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Lo stato delle nostre guerre

di mazzetta - 20/05/2010




 La morte dei nostri due soldati ha riacceso la luce sull'Afghanistan, sarà un attimo e tornerà a calare il buio, se non fosse per gli episodi luttuosi o qualche mascalzonata sparsa ai danni dei pochi italiani che vi si trovano senza essere stati mandati dal nostro governo, il conflitto afgano è chiaramente sotto-rappresentato dai nostri media. Molto più visibile la “minaccia iraniana”, molto teorica e ormai sfumata, delle guerre vere, difficile credere al caso o  una follia diffusa.

Una volta deciso in maniera bipartisan e contro la volontà popolare che si andava, a livello politico non si sono più registrati grossi scossoni o incertezze e raramente la questione è diventata oggetto di disputa politica. Quando la luce si riaccende è già previsto un menu ampiamente rodato a base di cordoglio bipartisan, funerali solenni e la scontata bordata di retorica, ultimamente parecchio sopra le righe, visto che ci ritroviamo come ministro della difesa Ignazio La Russa, uno che non fa economia di parole in queste occasioni.

Siamo sempre stati il paese dello “armiamoci e partite”; in repubblica come in monarchia i nostri leader non hanno mai brillato quando si è trattato di proiettare il paese all'estero. Premesse che giustificano gli esiti peggiori, ancora di più se all'azione è chiamata la classe politica forse più scadente della storia del paese.

È un vero miracolo, che va riconosciuto al nostro esercito e alle capacità negoziali della nostra diplomazia sul campo, che il numero delle nostre vittime in Afghanistan sia rimasto straordinariamente contenuto in questi anni. Non stona farlo notare in questa occasione, perché il paese non è mai stato pronto ad accettare una mortalità che pure sarebbe compatibile con scenari di guerra. Lo stesso problema lo hanno gli americani, che pure perdono relativamente pochi soldati grazie alla prudenza e allo strapotere militare quando arrivano all'ingaggio diretto con il nemico.

Ben pochi dei paesi che hanno militari in Afghanistan sono mai stati disposti a sopportare tributi di sangue troppo alti, per questo sono stati impiegati nel presidio di zone relativamente tranquille e tenuti per quanto possibile lontani dalle principali minacce. All'amministrazione Bush servivano foglie di fico, non aiuti militari, che ha integrato con l'uso di un numero spropositato di mercenari, gran parte dei quali occupati a proteggere altri americani o a servire la truppa professionale, ma comunque più numerosi e ubiqui e coordinati con il comando statunitense della forza multinazionale nel suo complesso.

Così, da anni,  stiamo lì a fare i bersagli, attesa dell'inevitabile trappola esplosiva o dell'attacco suicida, senza fare molto di più che presenza e qualche inevitabile brutta figura; basti pensare che il compito che ci eravamo assunti per aiutare l'Afghanistan, paradossale trovata del governo Berlusconi presa per buona dai soci nell'avventura, era quello di costruire un sistema giudiziario e di formare i giudici. Forse all'epoca il diabolico immaginava di poter mandare magistrati italiani in esilio ad insegnar diritto, ma non si potrà mai sapere, perché dopo nove anni non c'è traccia di niente del genere.

L'Afghanistan non appassiona, non essendo oggetto di competizione politica è praticamente rimosso, dimenticato. Quando succede qualcosa si alza un'autorità come il Presidente della Camera Gianfranco Fini che dice che è colpa dello scacchiere internazionale, poi Bersani dichiara che non possiamo lasciar vincere i talebani e La Russa che fa il suo numero. Berlusconi, fortunatamente, questa volta era malato.

Osservando La Russa  in azione, mi è venuta in mente un'assoluta banalità: quella di chiedermi retoricamente perché non ci ha mandato suo figlio Geronimo, a compiere tutto quel dovere e tutto quel sacrificio per la Patria con la P maiuscola. Un attimo dopo non era tanto una banalità: pensandoci è pur vero nessuno tra i figli di parlamentari o ministri è in Afghanistan. Ma nemmeno ci sono figli di governatori o presidenti di regione o di leader politici, nemmeno uno. Persino la trota di Bossi è stata abbastanza sveglia da preferire i ricchi incarichi in Lombardia al fascino dell'avventura contro il feroce musulmano. Piccoli forchettoni crescono.

Non succede lo stesso negli altri paesi occidentali coinvolti nel conflitto, che mostrano più contegno e senso istituzionale. Questo italico unanimismo monolitico spiega più di tante parole quanto siamo portati per le avventure militari. Per il governo dell'epoca non si trattò certo di reagire con istinto guerresco, ma di comprarsi una sedia il più possibile vicino a Bush, il più potente di tutti. Come con Putin e altri, lungimirante. Ma quanto ci sono costati Bush e Putin? Alcuni muoiono e altri ne traggono vantaggio, è sempre così con le guerre; negli Stati Uniti si sono rubati anche gli sgabelli all'ombra della guerra, oltre a pregevoli pezzi d'Iraq.

Certo è che andare al traino non esime da responsabilità, ancora di più quando si osserva che la politica dell'amministrazione Obama non si sposta di una virgola da quella di Bush. L'approccio ai problemi è tanto simile che la nuova retorica con la quale è impacchettato non basta a nasconderlo, tanto che è appena spuntata l'ennesima Abu Grahib e si è saputo che la base americana di Bagram è un centro di tortura simile a quello iracheno. L'unica differenza é  che questa volta non si è trovato ancora un idiota che mettesse le sue foto su Facebook mentre applica elettrodi ai testicoli di un poveretto incappucciato.

In Afghanistan gli americani, e con loro gli alleati, stanno peggio di come stavano alla fine del 2001, dopo un mese di permanenza. Supportano Karzai che pure hanno accusato pubblicamente di aver vinto con i brogli e che correva contro un rivale che poi è stato cooptato al governo. Una farsa in faccia agli americani, che però non hanno trovato un altro “presidente” alternativo in tempo a rimpiazzare quello fallito ma abbastanza vitale da resistere al potere, che avevano scelto loro. Ora siamo al tempo del “surge”, cioè di un’accelerazione bellica che dovrebbe migliorare la situazione come la stessa tattica in Iraq.

Vaglielo a dire agli italiani e agli americani che il “surge” in Iraq non è servito a nulla, che esisteva per lo più sui media; e vaglielo a dire che oggi gli iracheni muoiono a decine ad attentato, mentre gli americani si sono “ritirati” dentro le basi nel deserto e nell'enorme fortezza (in teoria ambasciata) che hanno costruito in mezzo a Baghdad. Ci sono state le elezioni, ma il governo è ancora da fare a distanza di settimane e probabilmente la coalizione vincente non sarà quella preferita da Washington. Dettagli: l'Iraq già non esiste più in Occidente, non esistono nemmeno il suo milione di vittime e i quattro milioni di profughi, quasi un quinto della popolazione.

Immaginare che una persona su cinque di quelle che conosciamo muoia o scappi da qui a sei anni, rende l'idea del danno fatto da Bush nello scatenare una guerra impopolare e fondata su una marea di balle grossolane. Non c'entrava la guerra al terrorismo, non c'erano le armi di distruzione di massa, solo petrolio di ottima qualità. Quando è stato chiaro a tutti quale fosse il vero scopo, hanno detto che era troppo tardi per tornare indietro. Probabilmente l'amministrazione Bush ha conseguito i suoi scopi, ma il mondo pagherà a lungo un prezzo enorme per la sua decisione di occupare l'Iraq per il prossimo decennio. Noi nel nostro piccolo abbiamo dato la consueta manciata di giovani eroi, ma per fortuna ormai è finita e, qui, quello che è successo e succede in Iraq non interessa più a nessuno. Meglio rimuovere in fretta e girare la testa da un'altra parte.

Ancor meno interessa quello che succede in Somalia, dove il nostro storico inviato, il diplomatico Mario Raffaelli, è stato sostituito a gennaio senza che sia mai stato chiaro quale fosse l'agenda italiana per il paese e nemmeno quale sarà chiamato ad interpretare il suo successore. Raffaelli probabilmente è riuscito ad operare decentemente ( le buone referenze lo hanno portato a diventare presidente di AMREF Italia) proprio perché nessuno era interessato a capire cosa stesse succedendo, e quindi a ingerire. Resta che la Somalia è ancora allo sbando e che se prima c'era un governo di islamici, poi è arrivata la dittatura etiope a cacciarli per conto degli americani.

Successivamente gli etiopi se ne sono andati e adesso di islamici ce ne sono almeno di tre tipi: uno buono finalmente al governo, uno cattivo e uno cattivissimo. Gli annunciati rinforzi in addestramento in Kenya si sono rivelati fantomatici e il divide et impera continua a tenere la Somalia nel disastro. Ce ne ricorderemo se i pirati cattureranno qualche italiano al volo, altrimenti niente.

Così come un giorno ci accorgeremo che gli Stati Uniti di Obama hanno aperto un altro sanguinoso fronte in Pakistan, dove ormai non si finge nemmeno più e dove gli americani operano dall'alto con i droni e l'esercito pakistano finalmente muove contro i talebani e altri associati, che rispondono con attacchi alle città. In tutto questo il Pakistan ha dato un segnale di vitalità, perché la debolezza politica dello scarsissimo e corrottissimo marito di Benazir Bhutto (scelta dagli americani e uccisa con un attentato pauroso), ha permesso finalmente una riforma costituzionale degna di questo nome. Peccato solo che in Pakistan nessuno investa ancora in scuole, perché il Pakistan ha sempre preferito spendere in armi gli aiuti che riceveva dagli americani per fare da baluardo contro l'India, l'URSS e la Cina, riservando l'istruzione alla classe dominante e condannando il resto alle madrasse finanziate dall'Arabia Saudita.

Una scelta scellerata di regimi scellerati sempre sostenuti dagli Stati Uniti, complici di Yaya che fa il massacro in Bangladesh, di Alì Bhutto che comincia il programma nucleare, di Zia ul Haq che procede a passo di carica nell'islamizzazione della società e delle leggi. Così hanno prodotto abbastanza mujaheddin da cacciare i russi dall'Afghanistan, ma anche bombe atomiche, gli attentati dell'11 settembre e parecchi altri. Oggi il Pakistan soffre migliaia di vittime all'anno e già più di un milione di profughi interni.

Come mai tutto ciò accade con un paese storicamente “alleato” (vale lo stesso per l'Arabia Saudita)? E come mai non si trova invece uno straccio d'iraniano, siriano, libanese o palestinese disposto a partecipare a quella che hanno raccontato come la grande jihad contro l'Occidente? E’ un mistero glorioso che andrebbe chiarito dagli spacciatori di certe narrative, ma è difficile che qualcuno li disturbi con domande importune. E poi non si poteva certo pretendere da Bush di rovesciare la monarchia saudita, sono cose che non si fanno tra amici di famiglia.

Non resta che incrociare le dita e sperare nello stellone, i nostri parlamentari sono quelli che se sentono dire Darfur pensano al fast-food, pensano a mangiare loro, la guerra è affare dei nostri giovani eroi, a tutti gli altri non resta che continuare a sperare che il nostro coinvolgimento diretto s'interrompa il prima possibile.