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"Così mio marito ricordava il Gulag"

di Marina Zavada, Jurij Kulikov - 13/12/2010




"Lavorava sempre, la sua era una frenesia continua Pensava di essere sempre in ritardo"
"Ogni anno, il 9 febbraio, celebrava il suo arresto concedendosi solo pane e acqua"

Mosca. C´è un libro nel cassetto di Natalja Solgentsyna. Si chiama Diario di un romanzo e suo marito, il premio Nobel Aleksandr Solgenitsyn, l´autore di Arcipelago Gulag, aveva passato tutti gli ultimi anni della sua vita a chiedersi se valesse la pena pubblicarlo. «Una sera gli diede un´ultima lettura e mi guardò a lungo - racconta la signora Natalja nel salotto senza tende della casa nel bosco di Troitse-Lykovo - Era soddisfatto. Da allora ci lavoro ogni giorno. Piccole correzioni, qualche ripulitura. Prima o poi lo darò alle stampe. Glielo devo».
Di cosa si tratta?
«È un diario di lavoro. Gli appunti che prendeva mentre scriveva il ciclo della Ruota rossa, la storia della Rivoluzione del ´17. Appunti sulla difficoltà di trovare documenti originali, l´indignazione per i tanti falsi testimoni che raccontavano una verità di regime e che lui smascherava. Ma è interessante anche la parte tecnica, la ricerca negli archivi, le lunghe chiacchierate per strappare un paio di informazioni utili...».
Sabato suo marito avrebbe compiuto 92 anni. Fino al giorno della sua morte aveva continuato a lavorare 10 ore al giorno. Era un´esigenza o un´ossessione?
«Tutte e due le cose. Certamente hanno influito gli anni duri del gulag. Ma dal nostro ritorno a Mosca nel ´94, era come se sentisse passare il tempo troppo velocemente. Se venivano ospiti, ci piantava in asso dopo un po´ e andava a chiudersi nel suo studio. Non voleva sprecare un solo minuto. Una volta mi rimproverò perché andavo troppo spesso ai concerti. Così non finiremo mai tutto quello che c´è da fare, mi disse».
E cosa c´era da fare?
«Leggere, correggere, progettare nuove opere. Una frenesia continua, la sensazione di essere sempre in ritardo».
Una frenesia che lo portava a innervosirsi?
«Difficile capire quando fosse veramente irritato. Dai tempi del gulag aveva acquisito uno strano autocontrollo, non perdeva mai la pazienza. Al massimo, quando qualcosa non gli andava bene era capace di tacere per giorni interi. Senza astio né polemica. Solo un pesantissimo silenzio che rompeva solo quando gli era passato il malumore».
Gli fecero male i piccoli insuccessi del suo ritorno a Mosca? Per esempio lo scarso successo delle sue apparizioni televisive, la freddezza del pubblico...
«Si era preparato alla cosa. In una delle ultime interviste a una tv francese disse che chi propone grandi riforme non è mai molto amato nel proprio Paese. E poi il successo e la mondanità non gli sarebbero mai piaciute».
Era dunque un uomo malinconico, forse anche cupo?
«Sentiva bisogno di pace. Amava i silenzi. Passava ore davanti a queste finestre, anche nel buio dell´inverno. Si perdeva a fissare i larici, i pini. Diceva che non c´è niente di meglio che sentirsi così sprofondato dentro la natura. Per questo odiava le tende».
Reclusi in un bosco. Che tipo di vita facevate?
«La vita di due persone che si stimano e si rispettano. Ci godevamo le comodità che finalmente potevamo permetterci senza cercare altro. Tranne che in un giorno».
Quale?
«Il 9 febbraio. Era un anniversario particolare. Quello del suo arresto nel 1945 e l´inizio della sua odissea personale. Quel giorno riproduceva la vita del gulag. Si concedeva solo un tozzo di pane raffermo, un bicchiere d´acqua e una speciale zuppa di latte senza latte come quella che veniva data ai detenuti».
Si commuoveva nel ricordare quegli anni?
«No. Negli anni la cosa diventò quasi un rito di purificazione spirituale. Alla sera era proprio ridotto come un internato. Lo sorprendevo a leccare il piatto e raccogliere mollichine anche per terra. Diceva che per ricordare veramente le sofferenze materiali, bisognava assolutamente riviverle».
Culto della sofferenza, dunque?
«No, affatto. Parlavamo poco della morte, ma una volta mi disse che infelicità, dolore, rabbia non avevano cambiato molto le cose. Devo ammettere che fui sorpresa quando concluse: in fondo in fondo ho avuto un esistenza felice. Un attimo di silenzio, poi ci facemmo una bella risata liberatoria».
(Copyright Izvestia - la Repubblica)