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Once upon a time

di Gianni Petrosillo - 14/04/2010

 

 

Once upon a time l’Impero di Toni Negri, una grande narrazione mitologica che parlava di un moloch acefalo, tentacolare, deterritorializzato, ultimo margine di un mondo schizzato al di là del tempo e dello spazio, sospinto teleologicamente su questa strada dalla globalizzazione dei mercati e da una forma di comando entrata direttamente nella mente degli individui. Una forza oscura che caricava gli stessi cervelli degli uomini di mezzi di produzione e che convertiva il corpo in una macchina di valorizzazione capitalistica, per il solo fatto di muoversi e di pensare, per la sola ragione di esistere. Parole che ho sentito personalmente pronunciare al cattivo maestro padovano il quale merita, “honoris causa”, quel titolo più volte affibbiatogli dagli anni ’70 ad oggi.

Ma questa forma particolare di dominio faceva altresì crescere all’interno dell’Impero, sempre per il benamato professore, un’alternativa vivente chiamata moltitudine, un soggetto collettivo biopolitico che carnificava il sociale e sviluppava, per emanazione celestiale, una nuova sostanza democratica atta a liberare il mondo dal male. Ora non chiedetemi cosa significa tutto ciò perché per interpretare queste categorie fantasmagoriche e trovare il filo di un ragionamento, laddove esso sia effettivamente possibile, occorre fare una scorpacciata della miglior (o peggiore, a seconda dei punti di vista)  letteratura horror o fantasy, buttando nel cesso tomi di scienza sociale ed economica.

Mentre il Manifesto, quotidiano “scomunista”, continua a diffondere tali amenità, discutendone pure con uno come Zizek, il quale a furia di voler scandalizzare ad ogni costo si è politicamente smarrito nella selva oscura dei suoi arzigogoli teoretici, gli storici ci mettono di fronte alla cruda verità. Quegli Stati nazionali, la cui scomparsa veniva annunciata a più riprese e che dovevano essere inghiottiti da una voragine storica, si moltiplicano a vista d’occhio. Quanto più i loro confini sono recenti e identitariamente fragili, tanto più si accrescono i conflitti e le micro guerre l'affermazione della loro sovranità.

Sull’inserto culturale “Domenica” del Sole24ore è stato pubblicato un articolo dello storico Donald Sasson che riprende questi temi e li sottopone al vaglio della realtà: “Dicono che gli Stati nazione sono vasi vuoti, illusioni che appartengono al passato. Sia come sia il mondo  di oggi è diviso in quasi 200 stati sovrani, molti di più di 150 anni fa”. E ciascuno di questi Stati, prosegue Sasson, mantiene e riproduce tutto l’armamentario della sovranità eretto nel ’800 e '900 “passaporti, confini, eserciti, uniformi, polizia, valuta, inni nazionali, giornate nazionali e banche centrali”. Anche sotto il profilo culturale il sistema educativo è orientato a rafforzare questo spirito d’identità che si esprime con canali televisivi nazionali (i quali danno priorità alle notizie interne prima che di quelle estere) e programmi popolari, mentre nelle scuole s’insegna ad essere orgogliosi del proprio paese, a preservare le tradizioni e i costumi dei padri. Con ciò si alimentano, nel bene e nel male, quei miti fondativi che spostano indietro nei secoli la nascita di una consapevolezza condivisa della propria appartenenza alla terra e al sangue.

Nemmeno la fantomatica globalizzazione è riuscita a rallentare questa tendenza e a limitare la proliferazione dei nuovi stati o la voglia di espandersi di quelli vecchi.

Il verdetto di Sasson è, dunque, impietoso e sbugiarda chi, per nascondere lo strapotere di uno Stato predominante ed ancora assolutamente sulla vetta del globo, aveva sprecato fiumi d’inchiostro annunciando l'avvento del PGM, Pacifico Governo Mondiale, senza centro e appartenenze. Dice ancora il professore inglese (e mi scuso per la lunga citazione tuttavia, in questo frangente, altamente istruttiva): “Ci sono più nazioni oggi che nel 1880, ma nel 1880 ce n’erano meno che nel 1800. In realtà le unità di governo che prevalevano prima del 1800 erano raramente comunità nazionali, vale a dire comunità abitate da persone auto-consapevoli di fare parte della stessa nazione. Si trattava per lo più di Stati tenuti insieme da un sovrano, o da una religione o dalla forza delle armi o da élite locali. Vi è un flusso e riflusso nell'apparizione e nella scomparsa degli Stati, che suggerisce che è meglio evitare qualsiasi determinismo per quanto riguarda il loro futuro. Forse ce ne saranno di più. Forse ce ne saranno di meno. In ogni caso il significato di sovranità nazionale è alquanto mutato nel corso dei secoli, a tal punto che una definizione onnicomprensiva è una perdita di tempo. Il mondo in cui viviamo oggi è in gran parte il risultato della enorme proliferazione degli Stati-nazione. I pochi Stati-nazione del XIX secolo sono oggi quasi 200. Certo, la comunicazione transnazionale si è enormemente moltiplicata e a una velocità sorprendente. Ma questo è un fattore che facilita la moltiplicazione delle identità, la conoscenza e l'uso del passato a fini politici. E così nuovi Stati si separano dai vecchi con l'idea che le cose possano migliorare; dopotutto l'idea del progresso porta alla lotta per il progresso. E il processo può continuare mentre anche la globalizzazione continua”.

Proprio così, l’idea del progresso porta alla lotta per il progresso, elemento che indica la presenza di una dinamica che attraversa e scuote la storia e che  impedisce a questa di trovare dei limiti o di non poterli superare facilmente laddove questi si materializzano. Le discettazioni sulla fine della Storia, declamate fino a pochi anni fa da studiosi post-moderni come Francis Fukujama, sono finite nella pattumiera del tempo, stritolate dalla pressione del mutamento che ha mandato fuori corso, in un baleno, le cristallizzazioni teoretiche di gente che aveva fretta di affrancarsi dal pensiero e dalla fatica derivante da questa attività.

In quelle celebrazioni infoiate c’era la voglia di chiudere un’epoca di conflitti, a bassa ed alta intensità, conseguenti alla divisione del mondo in due blocchi contrapposti, nonché di assegnare lo scettro di paese-guida allo Stato uscito vincitore indiscusso da quella disputa. Ma il motore della storia non si spegnerà finché sulla terra ci saranno essere umani, finché l’inevitabile lotta per il progresso (che altro non è se non propulsione conflittuale tra stati, tra gruppi sociali, tra individui) nelle società capitalistiche – ma anche in quelle che potranno affermarsi oltre questo modello sociale - disegnerà un avvenire. E l’avvenire, come ripeteva Althusser, dura a lungo.