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Il «Manifesto antimoderno» di Luigi Iannone

di Francesco Lamendola - 17/11/2010


È uscito per i tipi dell’Editore Rubbettino e con prefazione di Marcello Veneziani il «Manifesto antimoderno» di Luigi Iannone.

È un saggio sciolto, essenziale, quasi scabro, che rifiuta ogni fronzolo letterario per andare dritto al cuore del problema, quasi con il pudore di chi non vuol ripetere cose già dette, ma esternare un intimo cruccio, una pensosa perplessità e, se possibile, individuare delle possibili soluzioni, delle possibili vie d’uscita.

Non è il “solito” malessere dell’intellettuale conservatore davanti a un mondo che cambia troppo in fretta, e non sempre in meglio; e non è neppure la “solita” frustrazione dell’uomo di lettere e di pensiero davanti a una società dominata dalla tecnica, che sembra non saper più che farsene del suo sapere, del suo senso del bello, della sua ricerca del vero e del giusto.

È molto di più: una sintesi onesta, lucida, impietosa del “male di vivere” nel clima culturale della modernità; un libro, come direbbe Nietzsche, «per tutti e per nessuno»: quasi un vademecum del pellegrino dai piedi piagati, che continua a camminare sulle strade spinose e assolate di una terra desolata, dalla quale sono fuggite le antiche divinità, ma che nessuna delle nuove ha saputo sostituire degnamente, trasmettendo agli uomini un messaggio di speranza.

Con una sintassi nervosa, quasi sincopata, Iannone percorre le vie del disagio della realtà, della morte della bellezza, del tempo e della storia, del predominio della tecnica, in un itinerario disincantato e, a volte, sconsolato, che spazia dalla filosofia alla letteratura, dal cinema alle arti figurative, dalla sociologia alla parola poetica, sempre alla ricerca del Sacro Graal di una possibile salvezza e non già con il cupo e sterile compiacimento del pessimista, che vede confermate dalla realtà le sue più fosche previsioni.

In questo senso, e paradossalmente, il libro di Iannone vuole essere anche un libro di speranza: non nel senso, facilmente consolatorio, che pretenda di offrire delle soluzioni già belle e pronte davanti al vicolo cieco di questa tarda modernità; ma in quello di sollecitare nel lettore una personale riflessione su quanto bisognerebbe fare, incominciando probabilmente dal proprio “piccolo”, dal quotidiano, da ciò che è apparentemente “minimo”, per oltrepassare gli effetti nefasti di un una delirante ideologia del progresso illimitato e recuperare il senso della misura verso noi stessi e verso il mondo che ci sta intorno.

Ci sentiamo, quindi, di consigliarne la lettura a tutti coloro i quali, pensosi della nostra crisi attuale, ma non intimamente rassegnati, non cessano di interrogarsi sulle cause che ci hanno condotti al punto presente e sulle possibili alternative ad un modello di sviluppo senz’anima e senza lungimiranza, che trae origine da una “hybris” e da un patto faustiano dell’uomo moderno con delle forze oscure più grandi di lui, che egli non è più in grado di controllare.

Eloquente la conclusione della intensa, penetrante meditazione di Iannone intorno ai mali della modernità, che riassume un po’ tutti i temi da lui toccati nel corso della sua ampia, seppur concisa panoramica storico-filosofica(pp. 162-63):

 

«La questione è se questo sia un processo governabile: cioè se ha senso opporsi o far mutar corso alla globalizzazione che ora raggiunge l’apogeo dell’autoreferenzialità. Ciò può accadere solo in un quadro identitario forte e soprattutto quando non vi siano migrazioni massicce da un luogo all’altro della Terra: entrambi, però, sono elementi che collidono con il processo di globalizzazione. Sul piano dell’ingegneria costituzionale e istituzionale, le strade da percorrere sono molteplici: Habermas ha ritenuto di superare l’impasse ravvisando la soluzione in un organismo come le Nazioni Unite con una forza militare considerevole; Paul Hirst, al contrario, crede che gli Stati possano ancora agire nello scenario internazionale come dei “globe elctors”. Ma, in definitiva, la nostra può essere solo una resistenza cosciente, come l’ha definita De Turris. Certamente, non è utile rimestare nel gioco della utopia ma tentare di condizionare, anche con spirito provocatorio, ciò che ci sta più vicino, il nostro ambente. Ed è senza dubbio complesso ritrovare le ragioni di un impegno che parta da chi ti è più vicino, dalla polis e dalle fondamenta della politica e tentare di ricostruire legami di solidarietà, perché guardare alla tradizione significa rivolgersi a un sapere selezionato mentre la modernità apre al lassez faire” ed è totalizzante: delle piccole comunità, o piccole patrie, che dovrebbero lentamente mettersi in contatto con il resto, non sa che farne. Di fronte a questo pervadente cosmopolitismo su base individualistica che provoca disgregazione dovremmo reinventarci una nuova cultura partecipativa e, sul tempo medio, le tesi schmittiane di grandi spazi omogenei per storia, tradizioni e cultura possono essere un’ipotesi condivisibile, anche se i primi vagiti dell’Europa non segnalano nulla di buono.

Dunque, non sono certo che questo declivio possa essere evitato, né che il nuovo possa passare solo attraverso la dimensione del comunitario perché ciò richiederebbe anche una rivoluzione di stili di vita che non è più possibile perché, oggi, la realtà resta solo quella PERSONALE. Pare avvilente ma condivisibile la tesi di Emanuele Severino, per il quale l’utopia della politica si è già realizzata visto che la politica non c’è più e il dominio della Tecnica è la realizzazione dell’utopia della politica. È pur vero che la crescita infinita, come ogni frutto umano, ha avuto un inizio e avrà una sua fine, e quindi arriverà un momento di implosione, ma la questione non è il capitalismo o il mercato ma la Tecnica e, di conseguenza, un intellettuale come Habermas pecca di ingenuità quando afferma che per tener sotto controllo la potenza tecnica basterebbe un maggior controllo pubblico. Mi rendo conto che in questo modo si corra il rischio di cadere in uno storicismo di risulta, in un inconsapevole postmodernismo per il quale l’età della Tecnica è irreversibile e dobbiamo adagiarci in essa. Ma la Tecnica non è un surrogato: è l’idea. Perciò, quando Ernest Jünger, nel massimo gradi di potenza tecnica, cioè nello spiegamento di tutta la fascinosità della Tecnica che sembra così prossima al niente, insomma nella fase finale, riconosceva un implicito preludio a una nuova spiritualità, non fa altro che tentare di attraversare e quindi andare oltre il nichilismo. Perché, per dirla con Hölderlin, “là dove sta il, pericolo, cresce anche ciò che salva”.»

 

E con queste parole di speranza, sia pure venate di malinconia e pervase da una dubbiosità che ne rende problematica l’applicazione, si chiude il saggio di Iannone.

Come la sentinella insonne sugli spalti della cittadella assediata, egli ha voluto lanciare un grido di allarme davanti all’approssimarsi del pericolo, all’irruzione minacciosa dei barbari.

Ora è necessario che ciascuno di noi faccia la propria scelta: consapevole che nulla è irrilevante, in simili frangenti, di ciò che potrebbe contribuire alla comune salvezza.