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Home / Articoli / Notizie dal mondo" 15-30 aprile 2006

Notizie dal mondo" 15-30 aprile 2006

di Rivista Indipendenza - 06/05/2006

 

 

 

 

 

 

a)      Riflettori puntati, stavolta, su Asia centrale ed orientale. Nepal (23, 29, 30) e India (16) all’insegna del maoismo e delle preoccupazioni dell’amministrazione USA. Più a est la Cina si muove a tutto campo: verso la Russia (18) e Stati Uniti (21), ma anche verso l’Europa, il Medio Oriente  e l’Africa (19, 23, 24, 30).

 

b)      Ancora su Israele e Palestina (18 e 19). Al 19 una riflessione di Danilo Zolo sul “terrorismo”, e poi un’occhiata ai tesi rapporti tra il compiacente (verso Israele e Stati Uniti) Mahmud Abbas (“Abu Mazen”) ed il governo di Hamas uscito vincitore alle elezioni di gennaio. Nell’insieme vedere 21, 22, 25, 26.

Attenzione a due chicchette riconducibili ad una sola circostanza, un’esercitazione militare congiunta prevista a maggio in Sardegna: vedere Svezia / Israele e Italia / Israele, entrambe al 28.

 

c)      Su USA / Iraq scorrere 20, 21, 26.

 

d)  Notiziole anche sulle lotte nazionalitarie in:

1.      Irlanda (16, 25, 27).

2.      Euskal Herria (26, 28, 29). Dirigenti baschi ancora sotto attacco ed un omaggio.

3.      Catalogna (28).

 

 

Tra l’altro:

 

Sudan: 19 aprile.

Ciad: 19 aprile.

Turchia / Kurdistan: 20 aprile.

Iran: 30 aprile 

Bolivia: 15, 28 aprile.

Venezuela: 21 aprile.

Venezuela / USA: 16, 24 aprile.

USA: 24 aprile.

 

 

Saluti a tutte / i.

 

 

Bolivia. 15 aprile. Nazionalizzazione degli idrocarburi. Il neo superintendente degli idrocarburi in Bolivia (incarico che è secondo, per importanza, a quello del ministro) ha esordito nel nuovo ruolo dicendo di considerare «necessaria la nazionalizzazione delle risorse energetiche». La nomina di Victor Hugo Saenz, che ha assunto l’incarico ieri, è avvenuta mentre si attende la promulgazione, attesa per le prossime settimane, di un decreto del presidente Morales che includa la nazionalizzazione delle riserve di gas naturale e la revisione dei contratti con le imprese petrolifere straniere operanti nel paese. Il ministro degli Idrocarburi, Andres Soliz Rada, ha definito il neo superintendente «una garanzia per smantellare la struttura neoliberista creata negli ultimi anni».

 

Irlanda (Eire). 16 aprile. Per la prima volta negli ultimi trent’anni, Dublino ripristina la celebrazione della Rivolta di Pasqua del 1916. Apprezzamento dallo Sinn Féin. Il suo presidente, Gerry Adams, ha ricordato che questa celebrazione non solo era stata abbandonata, ma addirittura proibita dall’amministrazione di Dublino. Adams ha però criticato il fatto che il primo ministro irlandese, Bertie Ahern, abbia dedicato il corteo ufficiale di oggi alle Forze Armate, giacché «non è ciò che la commemorazione di Pasqua deve essere» ed ha ribadito che è necessario tornare ai princìpi della proclamazione del 1916. «La Proclamazione è sull’autodeterminazione e sulla democrazia. Chi crede che gli uomini e le donne del 1916 avrebbero accettato la divisione d’Irlanda?», ha chiesto l’esponente repubblicano, ricordando anche che il governo deve dar conto in ambiti come quello del benessere sociale, dell’uguaglianza, della difesa degli interessi nazionali di fronte a quelli delle multinazionali, della promozione dell’anti-razzismo e dell’interculturalità. Per via delle celebrazioni ufficiali di oggi, il Sinn Féin si è visto obbligato ad anticipare ieri la sua tradizionale sfilata di Pasqua a Dublino.

 

Irlanda. 16 aprile. La Rivolta di Pasqua (1916) fu messa in atto da alcune migliaia di Volontari Irlandesi. La Gran Bretagna era allora impegnata nel primo conflitto mondiale. Occupato l’Ufficio Generale delle Poste, nel centro di Dublino, i Volontari tennero in scacco per alcuni giorni l’esercito d’occupazione britannico. Il poeta Padraig Pearse, che guidava il battaglione che aveva occupato proprio quegli uffici, fu incaricato di leggere la Proclamazione della Repubblica Irlandese, un documento basato sui princìpi di uguaglianza e di autodeterminazione. L’insurrezione, però, fu alla fine repressa. I britannici arrestarono 3.430 sospetti. I quindici dirigenti della rivolta, includendo i sette firmatari della proclamazione d’indipendenza­, furono messi a morte tra il 3 ed il 12 maggio. Tra loro anche James Connolly, sindacalista e fondatore dei Volontari, gravemente ferito nel corso della Rivolta e fucilato pressoché agonizzante. Un totale di 1480 persone furono incarcerate senza processo ed inviate in prigioni del Galles.

 

Irlanda del Nord. 16 aprile. L’obiettivo del Sinn Féin è l’Esecutivo. Intervenendo a Dublino, Gerry Adams ha smentito le voci che vorrebbero il suo partito boicottare l’Assemblea di Belfast, che sarà reinstaurata da Londra il prossimo 15 maggio. Ha ricordato però che l’unica ragione che giustifica la presenza dei repubblicani nella camera legislativa è la creazione dell’Esecutivo, e che non c’è alcun interesse «a passare il tempo chiacchierando». Adams ha avvertito che la creazione dell’Esecutivo deve essere obiettivo anche dei governi. All’esponente unionista Ian Paisley che ha dichiarato che il suo partito, il DUP (Democratic Unionist Party), ha intenzione di tornare ad un governo a maggioranza esclusivamente unionista, Adams ha replicato che «l’unico modo che Ian Paisley ha di tornare ad esercitare il potere politico è in un esecutivo con il Sinn Féin». «Se Ian Paisley continua a rifiutare di riconoscerci come uguali, allora i due governi dovranno adempiere con il loro impegno di applicare in maniera congiunta tutti gli altri elementi dell’Accordo del Venerdì Santo, ed incrementare sostanzialmente l’armonizzazione e la direzione d’Irlanda come una totalità», ha detto Adams. L’esponente unionista si trova in difficoltà, giacché se negozia con il Sinn Féin va contro i princìpi del DUP, e per altri versi accrescerebbe la voce in capitolo di Dublino sulle decisioni sul nord Irlanda. Adams ha anche voluto ricordare il ruolo essenziale che l’IRA ed i prigionieri politici hanno giocato nel consolidamento e nell’avanzamento del processo di pace, inclusa la decisione dello scorso anno dell’organizzazione repubblicana di abbandonare la sua campagna militare contro i britannici mettendo fuori uso il suo armamento.

 

Israele. 16 aprile. Tel Aviv medita uno scambio prigionieri con una doppia finaltà. Secondo una radio Israele scarcererebbe l’esponente di al Fatah, Barghuti, in cambio di Jonathan Pollard, analista della marina militare USA. Pollard sta scontando una condanna all’ergastolo negli Stati Uniti per spionaggio a favore di Israele. Israele libererebbe Barghuti, condannato a 5 ergastoli per «terrorismo», nella speranza che una volta libero possa emergere come un contrappeso in grado di opporsi ad Hamas.

 

Iran / Palestina. 16 aprile. L’Iran stanzia 50 milioni di dollari al governo palestinese guidato da Hamas. L’intento è di aiutare il movimento della resistenza palestinese a governare, facendo fronte alla grave crisi finanziaria dovuta alla sospensione degli aiuti diretti di Stati Uniti ed Unione Europea. Tel Aviv ha anche bloccato i cospicui fondi doganali mensili che spettano di diritto all’Autorità Nazionale Palestinese.

 

India. 16 aprile. La guerriglia maoista preoccupa Nuova Delhi. Celebrata come economia emergente dell’Asia dietro alla Cina, grande competitore sui mercati mondiali dell’energia, destinazione privilegiata di investimenti hi-tech, mercato in crescita con i circa 200 milioni di consumatori (su 1 miliardo e passa di abitanti), l’India emergente convive con un’altra India di guerriglie rurali. La ribellione armata naxalita (maoista, ndr) minaccia «la nostra democrazia, il nostro modo di vita», probabilmente «la più grande minaccia mai affrontata dal nostro paese». Lo ha detto il primo ministro dell’India, Manmohan Singh, parlando ai capi di governo di 13 Stati indiani in cui è presente questa guerriglia, riuniti per studiare strategie comuni (task-forces interstatali, condivisione della raccolta di informazioni, coordinamento delle operazioni, ecc.) anti-guerriglia insieme al ministero dell’interno dell’Unione. I quadri maoisti sono ben armati e addestrati, mentre spesso la polizia indiana è male equipaggiata e non motivata. Decine di migliaia i posti vacanti negli Stati più colpiti. Nessuno vuole rischiare la vita in una battaglia malpagata e non sentita. A febbraio, in uno degli ultimi scontri più cruenti, 55 membri di una milizia anti-maoista organizzata dal governo nello Stato centrale del Chhattisghar sono rimasti uccisi. Il nome naxalita in India indica movimenti di lotta armata di ispirazione maoista nelle zone rurali: il nome viene da un villaggio del Bengala occidentale, Naxalbari, teatro di una rivolta contadina nel 1967, prima risposta violenta (e organizzata) dei contadini più poveri all’oppressione dei proprietari terrieri. Giovani istruiti delle città erano andati a militare nelle campagne ed il movimento aveva raccolto simpatie richiamando l’attenzione sui mali profondi del paese, la riforma agraria non realizzata, i privilegi di proprietari terrieri di stampo feudale, l’oppressione di casta. Poi il movimento è finito, schiacciato dalle forze di sicurezza dello Stato, frammentato da scissioni ideologiche interne e spiazzato dai cambiamenti sociali. Il termine naxalita è rimasto, nel vocabolario politico indiano, ma sembrava destinato ad essere vago riferimento per due sigle residuali (il People’s War group e un Maoist Communist Centre) e per episodici conflitti violenti in zone rurali arretrate e ancora un po’ feudali.

 

India. 16 aprile. Combattere i maoisti con le armi e lo sviluppo rurale. Il primo ministro dell’India, Manmohan Singh, ha tracciato le coordinate d’intervento del governo centrale. Via libera, quindi, a commandos di forze speciali, ben armate e addestrate, come ha fatto lo Stato dell’Andra Pradesh, nell’India meridionale, dove i maoisti hanno una forte presenza. Singh ha però fatto notare che se il movimento naxalita è diventato una «minaccia alla sicurezza interna» è perché l’India non è riuscita a portare giustizia sociale e sviluppo nelle sue regioni più povere. Il movimento naxalita è diffuso ormai in 160 dei 604 distretti amministrativi dell’India e trova sostegno «nei settori più deprivati e alienati della popolazione». Il movimento, ha spiegato Singh, «sta generando qualche nozione di empowerment in queste classi attraverso l’uso della violenza. Stanno tentando di stabilire “zone liberate” nelle loro roccaforti, dove dispensano rudimenti di amministrazione, sicurezza, giustizia, cioè le funzioni basilari di uno Stato. La cosa allarmante è che di solito in queste aree l’amministrazione e la polizia sono assenti». Singh ha insistito: sfruttamento, bassi salari, ineguaglianze, la mancata riforma agraria hanno alimentato la ribellione. Ha esortato i governanti locali a «privilegiare il buongoverno e la trasparenza» ed eliminare le «dispersioni di fondi» destinati allo sviluppo: ovvero, a non intascare i fondi destinati a opere pubbliche e all’assistenza sociale.


India. 16 aprile. Il governo di Manmohan Singh (dell’Alleanza Progressista Unita, coalizione del centrista Congress con le sinistre) aveva cercato, due anni fa, di affrontare il fenomeno naxalita in modo nuovo: lo chiamavano approccio «politico-economico», contro un’idea puramente militare. Il risultato era stato notevole. In Andra Pradesh il governo locale di centrosinistra aveva intavolato negoziati di pace con i naxaliti. Era un modo di ammettere che c’erano motivazioni sociali e politiche nella ribellione –quelle di cui parla ora il premier Singh, e non semplice banditismo. Il processo di pace aveva segnato alcuni progressi, ma poi è collassato. Uno dei motivi è che i ribelli hanno rifiutato di disarmare. L’altro è che il governo ha esitato a intraprendere la riforma agraria che i maoisti chiedevano: i ribelli avevano elencato terre agricole incolte o più spesso incamerate in modo illegittimo da grandi gruppi industriali e personaggi influenti, e chiedevano la redistribuzione ai senzaterra di 12mila ettari. Il governo dell’Andra Pradesh alla fine ha rifiutato. Così ora molti si chiedono se reggerà la «doppia strategia» illustrata dal primo ministro: ristabilire il controllo delle forze dell’ordine e realizzare la giustizia sociale. Con i governi locali intenti a distribuire concessioni a grandi gruppi minerari e industriali, che incamerano terre su terre, c’è da attendersi altri conflitti.

 

Sri Lanka. 16 aprile. I ribelli tamil dello Sri Lanka hanno dichiarato di essere decisi a ritirarsi dai negoziati di Ginevra con il governo. Ieri c’era stato un accordo a rinviare i colloqui in Svizzera di qualche giorno, posponendo l’inizio dal 19 aprile al 24, per facilitare il raggiungimento di un accordo. Oggi il colpo di scena che ferma tutto il processo.

 

USA / Iran. 16 aprile. Washington ha pianificato una guerra contro l’Iran ben prima dell’aggressione all’Iraq. A tale scopo era finalizzata un’esercitazione militare congiunta con la Gran Bretagna nel Mar Caspio, dove si affacciano diverse repubbliche ex-sovietiche. Queste, nel periodo successivo all’invasione dell’Afghanistan, avevano intavolato complesse trattative con gli USA per la concessione di basi militari. È quanto scrive sul Washington Post un esperto statunitense.

 

USA / Iran. 16 aprile. Un attacco all’Iran provocherebbe conseguenze negative per gli USA assai maggiori di quelle attuali dovute alla guerra in Iraq. È l’allarme lanciato da due specialisti di questioni militari, in passato membri del Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Sul New York Times, Richard Clarke e Steven Simon, coordinatori della «lotta al terrorismo» sia sotto Clinton che nella prima amministrazione Bush, sottolineano che un attacco all’Iran non potrebbe che comportare una escalation pericolosa per gli Stati Uniti.

 

USA. 16 aprile. Anche l’ex comandante in capo delle forze NATO in Europa, Wesley Clark, chiede le dimissioni del capo del Pentagono, Donald Rumsfeld. Clark si unisce così ai sei colleghi in pensione che già si sono pronunciati in tal senso. «Penso che Rumsfeld non abbia fatto un buon lavoro e debba andarsene», ha dichiarato Clark alla tv Fox. La colpa di Rumsfeld è, a suo parere, quella di avere gettato il Paese in una guerra che non aveva nulla a che vedere con la «lotta al terrorismo».

 

Venezuela / USA. 16 aprile. Petrolio venezuelano agli abitanti del Bronx (New York). Dipartimento USA irritato. Si è tenuta a New York, in una chiesa del Bronx, una cerimonia di ringraziamento al governo di Caracas, che l’inverno scorso –attraverso la compagnia petrolifera Citgo di proprietà della statale Petróleos de Venezuela– ha fornito a basso prezzo combustibile per il riscaldamento alle famiglie disagiate di questa zona degli Stati Uniti. Tra i beneficiati, molti rappresentanti di comunità native. Ron Bear, degli indigeni Penobscot, ha consegnato all’ambasciatore venezuelano, Bernardo Alvarez, un bastone di comando. Nel Bronx, 181mila famiglie hanno avuto riscaldamento per l’inverno pagando un prezzo scontato del 40%. Ma sono stati ben otto gli Stati statunitensi e quattro le nazioni indigene ad essere state beneficiate con oltre 40 milioni di galloni di petrolio a basso costo. Il bilancio –positivo– di questo programma di aiuti è stato presentato in una relazione all’ambasciatore venezuelano, Bernardo Alvarez, ed al presidente della Citgo, Félix Rodríguez. Presenti rappresentanti delle tribù micmac, maliseet, penobscot e passamaquoddy, dello Stato del Maine, oltre a membri dei settori più sfavoriti, maggiormente latini e afroamericani (rispettivamente il 48% ed il 35% della popolazione del Bronx, la zona più povera di New York). Il Dipartimento di Stato USA, dopo questo precedente, ed il bagno di folla che ha ricevuto l’ambasciatore venezuelano, ha comunicato che intende imporre limiti ai suoi spostamenti. Non certo per ragioni di sicurezza. Nel famigerato Bronx Alvarez si è mosso senza alcun dispositivo di sicurezza.

 

Euskal Herria. 17 aprile. EA afferma che dopo il cessate-il-fuoco di ETA «niente potrà fermare questo popolo (basco, ndr)». Così Begoña Errazti, presidentessa di Eusko Alkartasuna (EA, centrosinistra), nel corso del suo intervento all’Aberri Eguna (festa nazionale basca, ndr) che EA ha celebrato nell’emblematica località di Gernika. Errazti ha augurato uno «scontro di sovranità» (con riferimento alle diverse opzioni basche che si possano confrontare in uno scenario di autodeterminazione, ndr), la cui soluzione finale passa perché Madrid accetti quel che decidano i baschi, «senza che questo accordo possa essere rinegoziato». «Si tratta di chiudere la pagina della violenza, per aprire quella della sovranità», ha detto in un passaggio del suo discorso.

 

Spagna / Euskal Herria. 17 aprile. «Prima la pace e poi la politica». Con queste parole il primo ministro spagnolo, José Luis Rodríguez Zapatero, ha spiegato che non discuterà con l’ETA l’autodeterminazione del popolo basco. Intervistato da El Mundo, Zapatero ha detto che «i baschi hanno diritto a decidere il loro futuro», ma «dentro la legalità, come i catalani» e che il PSOE «è disposto a dialogare, ma dentro binari istituzionali». Sull’accettazione o meno del diritto a decidere della cittadinanza basca, Zapatero ha ripetuto gli argomenti esposti nelle ultime settimane al Congresso dei Deputati. Quello all’autodeterminazione «è un diritto che non esiste sotto nessun punto di vista e pertanto non è nel dibattito». Rispetto al diritto di decisione ha detto che «i baschi hanno diritto a decidere del proprio futuro dentro la legalità [spagnola, ndr], come i catalani andranno a decidere del loro futuro, nel quadro della legalità, pronunciandosi sullo Statuto».

 

Qatar / Palestina. 17 aprile. Anche il Qatar, dopo l’Iran, ha deciso di donare 50 milioni di dollari al governo palestinese di Hamas. Lo ha detto un portavoce del ministero degli Esteri dell’emirato, spiegando che la decisione è stata presa per aiutare il popolo palestinese.

 

Iran. 17 aprile. Teheran avverte: Washington «non è nelle condizioni» di attaccare l’Iran per l’«impantanamento» delle sue truppe in Iraq. Lo ha detto il ministro iraniano degli Esteri Manuchehr Mottaki.

 

Euskal Herria. 18 aprile. I diritti storici «sono preesistenti alla Costituzione spagnola». Lo ha detto il portavoce del PNV (autonomisti) Iñigo Urkullu, in un’intervista ieri alla Radio Nazionale di Spagna. La dichiarazione segue le critiche del PSOE (socialisti) e del Partito Popolare che hanno accompagnato le parole del governatore basco Ibarretxe che aveva fatto riferimento per l’autodeterminazione basca a «diritti storici». Il ministro spagnolo Jordi Sevilla aveva commentato che «i diritti sono tanto storici come il 1978 [riferimento alla concessione dello Statuto di autonomia ai baschi, ndr]». «Questo problema ha 167 anni di storia», ha replicato Urkullu, riferendosi così al 1839, al momento cioè in cui i fueros [insieme di leggi, consuetudini e libertà di cui godevano statatutariamente anche i Paesi Baschi, ndr] baschi furono sottomessi all’«unità costituzionale» spagnola dopo la fine della Prima Guerra Carlista ed aggiungendo di non essere «assolutamente» d’accordo con le dichiarazioni di Zapatero sul diritto di autodeterminazione.


Euskal Herria. 18 aprile. Il cessate-il-fuoco dell’ETA è «reale». Lo ha detto oggi, in un’intervista ad un’emittente statale, il capo del governo spagnolo, José Luis Rodríguez Zapatero, facendo riferimento ad un secondo rapporto fattogli pervenire dalle forze di polizia. Le lettere contenenti l’importo dell’imposta rivoluzionaria, indirizzate ad imprenditori, sono antecedenti all’annuncio dell’organizzazione politico/militare basca, ha specificato. Se i successivi rapporti confermeranno come «reale e credibile» il cessate-il-fuoco, si rivolgerà al Congresso per annunciare che il governo del PSOE «va a prendere contatti e a dialogare con ETA per la cessazione della violenza».

 

Norvegia / Palestina. 18 aprile. Il governo norvegese è pronto ad incontrare, il mese prossimo, esponenti del Movimento palestinese di resistenza islamica (Hamas). «Il governo crede nel dialogo anche con gruppi dei quali non approviamo le azioni», ha sostenuto in una intervista alla radio Nrk il ministro per gli aiuti allo sviluppo Erik Solheim. Oslo si sottrae così, per ora, ai tentativi di Tel Aviv e di Washington di isolare i legittimi rappresentanti palestinesi, perché pretendono dai palestinesi il riconoscimento di Israele ma non che questi riconosca sia il diritto dei palestinesi ad avere uno stato sovrano nei confini del 1967 con capitale Gerusalemme est, sia il diritto al ritorno dei profughi. Il 15 maggio, ad Oslo, si recheranno il portavoce del gruppo parlamentare di Hamas nel parlamento palestinese, Salah Bardawil, e Mohammed Rantisi, fratello dell’ex capo di Hamas ucciso dagli israeliani nel 2004.

 

Israele / Palestina. 18 aprile. Prime rappresaglie di Israele all’attentato di lunedì a Tel Aviv, il più grave da 20 mesi e il primo da quando le recenti elezioni palestinesi hanno dato maggioranza assoluta e governo al movimento di resistenza islamica Hamas. Elicotteri israeliani hanno colpito la striscia di Gaza mentre l’esercito ha occupato con oltre 80 carri armati, blindati e bulldozer la città di Nablus ed è entrato in forze a Qalqiliya e Jenin, città nel nord della Cisgiordania dalla quale proveniva il giovane attentatore suicida della Jihad Islamica. Il primo ministro israeliano, Ehud Olmert, ha puntato il dito contro il nuovo governo palestinese, come d’abitudine dei vari capi di governo israeliani che di volta in volta hanno responsabilizzato il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese di turno, ed incurante del fatto che Hamas continui a rispettare la tregua proclamata unilateralmente per le operazioni dentro Israele. Una scusa per non trattare con i palestinesi e continuare nella colonizzazione dei territori occupati di Palestina.

 

Israele / Palestina. 18 aprile. «Israele per il momento», ha detto Olmert dopo l’attentato della Jihad, e dopo la rappresaglia israeliana, «non colpirà direttamente gli esponenti del governo palestinese» ma si «limiterà» a deportare (in violazione della convenzione di Ginevra, ndr) da Gerusalemme Est Mohamed Abu Tir (numero due della lista islamica alle elezioni di gennaio), Ahmad Attun e Mohamad Totah, tutti e tre esponenti di Hamas; bloccherà completamente, riducendole a ghetti dai quali non sarà più possibile entrare o uscire, le città di Jenin, Tulkarem, Nablus e, in parte, Ramallah; rilancerà gli omicidi di esponenti della Jihad Islamica nella striscia di Gaza e nella West Bank; organizzerà nuove massicce retate all’interno di Israele contro i lavoratori palestinesi che vi risiedono senza permesso (pur essendone i legittimi abitanti) e contro quegli israeliani che li ospitano o aiutano; manterrà il blocco intorno ai territori occupati. In altri termini rafforzerà ulteriormente quell’occupazione che è all’origine della violenza in Palestina ed in Israele.


Israele / Palestina. 18 aprile.
Israele è «l’unico responsabile dell’escalation delle violenze che stiamo vivendo». Le sue «azioni ingiustificate, gli arresti, gli attacchi, gli omicidi e i blocchi» contro i palestinesi non fanno altro che determinare reazioni. L’accusa è del numero due dell’ufficio di Hamas, Mousa Abu Marzouk, che da Damasco commenta l’attentato di lunedì. Marzouk ha anche denunciato la condanna che il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha fatto ieri dell’attentato di Tel Aviv, definendolo «detestabile». «Quello che serviva», ha detto Marzouk, «era un appello per fermare le aggressioni, gli omicidi e gli arresti perpetrati da Israele e la mancanza di generi alimentari per la popolazione palestinese».

 

Russia / Cina. 18 aprile. «L’espansione cinese crescerà ancora, perché il governo manca di una politica definita per la Siberia ed il Lontano Oriente russo». Ne è convinto Victor Ishaev, governatore della provincia di Jabarovsk, limitrofa alla Cina. Analisti e politici russi mettono in guardia dall’espansione di Pechino verso la Russia asiatica che starebbe avvenendo silenziosamente con mano d’opera a buon mercato e progetti di collaborazione. Si tratta di un’area molto poco popolata e con ingenti risorse naturali. Per le dure condizioni di vita, negli ultimi dieci anni un milione di russi ha abbandonato quei territori; ne restano ora sei milioni su un totale di meno di 20 milioni di persone che vivono quei 15 milioni di km2 che separano la cordigliera degli Urali dall’oceano Pacifico, mentre sono centinaia di migliaia i cinesi che ogni anno passano la frontiera per lavorare, comprare o villeggiare. «L’espansione silenziosa è reale. Si tratta di mano d’opera a basso costo, operai, cuochi e contadini che prendono i lavori che i russi disprezzano. Se la Russia non ne prende coscienza, la Cina metterà radici in Siberia», avverte il deputato Boris Reznik al quotidiano Izvestia. Questo territorio ha il 75% delle risorse naturali della Russia. In Siberia si trovano l’80% del petrolio e del carbone, l’85% del gas naturale ed il 40% del legno russi, mentre il lago Baikal contiene 1/5 delle riserve di acqua dolce del mondo.

 

Russia / Cina. 18 aprile. Un piano per ripopolare la Siberia con 18 milioni di persone che facciano frontiera con il «Lontano Oriente». È quanto intende fare il Cremlino. «Non possiamo perdere questi territori strategici», assicura il consigliere presidenziale, Kamil Isjakov, che ha aggiunto che la missione di queste persone sarà quella di «proteggere l’integrità della Russia». Gli analisti ritengono che si tratta di una risposta alla minaccia percepita dell’espansione cinese. La crisi demografica, che da oltre dieci anni segna la Russia, si sta facendo sentire specialmente nel «Lontano Oriente». Secondo le ultime previsioni dell’ONU, la Russia, che oggi conta 142 milioni di abitanti, potrebbe scendere nel 2050 a 113 milioni, se non, nelle previsioni più negative, a 96 milioni. In Siberia vive attualmente un 15% in meno di popolazione che nel 1991, anno dell’implosione dell’URSS. Gli esperti in demografía avvertono che, con una discesa del tasso di natalità ed un aumento dell’emigrazione, la Siberia potrebbe contare nel 2015 su circa 4,5 milioni di persone. Politici, autorità e giornalisti contemplano il rischio di una futura perdita dei territori siberiani a favore di una sempre più sovrappopolata Cina. In Russia abitano attualmente circa 3,5 milioni di cinesi ed altre centinaia di migliaia visitano il territorio russo per fare affari. Dalla parte russa, nelle aree contigue a quelle cinesi, è diffusa socialmente una percezione negativa di questa immigrazione economica dei cinesi ed i più la vedono come prosecuzione ed estensione, in un futuro neanche troppo lontano, dell’antica rivalità russo-cinese.

 

Sudan. 19 aprile. La Casa Bianca sta valutando un piano per un maggiore coinvolgimento della NATO nel Darfur. Si parla di inviare poco meno di 500 uomini che verrebbero assegnati a operazioni di logistica, comunicazioni, intelligence, attività di controllo e di comando e non impiegati direttamente in azioni sul terreno. A questa forza farebbero riferimento le truppe dell’Unione Africana impegnate in missione di “mantenimento della pace” (peace-keeping) nella regione meridionale del Sudan. Qui si confrontano i gruppi di ribelli del sud (cristiano e animista) e le milizie arabe filogovernative. A Washington si teme che la situazione destabilizzi l’intera Africa centrale (innanzitutto il Ciad, confinante con la provincia meridionale sudanese). Finora la NATO ha collaborato con l’Unione Africana in termini di trasporto aereo delle truppe e di assistenza tecnica alle sue seimila unità.

 

Ciad. 19 aprile. I destini di Sudan e Ciad si intrecciano anche per gli interessi esteri che attirano. La Francia non ha mai lasciato il Ciad dalla “indipendenza” del Paese e non ha intenzione di farlo perché il Ciad, con un ottima pista di atterraggio, è una “portaerei fissa” che le consente di razionalizzare la logistica della propria presenza in quella parte del continente. Inoltre la posizione è utile per monitorare la situazione verso la Libia (striscia di Aouzou), il Centroafrica (instabile da anni), il Niger e ora il Sudan. Ma sarà difficile per Parigi incrementare le sue Forze: la missione in Costa d’Avorio, un Paese economicamente focale per la Francia in Africa, si trascina ormai da anni senza evidenti progressi e assorbe 4.000 uomini. Dal punto di vista dell’Eliseo un importante motivo per non lasciare il Ciad al suo destino è la certezza che esso cadrebbe sotto l’egemonia anglosassone. Una ossessione di grandeur giustificata dalle consistenti riserve di uranio (scoperte e sfruttate dai francesi) e, da due anni, da una discreta produzione petrolifera suscettibile di incremento, per ora sfruttata dalla statunitense Exxon. È certo che in questi giorni a Parigi e a Washington la situazione viene seguita con ansia. Se nessuno può ritenersi soddisfatto dei risultati della presidenza Deby, la prospettiva che il suo governo cada prefigura uno scenario da incubo, con il Ciad che ritornerebbe in uno stato incontrollabile con gravi conseguenze. Da qui le ragioni dell’intromissione della Francia nelle vicende del Darfur: Parigi vuole il controllo del Ciad e i ribelli del Ciad sono di etnia Darfuri; se prendono il potere in Ciad, la Francia perde il controllo delle risorse. La vicenda del Darfur poteva trovare soluzione da molto tempo perché il Jem (Justice and Equality Movement) è disposto a studiare una soluzione con il governo del Sudan, ma il Jem è della stessa etnia dei ribelli del Ciad, e la Francia sa che la pace in Darfur favorirebbe i ribelli del Ciad.

 

Kirghizistan / USA. 19 aprile. O Washington adegua il prezzo o la sua base militare di Manas chiuderà. È l’avvertimento del presidente kirghizo, Kurmanbek Bakiyev, che aveva chiesto in febbraio la somma di 207 milioni di dollari l’anno per l’affitto della base, contro i circa 2 milioni finora versati dalle casse USA. Secondo quanto riferisce l’agenzia stampa Ria-Novosti, il presidente ha affermato: «Il Kirghizistan si riserva il diritto di considerare decaduto l’accordo bilaterale del 4 dicembre 2001 qualora non fosse possibile concludere il nuovo negoziato entro il 1 giugno 2006». Circa 1.000 militari USA sono schierati presso la base di Manas, costituita nel dicembre 2001 nel principale aeroporto civile presso la capitale Bishkek per le esigenze connesse con le operazioni della coalizione a guida USA in Afghanistan.

 

Russia. 19 aprile. La Russia rimarrà neutrale in caso di guerra tra USA e Iran. Lo ha assicurato il capo di stato maggiore delle forze armate russe e vice ministro della difesa, il generale Yuri Baluyevsky, «almeno fino a quando sarò io capo di stato maggiore». La dichiarazione ha fatto seguito ad un incontro a Mosca con il comandante delle forze della NATO in Europa, generale James Jones. Lo riferisce l’agenzia di stampa Interfax, che l’ha raccolta nel corso di un suo intervento ad un dibattito sugli scenari di un possibile uso della forza degli Stati Uniti contro Teheran. Baluyevsky ha quindi aggiunto che «una soluzione diplomatica del problema nucleare dell’Iran è l’unico percorso giusto e bisogna intraprenderlo. La guerra non è la strada da seguire». Dopo aver detto che il ricorso all’uso della forza sarebbe «un grande errore politico e militare», ha precisato che Mosca non intende rinunciare alla vendita a Teheran dei sistemi di difesa aerea Tor-M1.

 

Iran. 19 aprile. «Il prezzo del petrolio non è ancora arrivato al suo valore reale». Lo ha detto il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. E ha proposto che i Paesi produttori contribuiscano a dar vita a un mercato a prezzi calmierati per «i Paesi deboli e poveri», lasciando in vigore la legge della domanda e offerta per quelli «potenti e sviluppati».

 

Israele / Palestina. 19 aprile. Via libera della corte suprema israeliana alla costruzione di un nuovo tratto della «barriera di sicurezza» attorno a Gerusalemme. Secondo l’edizione elettronica di Haaretz, il nuovo «muro» sarà vicino ai villaggi palestinesi di Bir Naballah, Beit Hanina, Al Jib, Jedira, Qalandiyah e A-Ram. Respinti i ricorsi dei residenti. Per Israele la barriera è necessaria per impedire l’infiltrazione di «terroristi», mentre i palestinesi denunciano la barriera come un «muro dell’apartheid». In diversi punti passa dentro quel che resta del territorio palestinese, fatto che anche la corte di giustizia dell’Aja ha definito in contrasto con le norme internazionali.

 

Palestina. 19 aprile. Criminali sono soltanto gli sconfitti. Su il Manifesto di oggi, Danilo Zolo, si interroga sulla «stigmatizzazione di Hamas [vincitore alle ultime elezioni politiche in Palestina ed ora al governo, ndr] come “organizzazione terroristica” sfruttata da Israele e dagli Stati Uniti per imporre al popolo palestinese, già stremato da decenni di occupazione militare, pesanti sanzioni economiche». Zolo parla di «uso unilaterale che fanno le grandi potenze» del termine «terrorismo» sulla cui «nozione» manca un «consenso nell’ambito stesso del diritto internazionale». «Per la dottrina prevalente nei paesi occidentali», prosegue Zolo, «un atto terroristico è caratterizzato dall’uso indiscriminato della violenza contro la popolazione civile, con l’intento di diffondere il panico e di coartare un’autorità politica nazionale o internazionale. Ma questa interpretazione è controversa, come è emerso clamorosamente al summit euromediterraneo di Barcellona del novembre 2005. Essa non tiene conto della condizione in cui si trovano i popoli oppressi dalla violenza di forze occupanti. I “combattenti per la libertà” o i partigiani in lotta per la liberazione del proprio paese –i sudafricani che lottavano contro l’apartheid, i palestinesi che combattono contro l’occupazione israeliana, i resistenti iracheni– non possono essere considerati dei terroristi. Anche lo spargimento del sangue di civili innocenti, per quanto vietato dalle Convenzioni di Ginevra, non dovrebbe essere qualificato come terrorismo».

 

Palestina. 19 aprile. «Vi è un’altra riserva che si può sollevare nei confronti della nozione occidentale di “terrorismo”», prosegue Danilo Zolo su il Manifesto di oggi. «È l’idea secondo la quale soltanto i membri di organizzazioni private e clandestine possono essere considerati terroristi, non i militari inquadrati negli eserciti nazionali. Qualsiasi azione attribuibile ad apparati militari di uno Stato –anche la più distruttiva e sanguinaria– non è considerata terroristica. Una guerra di aggressione che produca, come la recente guerra scatenata contro l’Iraq, decine di migliaia di vittime fra la popolazione civile, non ha nulla a che vedere con il terrorismo. Sono comportamenti militari di fatto legittimi, poiché lo scempio di vite umane non è che un “effetto collaterale” di una guerra che si autolegittima grazie al soverchiante potere politico e militare di chi la conduce. Le istituzioni internazionali non hanno infatti il minimo potere di delegittimare le guerre di aggressione vittoriosamente condotte dalle grandi potenze. Solo le guerre degli sconfitti sono guerre criminali».

 

Palestina. 19 aprile. Zolo prende quindi ad esempio il conflitto israelo-palestinese. «Il popolo palestinese viene universalmente accusato di essere la culla del terrorismo islamico, in particolare di quello suicida. Nello stesso tempo gli atti di aggressione dell’esercito israeliano contro la popolazione palestinese sono al più qualificati come violazioni del diritto umanitario. E questo accade anche nel caso dei cosiddetti “omicidi mirati” che, oltre ad essere illegali in se stessi, provocano la morte o la mutilazione di numerose persone innocenti. Per di più queste violazioni restano del tutto impunite. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è paralizzato dal potere di veto degli Stati Uniti mentre la Corte penale internazionale è priva, oltre che delle risorse materiali necessarie, del coraggio di iniziare indagini e di avviare processi quando sono coinvolte le grandi potenze occidentali». Zolo fa quindi riferimento a precedenti storici di “terrorismo di Stato”. «È il caso di ricordare che la strage di centinaia di migliaia di persone innocenti causata nell’agosto 1945 dai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, voluti dal presidente Truman per affermare l’egemonia degli Stati Uniti nell’Asia del Pacifico, non è mai stata qualificata come un atto di terrorismo. E altrettanto vale per i bombardamenti decisi verso la fine del secondo conflitto mondiale dai governi d