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Iraq, la guerra vista dai soldati

di Chiara Ascheri - 04/05/2006

 
Al Tribeca Film Festival presentato “The War Tapes” di Deborah Scranton. Dieci militari hanno filmato per un anno intero la loro esperienza ma la censura ha bocciato le immagini sul massacro di Falluja





La rivista Wired parla di “embedding virtuale”, la regista Deborah Scranton afferma che la sua fonte di ispirazione è il giornalismo immersivo di James Agee, autore del cult “Sia lode ora agli uomini di fama”. Il documentario The War Tapes, in questi giorni in anteprima al Tribeca Film Festival di New York, arriva dopo una serie di titoli (Gunner Palace e Operation Dreamland sono forse i più noti) che hanno raccontato il conflitto in Iraq dal punto di vista dei soldati. Qui però sono i soldati stessi a filmare. Tutto è cominciato nel febbraio 2004 quando la Guardia Nazionale del New Hampshire ha invitato Deborah Scranton ad unirsi alle truppe come “filmmaker embedded”. Dopo qualche giorno di riflessione Scranton ha fatto una controproposta: dare leggerissime video-camere digitale ai ragazzi in divisa e dirigerli a distanza. Dei centottanta uomini del reparto, dieci si sono offerti volontari, cinque hanno filmato per un anno intero e tre compaiono nel film. Stephen Pink, 24 anni, cresciuto in Massachusetts, si è arruolato per pagare la retta del college. La stessa motivazione e il desiderio di viaggiare ha spinto Zack Bazzi, nato in Libano, a vestire l’uniforme. Bazzi non condivide la politica estera dell’amministrazione Bush ma pensa che «combattere sia parte del dovere di ogni soldato». L’unico con profilo da vero “patriota” è Mike Moriarty, 34 anni, meccanico della Harley-Davidson con moglie e due figli. Dopo l’11 settembre ha scelto di «difendere un grande paese e le libertà degli americani». Scranton li ha accompagnati via Internet, in chat e via e-mail. Alla fine i tre hanno portato a casa ottocento ore di materiale girato spesso in condizioni estreme, tra imboscate, combattimenti e “incidenti” costati la vita a civili iracheni. Come le foto delle torture di Abu Ghraib, quelle dei corpi straziati postati su siti porno e le centinaia di video-clip disponibili su YouTube. com, le immagini di The War Tapes offrono, nel bene e nel male, una narrazione della guerra che spesso eccede quella “venduta” dagli addetti alle pubbliche relazioni del Pentagono e della Casa Bianca. Ma nel documentario di Deborah Scranton, sottolinearlo è necessario, ogni cassetta è stata visionata e autorizzata dai vertici militari. Così le immagini più cruente di Falluja riprese dal sergente Pink, quelle in cui gli americani aprono il fuoco e uccidono, sono state censurate e il filmato è stato sostituito da fotografie di brandelli di corpi. L’elemento più interessante è il disagio dei soldati di fronte alle operazioni della Halliburton e delle altre multinazionali che fanno affari in Iraq. Al fronte l’intreccio tra guerra e interessi economici è talmente evidente che anche il patriota Mike Moriarty ad un certo punto sbotta: «Che cazzo ci faccio qui di guardia a un camion pieno di cheesecake?». The War Tapes mostra anche le reazioni delle moglie e delle madri dei tre e il loro ritorno a casa. Pink e Moriarty hanno sofferto disordini post traumatici ma solo Moriarty ha deciso di lasciare la Guardia Nazionale perché «ora tocca a qualcun altro farsi avanti». Nell’incontro con la stampa al Tribeca regista, presissima dal suo ruolo di mediatrice, ha preferito non dichiarare la sua posizione sulla guerra e ha ribadito più volte che il film non è né contro né a favore del conflitto. «Questi soldati rappresentano comunque la maggioranza che ritorna» ha detto. Un quadro tutto sommato consolante, che probabilmente non dispiace ai vertici militari alle prese con le critiche dei generali alla gestione Rumsfeld, ma che contrasta con gli aspetti più inquietanti emersi in altri documentari del festival newyorchese.

Home Front di Richard Hankin è il ritratto di Jeremy Feldbusch, uno dei 17.000 soldati feriti in Iraq. 23 anni, l’ex ranger Feldbusch ha riportato danni cerebrali gravissimi, è cieco e soggetto ad improvvisi cambiamenti di umore. Il film racconta una riabilitazione dolorosa, il rapporto con la famiglia che non lo ha mai abbandonato e il coinvolgimento con il Wounded Warrior Project, un gruppo che offre sostegno ai feriti e preme sul Congresso per ottenere assistenza.

Per Herold Noel, protagonista di When I Came Home di Dan Lohaus, la guerra non è mai finita. Al ritorno dall’Iraq, il 25enne di colore, si è ritrovato a fare i conti con gli effetti devastanti del trauma, attacchi di rabbia e incubi curati con psicofarmaci. Senza lavoro, ha dormito per mesi nelle strade di Brooklyn nella sua macchina. Poi, grazie al supporto dell’associazione di veterani “Iraq and Afghanistan veterans of America” (Iava), la sua vicenda è finita sotto i riflettori dei media. Rimane però la punta dell’iceberg perché in America ci sono 150.000 homeless reduci dal Vietnam e tra qualche anno i veterani dell’Iraq potrebbero essere altrettanti. Secondo l’Iava, un soldato su tre quando torna a casa affronta stress traumatici, depressione e ansia. I dati ufficiali del Pentagono dicono che nel 2005 ben 85 soldati si sono suicidati, la cifra più alta dal 1993 a oggi. «Gli Stati Uniti non hanno imparato la lezione del Vietnam. Non ci sono programmi di transizione per chi torna a casa e le risorse sono totalmente inadeguate. Tutti i gruppi di veterani hanno chiesto fondi ma la Casa Bianca ha risposto picche» dichiara Paul Rieckhoff, direttore dell’Iava. Anche per questo l’opposizione dei veterani alla guerra sta crescendo. Il 29 aprile in tanti hanno partecipato alla manifestazione di New York per chiedere il ritiro delle truppe.