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«Coincidentia oppositorum» nella polemica antiborghese fascista e comunista

di Francesco Lamendola - 20/10/2010

 

La cultura politica nata dalla Vulgata democratico-resistenziale vorrebbe far credere che lo spirito antiborghese fosse una caratteristica precipua ed esclusiva della sinistra e, in particolare, del marxismo-leninismo.
Il fascismo viene presentato, sempre e immancabilmente, come un mero strumento nelle mani delle classi reazionarie, brandito a difesa dei loro esclusivi ed egoistici interessi, contro le masse sfruttate dei lavoratori.
Che si tratti di una mitologia faziosa e strumentale, ormai è difficile tenerlo nascosto; così come è difficile continuare a giocare sulla confusione tra fascismo come movimento, fascismo come ideologia e fascismo come regime; pure, la storia di quel periodo continua ad essere insegnata nelle scuole, e trattata nei saggi di carattere divulgativo, esattamente come prima.
Se, poi, ci si imbatte per forza di cose in dati di fatto oggettivi, quali il Manifesto di Verona della Repubblica Sociale, che mostrano quanto radicata fosse la dimensione sociale del fascismo e come venti anni di regime di compromesso con la borghesia e con le sue istituzioni non fossero riusciti a cancellarla, facendola anzi riemergere con forza proprio alla vigilia della fine, gli storici della Vulgata se la cavano osservando che si trattava solo di demagogia di bassa lega da parte di un regime - quello di Salò - ormai disperato e agonizzante.
Neppure la circostanza che il colpo di Stato del 25 luglio1943 abbia avuto luogo nell’imminenza della socializzazione della grande industria, ormai decisa da Mussolini, d’accordo con Cianetti, fa sorgere qualche sia pur piccolo dubbio nei sostenitori del Pensiero Unico liberaldemocratico; e men che meno la fretta brutale con la quale il dittatore venne poi tolto di mezzo, il 28 aprile 1945, prima che un regolare processo potesse far emergere una differente versione del ruolo svolto dalla grande borghesia italiana nel Ventennio: ruolo che essa riuscì ad occultare, rifacendosi una verginità ”resistenziale” per mezzo dei generosi donativi versati, all’ultima ora, alle unità partigiane nel 1944-45.
È vero, semmai, che gli aspetti rivoluzionari, antiborghesi e repubblicani esistevano sin dall’inizio nel fascismo come movimento: a Piazza San Sepolcro, Mussolini non aveva esitato ad affermare che il popolo aveva fatto la guerra, la borghesia no; per cui, ora, era giusto che fosse lei a pagare. Quegli elementi facevano anche parte, sia pure confusamente, della ideologia fascista; ma tutte le ideologie rivoluzionarie, allora, erano confuse: basti pensare all’esperienza dei Legionari di D’Annunzio a Fiume, in cui erano presenti uomini di ogni tendenza, dai nazionalisti estremisti, ai sindacalisti rivoluzionari e agli anarchici; esperienza che avrebbe trovato il proprio suggello ideologico nella Carta del Quarnaro.
Durante il Ventennio, e specialmente dopo il compromesso con la Monarchia e con la Chiesa cattolica, gli aspetti più esplicitamente antiborghesi erano stati messi in sordina; talché molti ebbero l’impressione - non del tutto esatta - che il fascismo avesse stipulato una alleanza organica con la borghesia agraria, industriale e finanziaria.
Ma la contraddizione tra il fascismo sociale e il fascismo conservatore esisteva e non scomparve mai del tutto, neanche negli anni della “normalizzazione” borghese; la tennero viva alcuni intellettuali ed anche taluni “ras”, anche se prevalentemente nell’ambito del dibattito culturale, specialmente all’ombra del ministro Giuseppe Bottai e di riviste come «Critica fascista» (fondata sin dal 1923); nonché giornalisti e polemisti che muovevano da posizioni fra loro assai diverse, ma che si suole accomunare nella generica espressione “fascismo di sinistra”.
Fu la dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra, il 10 giugno del 1940, a portare prepotentemente a galla quella contraddizione e a far sì che tutti i nodi irrisolti del fascismo come regime venissero bruscamente al pettine. In una guerra contro le potenze plutocratiche dell’Occidente, non c’era più spazio per le ambiguità: si trattava di mobilitare una nazione proletaria contro la borghesia internazionale e quindi, indirettamente, anche contro la borghesia di casa propria.
Si sa come reagì la borghesia italiana a questa sfida: quella stessa borghesia che aveva vissuto nella bambagia durante l’intero ventennio, con gli scioperi aboliti, il costo del lavoro tenuto molto basso, le organizzazioni sindacali autonome distrutte e una politica protezionista che aveva favorito la produzione nostrana, nel tempo stesso in cui le grandi commesse statali le offrivano un mercato assolutamente sicuro e praticamente in regime di monopolio.
Durante il ventennio, quando Mussolini visitava le fabbriche e proclamava che i tempi in cui l’operaio poteva essere costretto a lavorare in condizioni disumane entro locali malsani, erano finiti per sempre e non facevano parte del pensiero fascista, gli industriali lo avevano lasciato dire, convinti che le parole non hanno mai fatto male a nessuno. Ma quando, nell’estate del 1943, si resero conto che dalle parole si stava per passare ai fatti, mediante la socializzazione delle grandi aziende, allora decisero di agire senza perdere altro tempo.
Fra le due date, il 10 giugno 1940 e il 25 luglio 1943, la borghesia italiana consumò un tradimento strisciante, silenzioso, fatto di ritardi nella produzione molto simili al sabotaggio e, in certi casi, di vera e propria intelligenza col nemico: del resto, la borghesia italiana era tradizionalmente anglofila e molti uomini d’affari, molti diplomatici e ammiragli erano sposati con donne inglesi e vedevano nella borghesia britannica il grande modello da imitare.
Mussolini, senza dubbio, da uomo intelligente qual’era, si rese conto della difficoltà, per non dire dalla impossibilità, di mobilitare tutto il potenziale nazionale in una guerra contro l’Inghilterra (e, poi, gli Stati Uniti; oltre che contro l’Unione Sovietica), facendo appello ad una borghesia che sentiva i propri interessi come vicini a quelli del nemico, anzi, legati indissolubilmente a quelli del nemico.
Del resto, la situazione in cui venne a trovarsi il regime non era prevista. Mussolini, prendendo la decisione, pressoché da solo, di entrare in guerra, aveva fatto conto su un conflitto ormai brevissimo, e su una partecipazione italiana quasi simbolica: giusto il minimo indispensabile per poter sedere al tavolo del vincitore e non dover subire le rappresaglie di Hitler, qualora l’Italia avesse mantenuto la neutralità sino all’ultimo.
In una guerra di poche settimane o, al massimo, di qualche mese, non solo le magre risorse belliche del Paese non sarebbero venute allo scoperto, ma non sarebbe stato necessario fare la sconsigliabile prova di quanto la borghesia italiana fosse fedele al regime, nelle mutate condizioni internazionali. Fu il dramma, non previsto (e, a onor del vero, previsto da pochissimi, nella tarda primavera del 1940) della guerra lunga, dei primi rovesci e delle sempre più incerte prospettive di vittoria, a rompere definitivamente l‘equilibrio interno della società italiana e a spingere la borghesia su posizioni apertamente antifasciste, decidendola a consumare quel divorzio col regime che, diversamente, forse non vi sarebbe stato.
Si può affermare che, da sempre, le classi dominanti italiane hanno mostrato la tendenza a separare le proprie sorti da quelle dei regimi che pure le hanno favorite, quando le cose si mettono male e quando appare loro una ragionevole possibilità di sopravvivere a dei cambiamenti politici e sociali anche piuttosto radicali. Se il paragone non sembra eccessivamente ardito, si può notare, ad esempio, che così avvenne nel V secolo dopo Cristo, allorché il Senato decise di abbandonare al suo destino l’Impero di Occidente, in cambio della conservazione di buona parte dei propri latifondi (solo un terzo delle terre dovette essere ceduta ai “barbari” di Odoacre).
Gli esponenti del fascismo di sinistra, antiborghesi per cultura e per vocazione, si erano resi conto che il tradimento della borghesia italiana nei confronti non solo del regime, ma del Paese (ché di questo si trattava), era nell’aria fin dal giugno del 1940: perché era l’Italia come nazione ad essere impegnata in una lotta per la vita e per la morte; e, come dicono gli Inglesi, «right or wrong, it’s my Country». E che quel tradimento vi sia stato, lo prova l’obbrobrioso articolo del Trattato di pace di Parigi, che impose al governo italiano di non perseguire quei suoi cittadini i quali, fin dal 10 giugno 1940 (e non dall’8 settembre 1943), si erano adoperati per la sconfitta della loro Patria.
I fascisti di sinistra, dicevamo, si erano resi conto di ciò ed avevano accentuato la polemica antiborghese, iniziata fin dagli anni ’30, portandola avanti con la massima energia: tale fu la lezione, non solo intellettuale ma anche etica e umana, di uomini come Berto Ricci, che volle andare al fronte (ove trovò la morte) per combattere contro gli Inglesi e per ribadire le ragioni morali della guerra contro le plutocrazie.
Le forze della Resistenza, invece, non capirono tutte le implicazioni della posta in gioco, né lo capirono gli uomini politici democratici nell’immediato dopoguerra: l’Italia aveva giocato una grossa partita sulla scena mondiale e, perdendola, aveva mancato l’occasione storica di ritagliarsi un ruolo da protagonista. Insieme ad esso, aveva anche dovuto rinunciare a costruirsi una posizione di effettiva sovranità e indipendenza, vale a dire a completare l’opera del Risorgimento.
In un certo senso, si può dire (senza con ciò essere tacciati di essere nostalgici del fascismo) che molti dei problemi economici, sociali e politici italiani dal 1945 ad oggi sono la diretta conseguenza di quella sconfitta e del conseguente infeudamento della borghesia nazionale alla borghesia anglosassone, dalla quale tuttora dipende e alla quale servilmente obbedisce, sia nelle questioni interne (dalla vicenda dell’Agip con la morte “misteriosa” di Enrico Mattei, fino alle pagine più oscure degli “anni di piombo”), sia in quelle internazionali (come per l’Iraq, per l’Afghanistan o per la politica di prona sudditanza nei confronti di Israele).
I fascisti di sinistra, dunque, avevano visto chiaro nel gioco della borghesia italiana, fin dal giugno 1940, se non prima ancora: come si sarebbe comportata la borghesia italiana, qualora la guerra di Abissinia avesse portato ad uno scontro con la Gran Bretagna sin dal 1935 o dal 1936, e senza l’alleato tedesco  al proprio fianco?
Tra di essi, spicca il nome di Salvatore Gatto, vicesegretario nazionale dei Guf (Gruppo Universitario Fascista), che, insieme a Berto Ricci e a Roberto Pavese, fu uno dei più coerenti e intransigenti uomini di punta della campagna propagandistica antiborghese che, a partire dal 1939, si scatenò sulle pagine di «Critica Fascista» e di altri organi di stampa, di tendenza più o meno esplicitamente “sociale”.
Ecco, dunque, estrapolando qua e là, alcuni passaggi di Salvatore Gatto nel suo breve, graffiante, spietato saggio «Il borghese», che, pubblicato nel 1941 (anno XIX dell’era fascista) nei «Quaderni di Mistica fascista»:

«Il borghese è pentito d’essere nato. Su lui incombe, veramente come un marchio, il peccato originale. Egli porta su di sé la colpa di vivere. Comincia con il maledire la sua nascita: non sa perché sia nato. Ignora quale scopo abbia la sua vita.
Il borghese vive alla giornata.
La strada è tutta percorsa per lui prima che parta. Egli è rimasto fango: l’alito dell’anima non lo ha toccato e non lo ha fatto uomo. È rimasto in fondo all’abisso; pigro, indolente, accecato, non vede la luce che sta sopra e oltre.
La vita del borghese è in archivio, agli atti.
Il borghese nasce per quietamente vivere e quietamente morire. Con la sua nascita non ride il mondo e non ridono le cose, Chi gli ha dato la vita stessa pensa già al peso, alle rinunce che comporta, al prezzo che costa.
Il borghese nasce maledetto: la ristrettezza diventa la sua ragione di vita; non può concepire più alcunché di illimitato e di eterno. Nasce con la palla di piombo al piede. [p.25]
La famiglia del borghese è cementata dal quieto vivere e dall’interesse: non dall’amore e dalla stima. Tutto a casa costa meno che fuori.
Il borghese ha la gonna. È un casalingo. È sempre dominato e comandato da una donna quando ce l’ha. La moglie del borghese è saccente e imperiosa. [p. 29]
Il borghese si adatta. Nessun animale è più domestico e più addomesticabile del borghese. Per lui l’adattamento è lo spirito di conservazione. Egli è l’empirico puro: accetta lo stato di fatto bruto e non si pone dei perché. [p. 35]
Il borghese è un malinconico. Si considera un defraudato. Ha sempre qualcosa da criticare, ha sempre da borbottare, da frignare. Niente lo contenta. È sempre insoddisfatto di tutto, di ciò che lo interessa e di ciò che non lo interessa, di quello che conosce e di quello che non conosce: fa sempre le sue riserve, per principio. È lo scontentone.
La diffidenza e l’indifferenza sono il suo abito. [p. 39]
Il borghese è una somma di abitudini. L’abitudine è la sua legge suprema: vince anche la legge scritta.
Disprezza le abitudini degli altri: soltanto le sue sono le vere, le essenziali, le eterne.
Le abitudini al borghese non costano alcuno sforzo morale o intellettuale: egli vi si adagia. Non si domanda mai perché esistano, chi le ha poste e quando sono nate. [p. 43]
Il borghese è pieno di bisogni materiali. È per questo uno schiavo e il bisogno è il suo re. Egli ha appetito; ha gli appetiti. È un egoista: esiste soltanto lui con i suoi desideri. [p. 45]
Il borghese è per il piacere fisico, per la soddisfazione sempre più alta dei suoi bisogni materiali, e per questo insegue sempre il denaro. È in genere materialmente un soddisfatto. [p. 47]
L’interesse per il borghese non è una parte della vita: è tutta la vita. L’interesse per lui è una legge di natura. [p. 49
]Il borghese ha desiderio di guadagnare e di arricchire. Non è per il guadagno turbinoso: è per l’utile calmo, per quello che gli garantisce anche il di là del comodo.
Il Dio del borghese è il denaro. Il denaro è per lui la ragione e il fine di ogni cosa, materiale e immateriale. È la misura del mondo. [p. 51]
Il borghese non può essere altruista. Non vede al di là della propria pancia: è egocentrista. Non fa niente per niente. [p. 55]
Il borghese non ha amicizie. L’amicizia è un moto dell’animo e il borghese è insensibile.
Egli è l’amico di se stesso, non può amare atri più di se stesso. Ha l’amicizia delle sue abitudini.
I suoi amici sono le cose, mai gli uomini. [p.  57]
L’anima per il borghese non esiste.
Il problema dell’immortalità dell’anima per lui non ha alcun valore.  Il borghese non può credervi. È contro la sua natura.
Tutto ciò che non può vedere e non può toccare è il nulla. Il sentimento è per il borghese una anomalia, una deviazione. Egli non sa che il sentimento costruisce, dove la ragione distrugge. La filosofia, anche come elementare spiegazione delle cose, lo scoccia prima che interessarlo. [p. 63]
Il borghese non ha un ideale. Non può essere né eroe, né santo. Egli è un metodo. [p. 65]
Il borghese può avere dell’ingegno, raramente dell’intelligenza. [p. 67]
Il borghese ama l’apparenza. Vuole soltanto apparire e non essere: l’essere è impegnativo, l’apparire è cangiante.
Per sua tranquillità ha bisogno di sentirsi vario, liquido, duttile, malleabile, adattabile. Non ha amor proprio. È viscido, gesuitico.
Non ha e non può avere carattere. La fermezza non è di sua natura. La sua spina dorsale è do gomma elastica. L’austerità e la dignità non sono il suo pane quotidiano: è un versi pelle. [p. 69]
Il borghese è adulatore per il tempo indispensabile a raggiungere e a ottenere quanto desidera. Egli non loda alcuno. [p. 71]
Il coraggio non è del borghese. Il borghese non osa mai. Non vede più in là del suo naso, non fa mai il passo più lungo della gamba. Non crede nel successo. [p. 79]
Il borghese è nemico del lavoro. È indolente, infingardo, vive immerso nelle sue abitudini. […]
Il sudore fa schifo al borghese.  Egli disprezza il lavoro manuale: casomai è per le contemplative fatiche della mente. L’ebreo è in genere un borghese: non vi sono ebrei che vivono con il sudore della fronte. [p. 83]
Il borghese è segretamente un affarista, perché l’affarismo conduce al denaro: egli vuol possedere.
E se l’affarismo non vuol scrupoli o rimorsi  di coscienza, il borghese dice che chi ha scrupoli e casi do coscienza è un fesso, che non sa vivere e che avrà tempo di pentirsi della sua onestà. [p. 85]
Quando il borghese è industriale o commerciante,  la sua industria od il suo commercio sono basati sulla fregatura. Quando frega il cliente si frega le mani.
Se è capitalista concepisce il lavoro come merce e l’operaio un pezzo della macchina: spesso anche di meno.
Ha di regola il denaro in banca,  di preferenza nelle banche garantite dallo Stato: non vuole scherzi. [p. 87]
Il borghese è contro la guerra. Non ama il rischio e il pericolo. Il destino degli uomini non è per lui la lotta e nella lotta.
La vita eroica per lui non ha senso.
È un imboscato. [P. 91]
Il borghese non ha patria. Nasce per uno strano caso con una patria. La sua patria è la pancia. Egli ha dei diritti non dei doveri. [p. 93]
Il borghese non crede nella politica. Per lui è un trucco, un inganno: egli ha scacciato la morale dalla politica, e per questo non capisce e non può capire più niente. Egli la considera un intrigo. [p. 95]

Potremmo continuare, ma crediamo che basti.
Dietro questa prosa greve, monotona, ossessiva, si colgono umori e orientamenti che presentano una certa quale aria di famiglia con il «Libretto Rosso» di Mao Tze Tung e, prima ancora, con il «Manifesto del Partito Comunista» di Marx ed Engels.
Del resto, si può facilmente sentire che il borghese di cui parla, con tanta acredine, Salvatore Gatto, non è il borghese in generale; non è, ad esempio, il borghese inglese o americano; ma è il borghese italiano, con il suo amore per la vita comoda, la sua paura del rischio, la sua propensione a ricorrere all’appoggio dello Stato.
Si può anche capire che il borghese di cui parla non è il membro di una classe sociale (che è, semmai, l’alta borghesia e non quella piccola o media), ma un carattere psicologico, una inclinazione, uno stato d’animo; quasi una categoria metafisica.
È comprensibile che, nel momento in cui il regime fascista si accingeva a lanciare il guanto della sfida al «popolo dei cinque pasti» e (come recitava un filmato cinematografico di propaganda relativo a Winston Churchill e alla Battaglia d’Inghilterra) al «mostruoso egoismo» della City londinese, esso doveva mobilitare al massimo tutto ciò che, nella società e nella cultura italiana, era implicitamente o esplicitamente antiborghese, o suscettibile di divenire tale. Si trattava, però, di un’operazione assai problematica, dopo che per vent’anni il fascismo aveva stretto un patto di ferro con gli agrari, con la grande industria e con l’alta finanza: vale a dire, proprio con quella detestata borghesia che adesso, a parole, esso voleva fustigare e additare al pubblico disprezzo, come tipico esempio di mentalità non patriottica e perfino poco nazionale.
Infatti, date le premesse, si trattava di una operazione che presentasse una sia pur piccola probabilità di successo?
In altri termini: dopo aver stipulato un accordo strategico con la grande borghesia ed aver fatto con essa solidi affari; dopo aver messo nel cassetto, per una serie di ragioni, la dimensione popolare e proletaria del fascismo: poteva ora il fascismo trascinare il Paese in guerra contro le massime potenze della borghesia mondiale, ed aspettarsi che la borghesia di casa propria lo seguisse in una tale svolta anticapitalistica e “socialista”?
Rispondere a questa domanda, significherebbe rispondere anche a molte questioni relative alla storia dell’Italia nei decenni successivi, fino ai nostri giorni.