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Quando i vincitori scrivono la storia della filosofia: il caso di Francesco Orestano

di Francesco Lamendola - 13/01/2011

 

È molto probabile che il nome di Francesco Orestano non dica nulla di nulla al cittadino italiano di media cultura; e che altrettanto valga per la quasi totalità degli studenti universitari di filosofia, per non dire di quelli liceali.

Oppure, se per caso qualcuno di essi l’ha sentito nominare, siamo praticamente certi che ciò sia avvenuto da parte di qualche solerte storico della filosofia che si trova schierato dalla parte politicamente corretta, vale a dire quella dei vincitori, per additare l’Orestano al pubblico ludibrio, in quanto rappresentante di una filosofia non solo perdente, in quanto fiancheggiatrice del fascismo, ma anche in se stessa boriosa e ridicola.

Insomma, a questo pensatore della prima metà del Novecento è toccato un destino ancora più amaro della pura e semplice “damnatio memoriae”: il suo nome è divenuto quasi sinonimo di cattiva filosofia, di speculazione verbosa e delirante, da non prendersi nemmeno in seria considerazione, perché già sforzarsi di valutare onestamente le sue ragioni ed i suoi percorsi, significherebbe fargli un regalo che non merita.

Meglio deriderlo, dunque, puramente e semplicemente; meglio trascegliere, nella vastissima opera di questo filosofo, quei passi che più si prestano, isolati dal contesto, a tratteggiarne una figura non solo contraddittoria, ma velleitaria e quasi grottesca, anzi francamente caricaturale: un concentrato di ciò che un pensatore serio non dovrebbe dire mai e poi mai, neppure nei momenti di passeggera esaltazione per questo o quel sistema sociopolitico.

Insomma, si possono perdonare a Voltaire le sue penose semplificazioni della filosofia di Leibniz, a Fichte i suoi deliri pangermanisti e ad Hegel le sue farneticazioni sul pensiero che crea l’essere e sulla marcia trionfale dello Spirito nella storia, magari calzando gli stivaloni dei granatieri di Pomerania; ma a Francesco Orestano non si può in alcun modo perdonare di aver creduto nel fascismo e in Mussolini, di aver conosciuto un itinerario speculativo lungo e travagliato, di non aver chiesto scusa a nessuno quando la sua causa venne sconfitta e di non aver cercato di riciclarsi tra le file dei vincitori, come tanti suoi colleghi fecero con somma disinvoltura, magari mettendosi al seguito di quel Partito comunista che sognava di instaurare in Italia un regime al cui confronto il totalitarismo fascista avrebbe fatto semplicemente sorridere.

E poi, Orestano non era mai stato nemmeno crociano: peccato veramente imperdonabile nella provincialissima cultura filosofica italiana del primo Novecento, dove chi non era crociano o, quanto meno, non aveva mai subito il fascino del Verbo di don Benedetto da Pescasseroli, né dell’idealismo rimasticato da Hegel, come fosse la più grande novità immaginabile all’epoca, poteva star certo di trovarsi chiuse molte porte, da quelle dell’università a quelle delle principali case editrici.

Anticrociano, antigentiliano, filofascista, dapprima vicino al Positivismo e super-realista e, da ultimo, orrore degli orrori, riavvicinatosi alla dimensione religiosa: si potrebbe immaginare un percorso più politicamente scorretto, più indecentemente provocatorio, specialmente dopo quel fatidico 1945 che ha stabilito una volta per tutte - complice la Democrazia Cristiana - che la vera cultura italiana è quella di sinistra o, almeno, quella che (Gramsci insegna) riconosce, da sinistra, il proprio debito con il liberalismo e con l’idealismo, il proprio debito con Hegel e Croce, come il ragazzo ormai cresciuto che smette di portare la giacchetta di papà, ma gli è grato di averlo così tenuto al caldo nell’inverno?

In fondo, ad Orestano è anche andata bene; basti pensare al destino di altri intellettuali, di nulla rei se non di essere rimasti fedeli al fascismo anche nell’ora più tragica: come il filologo Goffredo Coppola, fucilato a Dongo insieme al Duce e il cui cadavere, insieme a quello di lui, subì il supremo oltraggio di Piazzale Loreto, a Milano.

Ma chi è stato, dunque, Francesco Orestano?

Invano cercheremmo il suo nome nelle pagine delle principali enciclopedie, per non parlare delle storie della filosofia: il «Dizionario biografico degli Italiani» della Treccani lo liquida in pochissime righe, limitandosi a dire, molto sommariamente, che «fu assertore di una forma di realismo positivistico», affastellando i titoli di tre o quattro delle sue opere; i manuali di liceo, come quello dell’Abbagnano, lo passano totalmente sotto silenzio.

Siciliano, Orestano nacque ad Alia, in provincia di Palermo, il 14 aprile del 1873 - in pieno clima post-risorgimentale, dunque, avrebbe detto il Pirandello de «I vecchi e i giovani» - e morì a Roma ,a settantadue anni di età, il 20 agosto del 1945.

Laureatosi in Giurisprudenza presso l’Università di Palermo, nel 1896, si trasferì poi in Germania e conseguì anche la laurea in Filosofia, alla prestigiosa Università di Lipsia. Tornato in Italia, insegnò Filosofia morale all’Università di Roma prima, a Palermo, poi.

Fu vicino a Filippo Tommaso Marinetti e alle idee del Futurismo, collaborando con lui su varie riviste; indi si accostò al fascismo e iniziò a collaborare con la rivista politica e culturale diretta dallo stesso Benito Mussolini, «Gerarchia». Fu anche in Libia, su invito del governatore di quella colonia, Italo Balbo, e sostenne la specificità del colonialismo fascista, distinguendone le ragioni da quelle del nazionalismo.

A partire dal 1924 si ritirò a vita privata, nella sua casa di Roma, attendendo alla stesura delle sue opere - una produzione cospicua,  che comprende non mano di ottanta titoli – e, in particolar modo, ai «Nuovi principi» (Roma, Edizioni Optima, 1925). Negli ultimi anni del regime e durante la seconda guerra mondiale si ritrasse ancor più in disparte, senza più cercare riconoscimenti, anzi, dimenticato e in povertà. E in povertà si spense, poco dopo la fine del conflitto, tutto assorto in una ritrovata, profonda fede religiosa.

Basterebbero già questi pochi cenni per capire subito che non ci troviamo di fronte a un personaggio vanitoso e opportunista, come, poi, la Vulgata democratica e resistenziale lo volle dipingere, dato che si voleva ad ogni costo far coincidere la sua parte politica con il Male assoluto (interpretazione che, appena un po’ riveduta e corretta, è stata ultimamente adottata proprio da quel Gianfranco Fini che aveva raccolto l‘eredità politica della destra di Giorgio Almirante).

L’itinerario filosofico di Francesco Orestano si può dividere, grosso modo, in due fasi principali. Nella prima egli opera una sintesi di fenomenologia, empiriocriticismo e positivismo, soprattutto in senso herbartiano, alla luce di una profonda istanza di tipo etico; sintesi che egli stesso definì “super-realismo”. Nella seconda, egli rivalutò la dimensione della trascendenza e, proprio sulla base del suo radicato eticismo, valorizzò al massimo il significato del fenomeno “vita”, ma anche del sacrificio in nome dell’idea, non contraddicendo, ma sviluppando temi ed esigenze da sempre presenti nel suo pensiero.

Crediamo vi siano poche ragioni per dubitare che l’oblio calato sul suo nome e sulla sua imponente opera sia direttamente collegato alla sua militanza politica fascista, che egli visse come esigenza di protezione, da parte dello Stato, della vita e dei suoi diritti, specialmente quelli dei più deboli (che gli antifascisti ci credano o no, non tutti i fascisti erano squadristi e propugnatori dell’olio di ricino); o, meglio, al fatto che egli non pensò di abiurare quel suo antico credo, né di chiedere scusa a motivo di esso.

Tale, dunque, il personaggio.

Se ci si vuol fare un’idea della spocchiosa e velenosa malevolenza, della facile ironia, della sottile perfidia, della imperdonabile viltà e faziosità con cui i Soloni della cultura liberaldemocratica si accanirono contro la memoria di Francesco Orestano, è sufficiente prendere in mano le «Cronache di filosofia italiana» di Eugenio Garin (Bari, Laterza, 1966, vol. 1, pp. 137-49), da cui riportiamo solo alcuni passaggi, affinché il lettore possa farsene un’idea e giudicare secondo coscienza.

 

«Accademico d’Italia fin dalle origini di quell’istituto, oggi è poco più che uno sbiadito ricordo, e, se si vuole, un aneddoto nella storia della cultura italiana di provincia, anche se, nel 1937, v’era chi scriveva [cioè R. Miceli di Serradileo] che “in un lontano domani quando si cercheranno gli esponenti più significativi del tempo nostro nel campo della filosofia, il  nome di Orestano figurerà appunto nella lista di coloro che hanno saputo lasciare di sé un’impronta non facilmente delebile. La sua nominanza è un po’ come quella dei grandi stranieri dei cui nomi si faceva forte, non senza qualche provinciale ingenuità, contro l’indifferenza nostrana: ma a lui Alexis Bertrand, “decano dei filosofi francesi”, e Paul Barth, “il vero maestro dell’Università di Leipzig”, sembravano “fideiussori a cui fumano i mustacchi” - per adoperare l’espressione dell’inimitabile Tari. E credeva, l0ottimo uomo, che un suo articolo su “L’Ora” di Palermo fosse, in piena guerra mondale 1914-18, avvenimento d’importanza europea pari a un grande discorso ai Comuni del Primo Ministro dell’impero britannico [si allude a “L’Ora” di Palermo del 21 gennaio 1916] (…).

Seguace dell’indirizzo critico, e super-realista, si è proclamato ed è stato altre volte chiamato. Ma su una cosa, veramente, nella sua lunga attività egli non volle mai transigere: sul fatto ch’egli era un sommo filosofo. Nel 1926, traendo il bilancio della sua attività di un quarto di secolo, scriveva riferendosi a un libro del 1905: “quando, nel trionfare di tutti i vecchi ontologismi etici, aggiungevo che la scienza dei fatti morali aspettava ancora il suo Galilei e il suo Newton, prevedevo nel mio foro interno che taluno m’avrebbe risposto esser stato proprio io il Galileo e il Newton della scienza morale”. Invece, poveretto!, non glielo disse nessuno; gli dissero, è vero, che era superiore a Kant, e lo paragonarono a Fichte e a Schleiermacher. Ma la cosa, lungi dal dargli soddisfazione, lo sdegnò, data la meschinità dei termini del paragone. […]

In verità quando aveva pubblicato la prima volta l’opera sua forse più significativa [“I valori umani”]aveva battuto sul fatto che egli intendeva offrire “sul terreno del’esperienza una scienza del bene e del male” limitata “alla descrizione più economica, cioè più semplice e più completa, dei rapporti funzionali elementari (espressi possibilmente nella forma matematica) dei fenomeni morali”. Ed appellandosi all’Avenarius l’Orestano insisteva: “per ottenere una tale ECONOMIA della descrizione scientifica è necessario però ridurre i fenomeni alle loro reali funzioni universali, così come la fisica e la chimica hanno fatto rispetto ai più complicati fenomeni della natura. Ora il denominatore comune di tutte le valutazioni – e la valutazione è il fulcro dell’indagine morale - secondo l’Orestano è la VITA.”Tutta la meravigliosa concordanza e armonia tra le diverse morali storiche dell’umanità, armonia che stupisce e commuove, non è dunque se non un accordo preliminare su un punto solo, per quanto essenzialissimo, anzi fondamentale: il rispetto della vita, la pace fra gli uomini”. Così in una prolusione palermitana dell’11. Sennonché subito l’Orestano precisava: “Questa morale è ben quella che io chiamo economica, non, intendiamoci bene, nel senso del defunto materialismo storico, né nel senso della morale utilitaria. L’economia cui presiede questa morale è quella della vita per se stessa, della vita biologicamente intesa e vissuta, e non soltanto dell’individuo, ma delle specie; l’economia della vita che richiede protezione e difesa dalla pubblica coscienza, e dai poteri dello stato, ovunque essa si manifesti, a chiunque appartenga”. […]

Proprio per le vie del mistero e della trascendenza l’Orestano, dopo il 1914, venne consumando quanto di ancor positivo aveva il “positivismo” delle sue prime ricerche morali: e ne venne fuori, in discorsi pieni di colori retorici, quel “superrealismo guerriero” che avrebbe dovuto costituire la”vera” filosofia del fascismo, da contrapporsi ad ogni filiazione hegeliana. […]

È significativo che il trapasso a questa filosofia dal piglio tanto militaresco, che a un ammiratore [R. Miceli] pareva insieme “spiritualista, critica, positivista e pragmatistica”, e in cui realmente precipitano molti detriti di un cattivo positivismo e e di un grossolano pragmatismo, non senza il condimento di una terminologia vagamente kantiana; è significativo che cosiffatto orientamento si venisse precisando con la prima guerra mondiale, che fu davvero un esperimento tragico nel quale vennero in luce, accanto a vive forze feconde, miserie d’ogni genere. L’Orestano stesso confesserà nel ’29 che fu proprio la guerra a svelargli la soluzione del sacrificio supremo; perché “la guerra è un misticismo in grande stile”. Non contento del misticismo, l’ex quasi positivista si fece anche profeta. […] E nel ’23 dichiarò di essere il D’Annunzio della filosofia, e al D’Annunzio indirizzava una lettera degna d’esser riletta: “Il mio lavoro avanza… animato da un’ambizione immensa, quella di servire questa nostra Italia là ove meno è difesa…con accrescerne le potenze e prerogative spirituali tipicamente sue, insuperabili, impareggiabili, tipicamente conquistatrici, Mi conforta frattanto che, quando dirò la mia nuova verità, essa coinciderà, per una certa armonia prestabilita, per un certo sistema di performazione ideale, oi più alti insegnamenti che già promanano dalla vostra personalità, dal vostro esempio, dalla vostra parola”.

La filosofia “dannunziana” fu esposta nel 1924 nei “Nuovi principi”, ove ormai siamo innanzi ad un’orgia di “metafisica”, mentre il mondo dei fenomeni “trova la sua integrazione in uno sfondo noumenale e trascendente, a cui la dimensione trascendentale delle esperienze  costantemente rinvia; uno sfondo con cui l’esperienza tenta di stabilire relazioni, inerenze, contatti ontologici, oltre tutte  le modalità sperimentate.” […]

La “dimensione trascendentale” - per usar le parole dello stesso Orestano - non era solo l’”asse” della sua ontologia; era l’avvio a tutto un preciso atteggiamento politico.  L’ex professore e futuro accademico d’Italia, parlando della “potenza oggettivante della volontà creatrice” e della nuova “ontologia dei valori”, della mistica del sacrificio e della tradizione italica,  faceva ancora una volta il profeta; e nel ’27  sulla “Nuova Antologia”, in un articolo che al Gramsci sembrava “scritto da un gesuita”, preludeva al Concordato. Dopo il quale volle essere il filosofo unico del fascismo. Va riletta una conferenza tenuta dall’Orestano in Genova nell’aprile del ’34, su tre rivoluzioni (comunista, nazionalsocialista e fascista), per impararvi che Mussolini uscì fuori dalla logica di 24 secoli di cultura europea mediante una nuova logica, la logica orestaniana sostituitasi a quella d’Aristotele. “In questa più profonda logica oceanica della vita operano fattori noti e ignoti, ponderabili e imponderabili, definibili e ineffabili, governabili e ingovernabili”. Circa u anno prima, fra l’aprile e il giugno del ’33, su per le gazzette (sic) l’Orestano aveva violentemente attaccato il Gentile a proposito del III Congresso Internazionale hegeliano, tenutosi a Roma a Villa Wurtz. […]

All’Orestano premeva invece dichiarare che il fascismo era orestaniano, e non hegeliano; che “Hegel è un ramo morto a cui sono attaccate poche foglie secche”; che è “filosofame” inutile, fuori della scienza e fuori della verità, una filosofia che sta alla finestra”. Di lì a poco, inaugurando in Campidoglio il 26 ottobre dello stesso anno l’VIII Congresso nazionale di filosofia, l’accademico Orestano ribadiva la condanna della dialettica (“Lenin è autore di una dialettica”), e della logica in genere, esaltando il “divino dono di un genio italianissimo, che ha potuto bravamente sfidare le contraddizioni concettuali”, anzi tutti i concetti e tutti i principi logici, ricorrendo alla “più profonda logica dei valori”. Non occorre aggiungere che, se il nome di quel “genio” era Mussolini, il nome del suo ispiratore era Orestano. “C’è da fremere - soggiungeva l’oratore - pensando quale sorte avrebbe afflitto il popolo italiano, se alla testa del Fascismo si fosse trovata una mente di deduttore e di dialettico, come c’è da confortarsi che sulle direttive del Fascismo non possano aver presa i seduttori appelli alla dialettica ei concetti che qua e là fanno capolino”. Niente hegeliani, dunque, e niente logica, e soprattutto, niente concetti. “L’uomo di pietà non vuol essere turbato da concetti… E ha ragione. L’uomo d’azione preferisce la sua intuizione diretta… E ha ragione. L’artista e il prete sentono più la vita nei valori… a cui conferiscono… una fantastica realtà…E hanno ragione. L’uomo comune si tiene più pago nel riempire tutte le categorie… di contenuto grezzo e contraddittorio, anziché svuotarle ragionandovi su… Ed egli pure ha ragione. Rispettare tutte queste esperienze significa immettere la filosofia nella vita. Fissato così chiaramente che la nuova vera filosofia  era la celebrazione di chi non ragiona, l’Orestano esclamava che proprio questa era “filosofia tutta  e originalmente italiana. Offrirne l’insegnamento al mondo (era) acquistare all’Italia un nuovo primato, il primato filosofico”

Dalle pagine sul “Convegno Volta” del ’32, alle “meditazioni” sul Patto a quattro, dalle considerazioni su “la fine del Comunismo in Russia”, alla celebrazione (luglio 1940) del “senso di dirittura e di equilibrio di cui Hitler (dava) continui saggi” proprio in quei giorni tragici, sempre l’Accademico Orestano celebrò la perfetta corrispondenza fra la sua filosofia” e gli eventi, egli unico e solo teorico dei tempi nuovi… Era l’ultima tappa di un moto che non deve essere perso di vista, perché rappresentò anch’esso lo sviluppo di un unti di vista positivistico. E chi volesse rescindere da una posizione del genere solo per la sua inconsistenza speculativa e morale, mutilerebbe stranamente il panorama di un tempo in cu l’Orestano esercitò una non piccola influenza pratica. Proprio il suo itinerario costituisce da solo un documento importante; la sua dichiarazione , contro Gentile, d’essere stato fascista  fino dal 1914, indica con grande giustezza un punto di crisi nella storia del pensiero italiano…»

 

Si potrebbe continuare, ma ci sembra che basti e avanzi.

Sarebbe difficile trovare un atteggiamento di più sgradevole sufficienza, irrisione, sberleffo, nei confronti di un altro pensatore, di quanto ne mostra il Garin in queste sue cronache di filosofia, che vorrebbero essere distaccate e obiettive, più che memorialistiche, e che invece trasudano veleno e malevolenza da ogni frase e da ogni rigo.

Le citazioni dai testi e dai discorsi di Orestano sono scelte ad arte, decontestualizzandole, per farlo apparire quale egli non era: tronfio, vanaglorioso, superficiale; l’aggettivazione è sottilmente ironica, sfottente, ai limiti del dileggio; i commenti sono invariabilmente acidi, faziosi, falsamente pacati, ma in realtà trasudanti rancore e antipatia.

C’è da chiedersi perché il Garin dedichi tante pagine ad Orestano e alla sua filosofia, se li disprezza così tanto; ma egli stesso ci dà la risposta, verso la fine: perché gli sembrano una metafora della crisi intellettuale e morale dell’Italia della prima metà del Novecento. Dunque, egli stesso ammette di non valutare il filosofo per quel che ha detto, ma come una specie di paradigma di tutti gli errori, di tutte le storture, di tutti i ”detriti”, per usare la sua espressine, di un’epoca che gli appare singolarmente torbida e limacciosa.

Che Orestano fosse anti-idealista, anti-hegeliano, anti-crociano e anti-gentiliano, naturalmente, non c’entra con l’acredine sfoderata da Garin, nel suo palese sforzo di ridicolizzarlo; che egli fosse il sostenitore di una logica non formale né formalistica, ma vitalistica, e perciò vicina al sentire dell’uomo comune, doveva apparire al Nostro solerte censore come l’orrore degli orrori, come il culmine dell’eresia e della profanazione («la celebrazione di chi non ragiona»).

Vuoi vedere che è stato proprio questo il vero “peccato” di Orestano: aver battuto delle strade nuove, diverse dall’idealismo imperante; aver voluto tracciare una nuova via alla filosofia italiana, una via più consona alla nostra tradizione, ma al tempo stesso fortemente innovativa: una via che, partendo dalle avanguardie e passando per il positivismo e il pragmatismo, ritornasse nel solco dei valori, dalla trascendenza, della religione, ma non mediante un atto “puro” del pensiero, bensì mediante un atto di umiltà speculativa, ossia calandosi nella realtà concreta e ricucendo l‘antica frattura tra immanente e metafisica?

I professori di filosofia come Eugenio Garin somigliano a dei ragni che se ne stanno nel loro angolo, intenti a secernere la tela vischiosa con cui tendere la trappola a chi tenta di aprire strade nuove; dall’alto della loro povera, stanca saggezza provinciale, che scambiano per il centro del mondo, distribuiscono pagelle a destra e a manca, sulla base di ciò che vedono dal loro minuscolo angolo di finestra; topi di biblioteca, che mai hanno osato mettere il naso al di fuori, nella vita vera; che mai hanno osato respirare i liberi venti e che, tuttavia, si permettono di fustigare gli altri, forti del loro conformismo, delle loro cattedre sicure, del loro ossequio al pensiero dominante, non solo filosofico, ma anche politico.

Se le frasi di elogio pronunciate da Orestano sulla moderazione politica di Hitler suscitano la sua acre ironia, perché Garin non va a rileggersi ciò che scrivevano tanti suoi illustri colleghi, e hanno continuato a scrivere per decenni, ad esempio, su Stalin? E se le lodi rese da Orestano al genio di Mussolini lo irritano e lo fanno sorridere sarcasticamente, perché non prova a rileggersi ciò che dicevano i nostri intellettuali della Vulgata democratica su tristi figuri come Palmiro Togliatti, senza che mai abbiano fatto ombra di autocritica, nemmeno in seguito?

È troppo facile impancarsi a giudici, quando si è dalla parte dei vincitori; è troppo comodo sparare a zero su chi ha provato a seguire strade nuove, quando non si è mai osato sporgere la punta del naso fuori della propria tana.

Oppure lo disturba il fatto che Orestano abbia intonato le lodi della conciliazione fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, perché ciò disturba il suo laicismo e rinfocola tutti i suoi pregiudizi in fatto di rapporti tra politica e religione?

Mancanza di onestà intellettuale, anche in questo caso; chi era più nel giusto, dunque: Orestano che auspicava il Concordato, dopo quasi sessant’anni di lacerazione delle coscienze italiane, che nessun governo liberale aveva voluto sanare; oppure quelli che, sdegnosamente, sostenevano non doversi la Chiesa sporcare le mani, ratificando un concordato con Mussolini, né il Fascismo sporcarsi le proprie, riconoscendo i privilegi del Vaticano?

Questi intellettuali ragni, sepolti nelle loro biblioteche come mummie nei loro sarcofagi; questi intellettuali sempre politicamente corretti, ma, guarda caso, invariabilmente “a posteriori”; questi parassiti della cultura, che non sanno mai dire una parola nuova, né gettare uno sguardo franco e costruttivo verso il futuro, ma solo recriminare sul lavoro altrui e fare le pulci ai loro colleghi più generosi e meno calcolatori: ebbene, costoro sono il peggiore flagello della nostra cultura, la ragione più profonda del suo eterno immobilismo.

Infestano le università, occupano a vita le cattedre e le trasmettono ai loro zelanti portaborse, ai loro solerti adulatori; soffocano ogni vento di novità, ogni fresca brezza di rinnovamento; non sbagliano mai, perché non si azzardano a dire una sola parola originale: si limitano a chiosare, a rimasticare le parole altrui, a sentenziare sul lavoro altrui, a infierire sugli errori altrui: perché chi vive la vita vera, e non quella asfittica delle biblioteche, certamente ne fa, di errori; e anche grossi.

Dimenticano, però, un particolare: che solo osando, sbagliando, cadendo e rialzandosi, lo spirito procede sulle strade della vita, imparando qualcosa e trasmettendolo anche agli altri: alla massa che non osa e perfino a loro, gli intellettuali ragni, che stanno a guardare, spiando l’occasione per scendere sugli sconfitti e concedersi il pasto degli avvoltoi.

E per finire, una domanda un po’ indiscreta: sarà un caso che ad Eguenio Garin il succitato «Dizionario biografico degli Italiani» dedica più di una intera pagina, con tanto di fotografa a colori di non piccolo formato?

E poi ci si lamenta che, nella società e nella cultura italiane, c’è sempre troppo poco spazio per i giovani. Se tutti gli onori e i riconoscimenti vanno immancabilmente a quanti se ne stanno sempre sul sicuro, tessendo i loro fili come ragni…