repubblica Islamica, il boicottaggio nei confronti di Mosca ha dovuto seguire, per ragioni di opportunità politica, vie traverse e più nascoste, che comunque non hanno difettato di far sentire il loro peso militare e politico.

Nei confronti della Federazione Russa, ad esempio, le manovre destabilizzatrici atlantiche cominciarono ben prima dell’accerchiamento e dell’esplicito sostegno conferito – attraverso il cavallo di Troia georgiano -  all’invasione dello spazio transcaucasico e centro-asiatico; vanno infatti fatte risalire all’epoca del primo conflitto ceceno e al foraggiamento politico, finanziario e militare attribuito ai jihadisti dell’Illinois che all’epoca si contrapponevano a Mosca mettendo a repentaglio e sabotando la sicurezza dello snodo petrolifero di Groznyi, polo strategico della via di transito energetica che trasportava gli idrocarburi da Baku al terminale di Novorossijsk, gestito dalla russo-cecena Južnaja Neftjannaja Kompanija.

In seno alla delicata questione azera, gli Stati Uniti riuscirono a far leva sul fatto che già all’indomani della dissoluzione dell’Urss, nel 1992, Baku dovette affrontare il dato di fatto di non poter contare su alcuna altra ricchezza o industria nazionale che non fosse quella degli idrocarburi la quale era l’unica che, nell’Azerbaidžan neo-indipendente, avrebbe potuto potenzialmente affrontare il mercato estero; nel 1996 fu finalmente indotto a sottoscrivere l’accordo di parternariato e cooperazione con l’Unione Europea, e aderì alla alleanza di Stati euro-asiatici del Guuam, patrocinata dall’Amministrazione americana. Questa scelta di campo filo-occidentale sarebbe riuscita ad attutire gli effetti della limitazione agli aiuti esterni pretestuosamente deliberata nel 1992 dal Congresso degli Stati Uniti, che accampò come motivazione la mancanza di libertà politica del regime del presidente Haydar Aliev, sotto la cui pur autoritaria presidenza l’Azerbaidžan ha coltivato rapporti con Ankara e con Washington senza tuttavia  inimicarsi il vicino russo per via di reciproci interessi economici che hanno in parte limitato la penetrazione economico-strategica statunitense nel Paese, la quale si è di fatto limitata all’abolizione della restrizione sugli aiuti, al citato progetto di oleodotto azero-georgiano-turco e a una cooperazione militare prevalentemente in funzione anti-iraniana.

Alla metà degli anni Novanta, comunque, il pluridecennale sogno delle major occidentali di entrare in possesso delle risorse del sottosuolo azero (controllate dalla Socar, State Oil Company of the Azerbaijani Republic) fu coronato con quello che divenne famoso come il “contratto del secolo”, in base al quale venne istituita una Compagnia operatrice internazionale d’Azerbaidžan il cui controllo – lasciato un 10% alla russa Lukoil (all’epoca, in piena dissoluzione elciniana, diretta da un affarista russo di origine azera) – fu largamente assunto da Compagnie occidentali e prevalentemente statunitensi: la British Petroleum (Uk), col 17,1%; AMOCO (Usa), 17%; Pensoil (Usa), 4,8%; Unocal (Usa), 10%; Statoli (Norvegia), 8,6%; Itochu Oil (Giappone), 3,9%; Ramco (Uk), 2,1%; TPAO (Turchia), 6,7%; Exxon (Usa), 8%; Delta-Nimir (Arabia Saudita), 1,7%.

Le attenzioni dedicate dalla piovra americana alla Turchia sono di natura ancora differente e inserite nel quadro della sudditanza alla Nato cui la nazione anatolica (centro nevralgico del controllo del vicino oriente) è costretta. Sudditanza che corre però il rischio di allentarsi, o almeno questo sembra trasparire dalla recente politica di Ankara che – per tornare alle premesse del discorso -, a piccoli impercettibili passi, sta facendo virtù della lunga serie di rifiuti che l’Europa le ha opposto relativamente alle sue istanze di adesione all’area Ue, avvicinandosi sempre più al la Russia e all’Iran, con cui sono stati consolidati i rapporti politici e commerciali. Come già argomentato inizialmente, gli Stati Uniti non lo tollereranno: l’ingresso nell’Europa di Bruxelles sarà allora il viatico per chiuderne ermeticamente i confini orientali e scongiurare ogni rischio di deriva verso la sovranità della nazione turca. A questo proposito, le cronache più recenti tornano a evocare un ricordo familiare per gli italiani: sembra che – tramite la riproposizione dello scontro tra esercito e società civile – anche sulle rive del Bosforo si stia inscenando una strategia della tensione, volta alla destabilizzazione dell’ordine pubblico e al contestuale rafforzamento dell’ordine politico, cui la  Nato e l’Ue dovranno fare da ombrello.

In Italia ha funzionato. Ma non è detto che lo schema sia esportabile ovunque, o che sia valido in eterno: i popoli d’Europa, giova ricordarlo, non sono poi così stupidi. E, alla lunga, nemmeno tanto pazienti.