Non è chiaro se il più pericoloso difetto degli italiani sia la vanità o l’astrattezza. Solo, infatti, con la vanità, o la testa nelle nuvole si spiega come mai mentre in Inghilterra, Spagna e Scandinavia il 50% degli studenti sceglie una formazione tecnica, da noi non si arriva neppure al 40%. Peccato, però, che soprattutto di tecnici hanno bisogno le industrie, il commercio, e i servizi: l’anno scorso cercavano 235 mila diplomati tecnici o professionali, ne hanno trovato la metà.
In compenso, migliaia di neolaureati rimangono disoccupati, o vengono assunti in posizioni precarie e sottopagate. Decine di migliaia, poi, si perdono nell’iter di studi faticosi e spesso per loro incomprensibili (licei e università), finendo con l’ingrossare un esercito di giovani che non lavorano, né studiano, drammatica incognita per il futuro del paese, oltre che per il loro.
A poco servono i richiami delle associazioni di imprenditori, indeboliti dalla mancanza di maestranze formate, e quelli degli stessi sindacati, paralizzati dall’assenza di personale che corrisponda al sistema produttivo.
Il mito del “pezzo di carta” (la laurea) rimane saldo, sostenuto soprattutto (a quanto risulta da ogni ricerca sul campo), dalle convinzioni delle famiglie, che preferiscono un figlio laureato dopo un lunghissimo iter scolastico, col rischio di restare disoccupato per anni, ad un figlio diplomato, e autonomo già prima dei 18 anni.
Il “mito laurea” è oggi smentito (tra l’altro) dalla versatilità di un’offerta di lavoro in continuo mutamento, che richiede ai giovani competenze pratiche ma anche duttilità, prontezza nel cogliere le nuove professioni (tutto il campo dell’elettronica e delle reti di comunicazione è in perenne movimento).
Gli studi superiori tradizionali, invece, con la loro lunga durata e relativa fissità di contenuti, rischiano di essere sempre scavalcati dagli sviluppi del mercato e delle nuove tecnologie. Licei e lauree oggi sono adatte soprattutto a chi è fortemente determinato a conseguirle, per suoi precisi e riconosciuti interessi; altrimenti è più formativo un rapido tuffo nel “mercato del lavoro”, che sviluppi le qualità della persona, premiando la grande elasticità della mente giovanile e la sua capacità di adattamento.
Adattamento, però, è diventata una parola proibita, impronunciabile. E’ come se il nostro paese, con la sua secolare tradizione di povertà eroica, dopo aver sperimentato il benessere si sia convinto che il denaro abbia decretato la fine della necessità di adattarsi alla vita, e inaugurato il tempo in cui è la vita che si deve adattare ai desideri dell’uomo. Non è così.
Questo rifiuto dell’adattamento alle possibilità reali sta tra l’altro distruggendo un settore storicamente importantissimo per la civiltà italiana, e dotato di grande possibilità per il futuro: l’artigianato. La bottega artigiana, con le sue straordinarie capacità di adattamento ai materiali, e di valorizzazione delle idee, è un luogo di produzione estremamente versatile ed è l’unico in grado di fare concorrenza, con prodotti fini e personalizzati, alle multinazionali standardizzate sui gusti e bisogni del consumatore medio.
I nostri grandi stilisti di moda, tutti partiti da una formazione artigianale (e molti rimasti ad essa fedeli), dimostrano appunto le enormi possibilità dell’Italia in questo campo (come del resto tutto lo sviluppo del turismo di qualità e “di alta gamma”). Ciò chiede però di metter da parte le fantasie di onnipotenza, e di guardare la vita, il mondo, adattandovisi. Un’operazione economica, ma anche artistica. Di sicuro successo.