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Nella pace del piccolo cimitero di campagna il senso della bellezza e continuità della vita

di Francesco Lamendola - 31/03/2010


Nel chiaro pomeriggio di marzo mi reco a una mesta cerimonia: il funerale della mamma del mio migliore amico.
È un piccolo, piccolissimo paese della bassa pianura, all’incrocio di alcuni fiumi dal corso lento e sinuoso, in un paesaggio di vigneti e di pioppeti che sfilano ai lati della strada simili a delle sentinelle messe in fila, con le ombre che si allungano come in un quadro di Pellizza da Volpedo.
Mano a mano che mi avvicino alla meta, uscendo dalle strade principali e inoltrandomi su quelle secondarie, mi sembra di correre all’indietro nel tempo: questi campi, questi boschetti, questi minuscoli gruppi di case, questi capitelli ornati da un mazzo di fiori, paiono emergere dagli anni lontani dell’infanzia, dalla mia terra d’origine che sta oltre il fiume Livenza, cui, peraltro, mi sto sempre più avvicinando.
Ed ecco il paese: un paese talmente piccolo che, come Rio Bo di Aldo Palazzeschi, non ha che poche case, una chiesa e neppure una bottega: «Tre casettine /dai tetti aguzzi, / un verde praticello, / un esiguo ruscello…». Ma la chiesa… la chiesa è un gioiello incastonato sullo sfondo della verde campagna.
Non che sia antica o particolarmente interessante dal punto di vista storico-artistico; come tutte le chiese di questa parte d’Italia, distrutte dai bombardamenti della prima guerra mondiale, è stata rifatta negli anni Venti del Novecento in stile falso medievale. Tuttavia è equilibrata, armoniosa, semplice e accogliente; la facciata si apre sulla piccola piazza come per abbracciarla e, nell’interno a tre navate, immerso in una leggera penombra dorata, lo sguardo corre verso il punto di fuga sull’altar maggiore, adornato da una bellissimo trittico attribuito al grande pittore Cima da Conegliano.
Nel pannello di sinistra è raffigurato San Giovanni Battista; in quello di destra, San Pietro; e al centro, nella pala principale, San Martino su un magnifico cavallo bianco, in un paesaggio solitario e suggestivo, con delle rocce sullo sfondo del cielo azzurro, nell’atto di tagliare con la spada il suo mantello, per offrirne una metà al mendicante incontrato sulla via.
Tutta l’opera, e particolarmente il movimento delle zampe del cavallo e il gesto del santo che si protende dalla sella, torcendo lievemente il busto, è straordinariamente armoniosa ed aggraziata; e, anche se non tutti i critici sono concordi nell’attribuirla al maestro, ma piuttosto a qualche suo discepolo, l’effetto d’insieme è altamente suggestivo. Purtroppo, come ormai accade nei piccoli paesi, l’originale è stato portato altrove, e il polittico dell’altar maggiore non è che una copia, peraltro molto ben riuscita. Avevo avuto il privilegio di vedere l’originale, proprio qui, nel suo luogo naturale, diversi anni fa, in una calda e silenziosa mattina d’estate; e ne avevo ritratto un’impressione incancellabile.
Ora la chiesa è estremamente affollata: sembra incredibile che un paese così microscopico abbia tanti abitanti. Le persone sono attente, partecipi: è mancata una nonna di quasi novant’anni, una persona buona e gentile, che ha allevato una numerosa famiglia nel modo più degno. Una famiglia di robusto ceppo contadino, profondamente cristiana: dove la religione è autentica fede e non mai abitudine o conformismo. Credo proprio che tutti le volessero bene: e non, come si suol dire in queste circostanze, per una specie di rimorso inconsapevole da parte di chi rimane. Ci sono persone che, quando se ne vanno, lasciano un caro ricordo in tutti, per la loro innata bontà e gentilezza d’animo; e così certamente era lei, a giudicare dai suoi figli.
Non dirò che ha lasciato un vuoto. I volti sono compresi dalla serietà del momento, ma non sono tristi e men che meno disperati; una luce di speranza li sorregge, e una dolce consapevolezza che quell’anziana signora se n’è andata dopo una vita terrena lunga e operosa, circondata dall’affetto dei suoi cari, lasciando l’esempio luminoso di se stessa.
Non c’è senso di vuoto perché, al contrario, si sente che le buone azioni e i buoni sentimenti sono rimasti, sono qui in mezzo agli altri: sono una forza tuttora viva e operante. Si sente che le persone a lei care, già defunte, sono venute a prenderla per condurla con sé in un luogo migliore; e, prima fra tutte, la Madonna a cui era tanto devota e che nel vicino santuario è venerata esattamente da cinquecento anni, significativa circostanza che ricorre proprio adesso.
Quando la gente esce dal piccolo cimitero dietro la chiesa - uomini, donne, anziani, bambini - non si sente un senso di tristezza, ma di pace. Non è fare del romanticismo a buon mercato e non vi sono reminiscenze di Thomas Gray e della sua «Elegy Written in a Country Churchyard» («Elegia scritta in un cimitero di campagna»). Questa non è letteratura, ma vita: la vita semplice, laboriosa, seria, delle persone comuni; la vita dura e faticosa che, di tanto in tanto, viene rischiarata da un raggio di sole, grazie alla presenza luminosa di qualcuno che, come gli altri, pareva assolutamente comune, e invece possedeva una spiritualità eccezionale.
Sono persone come il mio amico e come la famiglia da cui proviene, che mi hanno riconciliato con la visione del mondo propria del Cristianesimo; la loro fede semplice, solida, fattiva e sempre illuminata da un sorriso, da una parola di bontà. Lascio volentieri ad altri le loro orgogliose verità cerebrali, le loro rarefatte filosofie nichiliste. Ho imparato a giudicare le idee in base alle persone che le incarnano, e non viceversa.
Quando si è giovani si giustificano le persone in nome delle idee: e, se le idee appaiono sublimi, si chiude volentieri un occhio, e magari anche tutti e due, di fronte al fatto evidente che delle buone idee non possono viaggiare sulle gambe delle persone brutte. È vero che le persone, con i loro limiti e le loro mediocrità, possono rimpicciolire una nobile idea e perfino stravolgerla; ma non può darsi il contrario. Nessuna idea bella e buona ha mai prodotto persone brutte, cattive, egoiste. Bontà chiama bontà; cattiveria chiama, ancora e sempre, solamente cattiveria.
Questi pensieri mi si affollano alla mente, mentre la folla comincia a sciogliersi, a diradarsi, e la piccola piazza si svuota nell’aria ancora mite del pomeriggio inoltrato. I raggi obliqui del sole al tramonto scendono da dietro il campanile e gettano il loro riverbero glorioso sugli occhi, suggerendo quasi il prodigio della seconda vista che si apre, dei sensi interiori che si risvegliano nella dolcezza della sera primaverile.
Rientro nella chiesa ormai deserta e mi siedo a contemplare, ancora una volta, il meraviglioso trittico rinascimentale, con quel San Martino che si china verso il mendicante, a offrirgli una parte del suo mantello. Sembra la scena di una favola, eppure ha l’eleganza leggera e discreta di una cosa reale, di una parabola vivente, calata nella vita di ogni giorno. Ho avuto il privilegio di conoscere persone capaci di tagliare in due il proprio mantello, per amore del prossimo; e poi, di tagliare ancora in due la metà che era rimasta loro; e poi ancora, e ancora…
Jung parlerebbe di archetipi; da parte mia, mi limito a prendere atto della cosa. I pittori di un tempo, pieni di fede e di speranza nell’altra vita, sapevano quel che facevano, quando illustravano le vite dei santi: e cioè non soltanto dell’esercizio di stile, del virtuosismo fine a se stesso. E gli uomini di altre generazioni, allorché guardavano una pala d’altare o la vetrata istoriata del finestrone d’una chiesa, non ci vedevano soltanto un’opera umana, più o meno riuscita sotto il profilo tecnico, della luce, del colore o della prospettiva; ma molto di più: una lezione di vita, calata nell’oggi e protesa verso il domani…
E quella grande Madonna in gloria, affrescata sul catino dell’abside dietro l’organo dell’altar maggiore e circondata da angeli con le trombe ed i liuti, non era solamente un dipinto eseguito, con mano un po’ ingenua, da un pittore di provincia negli anni fra il cubismo e l’art déco: ma un simbolo possente ed accogliente, anzi, una presenza viva, alla quale si sono rivolte, con fede, generazioni di uomini e donne, nelle loro gioie e soprattutto nelle loro pene.
Esco sul sagrato, mentre l’aria risuona del canto di numerosi uccelli che intrecciano voli rapidissimi sulle chiome degli alberi secolari.
È strano, ma non ho visto lacrime: solo un dolore composto e lenito dalla ferma certezza che la persona cara non è affatto scomparsa nel nulla, ma è entrata in una dimensione gloriosa, circondata dall’amore delle anime che l’hanno preceduta.
Mentre rientro verso casa, il sole da occidente mi investe direttamente negli occhi, temperato dal suo lento declinare verso l’orizzonte, e accende le nuvole che veleggiano maestose nel cielo sereno, posando una luce discreta sui campi e sui boschetti di pioppi. Un vecchio oratorio di campagna occhieggia a lata della strada, segno della devozione d’altri tempi. Avrebbe bisogno di un restauro, le passate generazioni non lo avrebbero lasciato decadere così.
Mano a mano che i grandi capannoni delle aree industriali e il traffico veloce delle strade principali mi riporta alla dimensione ordinaria della fretta e della compulsione (fermo a una rotatoria per dare la precedenza, vengo perfino tamponato, per fortuna senza danni), non posso fare a meno di pensare che la nostra società ha perduta l’interna coesione nel preciso momento in cui ha voltato le spalle alle cose dell’anima per inseguire il miraggio delle cose materiali.
E la gente non è diventata più felice; tutt’altro.
Anche in questi momenti di riflessione e di mestizia, il telefonino cellulare, simbolo della nostra moderna schiavitù dorata, mi porta i problemi di persone sofferenti, angosciate, che lottano invano, senza riuscire a vedere un raggio di sole. La semplice gente di campagna aveva un porto sicuro in cui gettare l’ancora, nelle tempeste della vita; noi non l’abbiamo più, abbiamo rinunciato alla nostra primogenitura per il proverbiale piatto di lenticchie. Non siamo più figli di un Dio soccorrevole e misericordioso, ma i vilissimi schiavi di Dei crudeli e indifferenti, che si fanno gioco di noi, delle nostre speranze e delle nostre paure.
Non vi è dubbio che, invece di progredire - come pomposamente ci piace affermare ad ogni occasione - siamo regrediti, e di molto. Non c’è più bellezza nelle nostre vite, non ci sono ascolto reciproco, comprensione e sollecitudine. Siamo in perenne, feroce competizione gli uni con gli altri: nel rapporto di coppia, in quello tra figli e genitori, in quello con i colleghi di lavoro; perfino con i vicini di casa…
E tutto questo, in cambio di che cosa? Ci siamo impoveriti e basta, senza neppure la speranza di un domani migliore.
Il mio amico mi raccontava come, da bambino, sentiva sempre sua mamma cantare, mentre svolgeva i lavori di casa. Era una cosa comune, Anch’io possiedo questo ricordo, della mia. Le persone avevano il cuore sereno, quando l’ossessione di accumulare beni materiali non ne aveva ancora stravolto e offuscato il rapporto essenziale con la vita.
Mentre rientro al mio paese, noto un gruppo di immigrati islamici al margine della strada. Probabilmente vengono dalla moschea, perché indossano tutti gli abiti tradizionali: sembra una scena da «Mille e una notte», decisamente incongrua. Certo, la fede non conosce frontiere e per l’Essere, da cui veniamo e al quale faremo ritorno, non hanno alcun significato le nostre distinzioni, meno ancora le nostre contrapposizioni.
È un vero peccato, però, che noi lasciamo cadere così la fede dei nostri padri; e, insieme con essa, l’insieme dei valori che la sostanziavano di gesti e comportamenti quotidiani, nonché la visione del mondo che essa ispirava: una visione benevola e gentile.
Forse non è già troppo tardi.
Il sole è ancora ben lontano dalla fine del suo viaggio, quando rientro a casa con i fari della macchina ancora spenti. C’è ancora abbastanza luce per vedere nitidamente i boschi e le colline e per ammirare la gloria dei monti circonfusi dagli ultimi raggi.
Possiamo ancora destarci da questo lungo sonno e cominciare a liberare, fin da ora, la magnifica farfalla che si agita nel chiuso bozzolo della nostra pigrizia morale, del nostro miope materialismo e dell’egoismo che ci isola sempre più gli uni dagli altri.
Poi, quando sarà giunta l’ora, la farfalla uscirà dal corpo, volente o nolente, per affrontare il viaggio più meraviglioso. Bisognerà che quel momento ci trovi desti e non dormienti, come siamo ora.