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Diogene povero, Aristotele strapagato, Voltaire negriero

di Armando Torno - 14/10/2010



Non è vero che i grandi filosofi imparati a scuola furono soltanto apostoli delle loro idee e vissero come se l’umanità non li riguardasse. Se qualcuno ebbe tali caratteristiche, fu un’eccezione. La maggioranza conobbe i problemi della gente comune, sovente lottò contro quelli economici. Il denaro, per dirla in termini semplici, è stato capriccioso con loro quanto lo è con i comuni mortali. Noi li studiamo sovente in biografie che ne edulcorano le difficoltà, ma alcuni di loro furono ricchi e nobili, come Platone, mentre altri faticarono a tirare la fine del mese, come Comte, che combinò il pasto con la cena facendo il ripetitore scolastico.

Se Aristotele fu strapagato da Alessandro Magno (talune fonti parlano di 800 talenti versati per la Storia degli animali, cifra con la quale avrebbe potuto comperare allora oltre un migliaio di abitazioni) e se Seneca — grazie alle sue frequentazioni, in particolare Nerone — diventò il più ricco pensatore di tutti i tempi, Nietzsche visse gli anni creativi con una pensione da professore e da essa doveva decurtare le spese per pubblicare i libri. Diogene di Sinope, il cinico, abitava in una botte e girava per Atene come un mendicante, privandosi di tutto il superfluo e chiedendo anche la carità. Con questo non si deve dedurre che la storia del pensiero sia piena di morti di fame — tranne ovviamente quelli che scelsero una simile fine, come taluni stoici quali Dionigi o Cleante — ma che le idee, vera ricchezza per l’umanità, non sempre hanno ripagato chi le ha avute. Certo, non mancarono attenti amministratori del loro patrimonio, come Schopenhauer (il quale, tra l’altro, non sopportava il prossimo) o Voltaire, che investì le numerose prebende di cui godeva anche nelle navi negriere.
Dinanzi a una nuova edizione dell’Enciclopedia filosofica simili notizie corrono tra le voci e ci si accorge che le illustri vite, capaci di produrre sistemi e progetti per il bene del mondo, hanno ancora dettagli da rivelare. Marx, per fare un altro esempio, era sempre irritato e il problema dei soldi lo accompagnò tutta la vita. Era distratto: chiedeva prestiti, frequentava il banco dei pegni, spendeva senza riflettere e infine si infuriava quando giungeva il momento di onorare i debiti. L’eredità paterna gli portò una cospicua somma in oro (seimila franchi dell’epoca), ma egli la «investì» in buona parte per armare i lavoratori del Belgio; la madre, da parte sua, si rifiutò di pagargli i debiti. Per fortuna trovò Engels, la vera risorsa economica della sua esistenza. Condusse inoltre vita malsana: mangiava e fumava molto, era goloso dei cibi ben conditi, apprezzava la birra ad alta gradazione e soffrì — soprattutto durante la stesura de Il Capitale — di foruncoli. La dieta sregolata e l’igiene dell’epoca gli causarono questo genere di escrescenze, che lo innervosì in molteplici occasioni. In una lettera a Engels, scritta nei giorni di composizione della sua massima opera, Marx collega il protuberante fastidio alle lotte economiche: «Qualsiasi cosa succeda, spero che la borghesia si ricorderà per sempre dei miei foruncoli».
Jean-Jacques Rousseau, invece, nacque in una famiglia di Ginevra nella quale il denaro circolava senza problemi, ma dove non mancavano traumi, tanto che nel 1718 suo fratello maggiore fu spedito dal padre in riformatorio, a motivo di una «incorreggibile malvagità». Di lui si sa soltanto che nel 1723 riuscirà a fuggire e poi se ne perderanno le tracce. Nonostante Rousseau abbia scritto nell’Emilio «l’ambizione, l’avidità, la tirannia e la malintesa prudenza dei padri, la loro negligenza e brutale insensibilità» et similia, mise i suoi figli uno ad uno all’orfanotrofio. Che dire? Anche il papà di Hobbes, che era vicario anglicano di Westport, uomo di non eccelse qualità culturali e umane, dopo essere stato cacciato dalla sua parrocchia per un litigio con i superiori decise di abbandonare moglie e figli alla loro sorte. Oggi conosciamo l’autore del Leviatano perché uno zio benestante si prese cura della famigliola.
Per giungere in tempi vicini a noi, diremo che Bertrand, terzo conte di Russell, celebre per i suoi studi matematici ma soprattutto perché negli anni Sessanta gli fu attribuito lo slogan «fate l’amore, non fate la guerra», scrisse un’oceano di articoli e di libri su argomenti diversissimi — non escluso l’utilizzo del rossetto — per avidità. L’amico Miles Malleson (è in Rupert Crawshay-Williams, Russell Remembered, pubblicato a Oxford nel 1970) rivela che i suoi ingenti guadagni li registrava su un libriccino, nel quale elencava scrupolosamente i compensi ricevuti per pubblicazioni e trasmissioni radiofoniche. Nei rari momenti di inattività o di tristezza, lo estraeva e, leggendolo, ne ricavava «sempre grande conforto». Godeva, insomma, come Paperon de’ Paperoni.