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Ultràbombe

di Massimo Fini - 17/10/2010

 

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Per capire cos’è successo martedì sera a Genova bisogna rifare un po’ di storia. Non del calcio. Della politica.

Nei primi anni ’90, dopo la disgregazione della Jugoslavia, si creò in Kosovo, considerato da Belgrado “la culla della Nazione serba” (un po’ come per noi il Piemonte), un forte indipendentismo albanese. Negli ultimi decenni, per ragioni demografiche, in Kosovo si era formata una maggioranza albanese che pretendeva la separazione da Belgrado. Dall’altra parte lo Stato serbo voleva conservare una regione che era sempre stata, storicamente e giuridicamente, sua. Gli albanesi facevano guerriglia non disdegnando l’uso del terrorismo, com’è inevitabile in ogni lotta partigiana, la Serbia reagiva con le maniere forti, con l’esercito, con la polizia, con le milizie paramilitari di cui i giovani che hanno impedito la partita Italia-Serbia sono gli eredi.

C’erano quindi due ragioni, entrambe valide, a confronto: l’indipendentismo albanese e il diritto di uno Stato all’integrità dei propri confini, perché una terra non appartiene solo a chi in quel momento ci vive e ci abita ma anche alle generazioni che vi hanno vissuto, abitato e lavorato nel passato. Era quindi una questione che serbi e albanesi avrebbero dovuto risolvere fra di loro, secondo i reali rapporti di forza, o al massimo con l’intermediazione diplomatica dell’Onu. Ma gli Stati Uniti, che foraggiavano la guerriglia, decisero che le ragioni stavano solo dalla parte degli indipendentisti. Per tre mesi si misero a bombardare una grande capitale europea come Belgrado, facendo 5500 morti, finché la Serbia dovette arrendersi. Il tutto con l’appoggio degli europei e con l’Italia di D’Alema nella poco onorevole posizione del “palo” (i bombardieri partivano da Aviano).

Era una guerra ingiusta, non autorizzata dall’Onu (ma si sa che ci si richiama all’Onu quando serve, come in Afghanistan, quando non serve la si ignora). Era una guerra contro l’Europa e particolarmente “cogliona” per l’Italia come dissi al presidente D’Alema a Ballarò senza che lui osasse replicare. Noi non abbiamo mai avuto contenziosi con la Serbia, caso mai con la Croazia che per decenni ha vessato i nostri profughi in Istria. Anzi con la Serbia avevamo storicamente degli ottimi rapporti. Ma ci sono anche ragioni più attuali. Il “gendarme Milosevic”, con alle spalle una Serbia forte, checché se ne sia detto e scritto in contrario, era un fattore di stabilità dei Balcani. Ora in Kosovo (dove c’è, guarda caso, la più grande base militare Usa), in Montenegro, in Macedonia, in Albania sono concresciute grandi organizzazioni criminali che vanno a concludere i loro sporchi affari nel Paese vicino più ricco, cioè l’Italia. Come se non bastasse ai serbi è stata inflitta l’ulteriore umiliazione di portare Slobodan Milosevic, che non era un dittatore ma un autocrate (a Belgrado esisteva un’opposizione che faceva opposizione più di quanto la si faccia, oggi, in Italia) davanti al Tribunale internazionale dell’Aja come “criminale di guerra“. Il processo iniziò con gran clamore ma a poco a poco non se ne parlò più perché Milosevic, uno dei protagonisti della pace di Bosnia quale firmatario degli accordi di Dayton, aveva troppe buone carte nelle sue mani. Poi è provvidenzialmente morto d’infarto. Dico, incidentalmente, che aver avallato da parte della cosiddetta Comunità internazionale l’indipendenza del Kosovo è un insidioso precedente per tutti. Poniamo che fra 50 anni in Piemonte ci sia una maggioranza di cittadini musulmani che reclamino l’indipendenza di quella regione dall’Italia. Cosa potremmo rispondergli?

Comunque sia i duemila serbi che sono calati martedì sera a Genova non c’entrano nulla con un discorso sportivo, hanno usato un avvenimento sportivo, come è accaduto altre volte, per manifestare la loro umiliazione, la loro frustrazione, la loro rabbia per i soprusi che la Serbia ha dovuto subire negli ultimi vent’anni. Io – e non solo io – ero sentimentalmente con loro.