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Nei suoi versi perfetti e commossi Lesja Ukrajinka cantò la sofferenza della patria

di Francesco Lamendola - 28/12/2010




Fra tutte le letterature slave, quella in lingua ucraina è, insieme alla bielorussa, la meno nota in Occidente, ove a fatica sono conosciute, oltre alla russa, quella polacca, la cèca (con l’appendice di quella dei Sorabi o Serbi di Lusazia, isola linguistica slava in pieno territorio tedesco orientale) e, in misura assai minore, la slovacca.
In genere, in Europa occidentale si pensa all’Ucraina come a una regione che si è distaccata dalla Russia principalmente per effetto dello scoscendimento geopolitico verificatosi con la dissoluzione dell’Unione Sovietica; o, al massimo, il pensiero corre alla prima guerra mondiale, quando l’ataman Skoropadskij creò una effimera Repubblica ucraina sotto l’egida degli Imperi Centrali, cui seguì il caotico governo dell’ataman Petljura; indi, fallito il tentativo del leader polacco Pilsudski di creare una vasta federazione tra Polonia, Lituania, Bielorussia e Ucraina, facendo in pratica rivivere l’antico Regno di Polonia nei confini del XVII secolo, a qualcuno verranno forse in mente  i vaghi progetti secessionisti fomentati dai Tedeschi durante la seconda guerra mondiale.
In realtà, l’Ucraina ha sempre avuto una storia distinta da quella russa, così come distinte sono la sua cultura, la sua lingua e la sua letteratura; e, se le radici delle ultime due sono comuni - tanto che il più famoso epos nazionale del Medioevo, il «Canto della schiera di Igor», è comune alla due letterature -, e se Kiev è, storicamente, la madre di tutte le città russe, poi le due lingue si sono gradualmente diversificate, finendo per assumere caratteri ben distinti.
Per tre volte nella sua vicenda storica, dopo la fine del dominio dei Tartari e dei Turchi, l’Ucraina dovette subire dei minacciosi tentativi di snazionalizzazione o, quanto meno, delle formidabili pressioni culturali, che avrebbero potuto mettere seriamente in pericolo la sua specificità: sotto il dominio politico della Polonia, nel XVI e XVII secolo; sotto il dominio russo, nel XVIII e XIX secolo; e, infine, sotto il dominio sovietico, al termine della guerra civile del 1918-1921, che qui vide le imprese del generale Denikin e poi del generale Wrangel, contro l’Armata Rossa di Trotzkij (cfr. Il nostro precedente articolo «La battaglia sull’Istmo di Perekop», inserito sul sito di Arianna Editrice in data 27/12/2008).
Ogni volta la lingua ucraina - e, con essa, la letteratura -  riuscì a resistere e a risorgere, non senza aver corso seriamente il rischio di scomparire o, quanto meno, di retrocedere al livello di semplice dialetto; e ciò specialmente al tempo della dominazione zarista, che si sforzò in ogni modo di russificare quella vasta e preziosa regione cerealicola. Il maggior fattore di resistenza culturale fu rappresentato dal clero ortodosso, che creò centri di studio e curò pubblicazioni in lingua ucraina, riuscendo a sventare sia, in un primo tempo, la polonizzazione, sia, in un secondo tempo, la russificazione.
Tuttavia, in almeno due momenti sembrò che per la lingua e la letteratura ucraine fosse imminente la fine: una prima volta tra la fine del 1600 e l’inizio del 1700, nonostante l’opera cospicua del filosofo e teologo Hryhorii Skovoroda, che fu anche notevole poeta (1722-94); e una seconda volta nella seconda metà del 1800, allorché il governo zarista giunse al punto di vietare per legge ogni pubblicazione in lingua ucraina (1863).
Nella prima di queste due drammatiche circostanze, la lingua e la letteratura ucraine vennero salvate dall’opera del poeta e drammaturgo Ivan Kotjarevski (1769-1838), che diede loro nuova linfa e nuovo vigore, nonché dalla fondazione dell’Università di Kharkov (nel 1805) e, più in generale, dal diffondersi del panslavismo romantico, politicamente indirizzato in senso liberale e proteso alla valorizzazione delle culture e degli idiomi locali. In questo clima di rinascita nazionale fiorì la maggiore personalità poetica dell’Ottocento, quella di Taras Sevčenko (1814-61), che fu, al tempo stesso, il massimo campione del romanticismo ucraino.
Nella seconda circostanza, ciò avvenne grazie ad un imponente fenomeno di emigrazione intellettuale verso la Galizia austriaca, che preservò, in una regione abitata in buona parte da Ucraini, ma non sottoposta al regime zarista, i caratteri nazionali, in una sorta di letteratura dell’esilio, di cui i maggiori rappresentanti furono lo scrittore Ivan Franko (1856-1916) e  lo storico e studioso del folklore Mikhail Dragomanov (1841-1895).
Al tempo stesso, nella seconda metà del XIX secolo vissero e operarono alcuni intellettuali ucraini che scelsero di rimanere in patria e di tenere viva la fiaccola dello spirito nazionale, affrontando tutte le difficoltà, anche di tipo repressivo, che il governo zarista metteva in atto nel perseguimento del proprio disegno di snazionalizzazione dell’Ucraina. Si tratta di un gruppo di saggisti, di narratori e di poeti, che si mossero all’incrocio fra echi del naturalismo francese e del romanzo realista russo, da una parte, e suggestioni del decadentismo e del simbolismo, sempre di origine francese; vale a dire in un decisivo punto di svolta della civiltà letteraria europea.
Fra essi si ricordano particolarmente i romanzieri d’impronta realista Ivan Nečuj-Levickij (1838-1918), Mihail Kočjubinskij (1864-1913) e soprattutto Panas Mirnyi (1849-1920), il cui vasto romanzo storico «La meretrice», del 1883, si può considerare, per l’intensità dell’epos nazionale, come l’equivalente della “trilogia del Diluvio” del polacco Henryk Sienkiewicz; il prosatore e drammaturgo V. Vinničenko (1880-1951), che fu anche, con S. Petljura, protagonista della stagione politica della prima indipendenza ucraina, all’epoca del trattato di pace (detta «del pane») con la Germania e l’Austria-Ungheria del 9 febbraio 1918 (cfr. anche Henry Cord Meyer, «Germans in the Ukraine, 1918»); e, ultima ma non certo meno importante, la poetessa Lesja Ukrajinka (1871-1913), la quale, ad un certo punto, finì quasi per impersonare la volontà stessa di riscossa della lingua e della cultura patria.
Alcune sculture in luoghi pubblici d’Europa tramandano la memoria di questa notevole figura di donna, di artista e di patriota, fra le quali un busto in bronzo davanti alla casa nella quale abitò, in via Saksaganskogo, a Kiev, ed un’altra a figura intera, sempre in bronzo, realizzata nel 1975 dallo scultore Mykhailo Chereshniovsky per lo High Park di Toronto, in Canada (il Paese nordamericano ospita un discreto numero di cittadini discendenti dagli immigrati ucraini e polacchi, emigrati colà fra il XIX secolo e l’inizio del successivo).
Ma chi era questa donna dalla forte tempra poetica e dal fiero sentimento nazionale, che tutte le immagini - statue e fotografie - raffigurano con lo sguardo intenso ed ardito, e nel costume tipico della sua terra, ivi comprese le collane e la caratteristica acconciatura dei capelli, raccolti in una lunga treccia?
Il suo vero nome era Larisa Petrovna Kosac-Kvitka ed era nata, in una famiglia aristocratica, a Novograd-Volynski nel 1871, per morire nel 1913, poco più che quarantenne, a Surami, una località montana della Georgia ove si era recata nel vano tentativo di tenere a bada la malattia tubercolare che la tormentò per tutta la vita e che finì per spegnerne l’indomita fibra, alla vigilia della prima guerra mondiale.
Benché di origini nobiliari, Lesja Ukrajinka - tale fu lo pseudonimo con il quale si fece conoscere nel mondo delle lettere, pseudonimo che è esso stesso un manifesto patriottico - fu vicina ai circoli rivoluzionari che ormai non si aspettavano alcuna riforma in senso autonomista da parte del governo zarista, ma e si erano orientati, nel corso dell’Ottocento, in senso sempre più radicale, fino all’esperienza rivoluzionaria del 1905 ed oltre.
Alla fine del 1800, benché gli Ucraini costituissero la più grande nazionalità dell’Impero zarista dopo quella russa (22 milioni e 400.000 persone nel 1897, pari al 17,41% della popolazione complessiva dell’Impero russo), la loro debolezza fondamentale era costituita dalla quasi inesistenza di una classe media e dalla russificazione della ancor piccola, ma significativa classe operaia, nonché dalla estrema povertà e arretratezza della classe rurale, formata in gran parte da contadini semi-analfabeti, politicamente poco consapevoli e vanamente speranzosi in una riforma agraria che potesse migliorare le loro precarie condizioni economiche.
La durissima repressione seguita alla rivoluzione del 1905 segnò la scomparsa dei partiti politici d’ispirazione nazionalista, costretti ad agire in clandestinità o a rivolgere tutte le proprie speranze sui confratelli della vicina Austria-Ungheria, i quali godevano di un regime politico, al paragone di quello russo, decisamente più liberale.
Nel 1910 gli Ucraini (o Ruteni) viventi nella Cisleithania, ovvero nella parte austriaca dell’Impero asburgico, e precisamente nelle province di Galizia e Bucovina, erano 3 milioni e 500.000 ed erano mediamente più alfabetizzati, più consapevoli ed economicamente meno poveri, di quelli viventi sotto il regime zarista; da essi proveniva una classe d’intellettuali molto più compatta e combattiva di quella esistente nell’Ucraina russa. In entrambe le province austriache, però, gli Ucraini, prevalentemente stanziati nelle campagne, si trovavano in minoranza numerica, sia pure di poco, rispetto ad un altro gruppo etnico, più cittadino e borghese, e quindi più influente in senso politico-sociale: rispettivamente quello polacco in Galizia e quello romeno in Bucovina.
Essendo l’elemento dominante nelle due capitali, Lemberg (L’vov o Leopoli) e Czernowitz (Cernǎuti o Cernovcy), i Polacchi nella prima, i Romeni nella seconda, si ponevano come gli interlocutori privilegiati del governo austriaco, il quale - peraltro - nella sua tradizionale politica del «divide et impera», tendeva a favorire, entro certi limiti, proprio gli Ucraini, per ostacolare il più maturo sentimento nazionale, potenzialmente centrifugo, delle due etnie maggioritarie; anche se, al momento della dissoluzione dell’Austria-Ungheria, proprio questa circostanza giocherà a loro sfavore (come del resto avverrà per gli Sloveni e i Croati delle zone rurali della Venezia Giulia e della Dalmazia, che il governo di Vienna aveva favorito a danno dell’elemento italiano, borghese e maggioritario nelle aree urbane).
Vi erano poi alcune popolazioni ucraine anche nella Transleithania, la parte della Duplice monarchia soggetta al dominio ungherese, specialmente nella cosiddetta Rutenia Subcarpatica (che nel 1918 passerà, con evidente forzatura, alla Repubblica cecoslovacca), ma poco numerose e meno evolute sul piano della coscienza nazionale, oltre che meno libere nella espressione della propria lingua e tradizione culturale.
La vita ed il percorso letterario di Lesja Ukajinka vanno inquadrati in questo complesso contesto storico-culturale, al di fuori del quale risultano poco comprensibili. La posta in gioco era la progressiva russificazione della cultura nazionale ucraina, tanto più minacciata, quanto più avanzava l’industrializzazione e l’immigrazione di operai russofoni, tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo, specie nella parte orientale del Paese, in prossimità del bacino carbonifero del Donez.
A soli nove anni, Lesja Ukrajinka compone la sua prima poesia, «La speranza», dedicata ad una zia esiliata in Siberia per motivi politici; l’anno successivo si ammala di tubercolosi ossea, la malattia che segnerà tutta la sua vita e che la condurrà, ancor giovane, alla tomba; malattia che, fra l’altro, limitandole gravemente l’uso della mano, la costringe ad abbandonare l’amato pianoforte e a rinunciare per sempre al sogno di diventare una compositrice.
Partecipa attivamente alle attività del circolo «Pleiade», fondato a Kiev, nel 1889, da alcuni giovani scrittori ucraini; nel 1893 dà alle stampe la sua prima raccolta di versi, «Sulle ali delle canzoni», che vede la luce nella Galizia austriaca, così come le due raccolte successive, «Pensieri e sogni», del 1899, ed «Echi», del 1902: nella sua patria, infatti, la censura zarista non permette la loro pubblicazione in lingua ucraina, in base all’assurda legge repressiva del 1863, di cui abbiamo già detto.
Intanto si fa conoscere e apprezzare dai suoi connazionali per alcune pubbliche letture, sia di opere proprie che di poeti ucraini del passato, acquistandosi un nome di tutto rispetto. Inizia pure i suoi viaggi all’estero, principalmente per motivi di salute, tra cliniche specializzate e luoghi di villeggiatura mediterranei: da Berlino a San Remo, passando per Tartu in Estonia; e, ovunque, trova l’ispirazione ed il tempo di scrivere, senza mai lasciarsi scoraggiare dai progressi del suo male o dagli ostacoli frapposti dalle autorità russe.
Inizia anche i suoi soggiorni nel Caucaso, ove concluderà la sua esistenza; e, nello stesso periodo, scopre la sua passione per il teatro drammatico, componendo opere notevoli, quali «La rosa azzurra», del 1896, e «Sulle rovine», del 1904; e raggiungendo i risultati più alti e il successo più grande con «Nelle catacombe», l’anno successivo, che esalta il moto rivoluzionario del 1905 contro l’oppressivo regime zarista.
Animatrice di circoli culturali miranti alla riscossa nazionale, partecipe in prima persona a manifestazioni di protesta antigovernative, fondatrice di una casa editrice “alternativa”, nel 1907 viene anche arrestata e trascorre una notte in carcere, senza però mai perdere la fede nella resurrezione della sua patria.
Negli ultimi anni compie due viaggi in Egitto, visita i Balcani al tempo delle guerre del 1912-13, torna nuovamente nel Caucaso; e intanto scrive, sempre per il teatro, «Cassandra» (1908), «Il canto dei boschi» (1911), «Il padrone di pietra» (1912) e «Orgia» (1913), con cui conclude la sua lunga e operosa attività letteraria. Notevole è anche la sua produzione critica e la sua attività di traduttrice dalle lingue straniere.
Pur non avendo potuto compiere degli studi regolari, infatti, a causa delle sue precarie condizioni di salute, Lesja Ukrajinka è una formidabile conoscitrice delle letterature europee, che legge nell’originale - dato che conosce la bellezza di otto lingue -, specialmente degli autori romantici inglesi e tedeschi, ma anche dei classici italiani e francesi e degli antichi greci. Traduce Omero, Dante, Shakespeare, Byron, Hugo, Goethe, Schiller, Heine; studia le opere di D’Annunzio e perfino della poetessa Ada Negri, sui quali scrive dei saggi che rivelano l’ampiezza delle sue conoscenze e la sicurezza della valutazione estetica. Ben pochi suoi connazionali, all’epoca - e, in verità, anche degli intellettuali dell’Europa occidentale - possono vantare una cultura letteraria paragonabile alla sua.
Così scrivevano Ugo Dèttore e Marta Rasupa in un’opera semplicemente straordinaria e forse mai più eguagliata, apparsa nel momento più buio della storia del Nord Italia: quella miniera di eccellenti profili storici e di antologie letterarie che la Casa Editrice Bianchi-Giovini di Milano dava alle stampe, in due volumi, nel 1944, raccogliendoli e trascegliendoli ad opera dei migliori specialisti italiani allora esistenti, sotto il titolo di «Le lettere. Panorama della letteratura universale» (vol. 2, pp. 1.041-43, nel capitolo «La letteratura ucraina»:

«La letteratura ucraina non deve essere confusa con la letteratura russa da cui differisce per la lingua e per lo spirito. Di fronte alla russa, la produzione letteraria di questa regione presenta caratteristiche più meridionali: è cioè più fervida ed esuberante, e anche il suo linguaggio, pur simile al russo, ha una maggiore sonorità e un colorito che l’avvicina talora a un dialetto.
Antiche sono le tradizioni letterarie dell’Ucraina: possiamo anzi dire che questa letteratura è la più antica fra le slave orientali. Il famoso “periodo di Kiev”, con il quale si fa di norma iniziare la letteratura russa, si svolge nell’Ucraina e costituisce in realtà il sorgere della letteratura ucraina. La cosiddetta “Canzone di Nestore” e il “Canto della schiera di Igor” sono i documenti più notevoli di questo periodo, sebbene le storie letterarie rivendichino unanimemente tali opere alla letteratura russa, e non a torto, poiché in quel periodo (XII-XIII sec.) le due lingue erano quasi indifferenziate e la continuità storica di questi inizi si svolgerà poi nella Grande Russia. […]
Ma le influenze occidentali dei movimenti di fin di secolo non rimasero senza echi, e già sugli inizi del nostro [ossia il XX secolo] Mykola Vorony (n. 1871) si affermava con una lirica cupa e pessimista in cui erano evidenti gli influssi del decadentismo. Questi motivi furono ripresi, e felicemente assimilati in una ispirazione che attingeva ancora ai più profondi sensi patri, dalla poetessa Lessia Ukrainka (1872-1913) che, in perfetta e commossa espressione, cantò le sofferenze della sua terra.»

Più specificamente, di Lesja Ukrajinka traccia questo profilo il grande studioso Giacomo Prampolini, nella sua monumentale «Storia universale della letteratura» (Torino, U.T.E.T., 1953, vol. VII, p. 388):

«Al principio del nostro secolo, Mycola Vorony (nato nel 1871 nella regione di Katerinoslav) , dopo una dimora in Galizia e una fruttuosa esperienza in compagnie teatrali, introdusse nella poesia ucraina, con articoli e con versi improntati a un tetro pessimismo, il mondo e l’estetica dei decadenti occidentali. Fu quello un passo decisivo sul cammino della modernità, anche se di taluni procedimenti tecnici non ebbe alcun bisogno per affermarsi Lessia Ukrainka (pseudonimo di Larissa Kossač, 1871-1913), la grande poetessa della patria schiava e delle sofferenze personali, sopportate con salda fermezza. Nei suoi versi, formalmente squisito, palpita una commozione contenuta, freme un incessante ardore di vincere l’umana fragilità; se talvolta l’effusione è pianto, subito dopo risorgono la speranza e l’energia. Quantunque la versione non possa rendere la melodia del testo, ecco una breve lirica, espressiva più delle stesse parole che la compongono:

Hei pidú ia u ti zéleny hory                          
de smereky homoniáty vysoki,
ponesú ia žali odynoki
tai puščú ikh u hirski prostory.
Kynu svoi žali,
na zeleni hali,
puščy borom svoiu tugu,
či ne naidú drugu…

Sì, salirò su verdi monti
dove gli abeti stormiscono alti,
porterò le mie pene solitarie
e le lascerò negli spazi montani.
Getterò via la mia pena,
su una verde radura,
lascerò ai pini la mia tristezza,
purché non ne trovi un’altra…

Con Ševcenko e Frankó, l’appassionata Lessia formò la triade rappresentativa della risorta poesia ucraina.»

Speriamo che questi pochi versi possano invogliare il lettore ad un personale approfondimento della lirica di questa grande poetessa ucraina, che unisce (un po’ come avviene nei sonetti di Ugo Foscolo ed anche, se ci è consentito l’arrischiato paragone, in Francesco Petrarca)  la cristallina chiarità del verso alla intensa, sofferta passionalità del contenuto.
La conoscenza delle letterature straniere, infatti, è - senza dubbio - una delle vie privilegiate per penetrare nell’anima dei popoli, al di là della omologante globalizzazione che oggi avanza minacciosa, in ciò che essi hanno di più specifico; e per comprendere meglio, in tal modo, anche il mondo in cui viviamo, amiamo, speriamo.