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Il business della fame

di Michele Paris - 22/02/2011


Pur non essendo l’unico motivo scatenante, l’impennata dei prezzi dei beni alimentari su scala globale sta contribuendo in maniera non indifferente all’esplosione delle proteste di piazza in corso nel mondo arabo. Come già accaduto nel 2008, i rialzi stanno causando gravi sofferenze per centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta, in particolare tra gli abitanti dei paesi più poveri.

L’indice dei prezzi della Banca Mondiale risulta superiore del 29 per cento rispetto ad un anno fa e ad appena tre punti percentuali dai livelli record del 2008. I dati della FAO indicano a loro volta un aumento del 3,4 per cento solo tra dicembre 2010 e gennaio 2011, con un indice che ha toccato il punto più alto dal 1990, di fatto già superiore anche al 2008. Tra gennaio e dicembre dello scorso anno, il prezzo del grano è salito del 75 per cento. Solo nell’ultimo quadrimestre, l’aumento è stato del 20 per cento, mentre notevoli rincari hanno fatto segnare, ad esempio, anche lo zucchero (20 per cento) e l’olio (22 per cento), penalizzando in particolare i paesi importatori.

Della crisi alimentare si stanno occupando tutti i più importanti organismi internazionali, non solo la FAO e la Banca Mondiale, ma anche l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e il G-20, recentemente andato in scena a Parigi. Se queste istituzioni tendono a giustificare i continui aumenti dei prezzi con le catastrofi ambientali che hanno sconvolto molti paesi produttori nel 2010 e con le nuove dinamiche legate alla domanda e all’offerta in un mondo in cambiamento, molti commentatori indipendenti hanno messo in risalto le pesanti responsabilità della speculazione internazionale.

Assieme ad Umberto Mazzei - direttore dell’Istituto di Relazioni Economiche Internazionali di Ginevra e già docente di Economia presso vari atenei di Colombia, Venezuela e Guatemala - abbiamo cercato di capire le reali cause che stanno dietro agli attuali movimenti dei prezzi del cibo e, più in generale, gli squilibri e le distorsioni che pesano sul mercato globale dei beni alimentari.


Il recente rapporto della FAO sui prezzi dei beni alimentari attribuisce sostanzialmente le impennate degli ultimi mesi alle avverse condizioni atmosferiche in molte aree del globo e alla conseguente contrazione dell’offerta, una conclusione condivisa anche da molti economisti, tra cui il premio Nobel americano Paul Krugman. Gli altri motivi dei rincari sarebbero l’aumento della domanda proveniente da pesi emergenti come la Cina e l’utilizzo dei raccolti per la produzione di biofuel. Lei condivide questo giudizio ?

Se nel 2010 i prezzi dei beni alimentari sono saliti ai livelli astronomici del 2008 non è per i motivi sostenuti dalla FAO. Tanto più che le statistiche su cui si basa l’agenzia dell’ONU arrivano solo fino al 2008, come chiunque può verificare. Attribuire la salita dei prezzi alle avverse condizione atmosferiche è a mio parere una speculazione puramente teorica. I paesi colpiti da catastrofi ambientali sono stati in realtà pochi e questi eventi si ripetono un po’ ovunque ogni anno.

Fondamentalmente, per il 2010 tali calamità hanno riguardato la Russia, poiché in Australia, ad esempio, la produzione non ha fatto segnare crolli significativi e soltanto la qualità dei raccolti ha sofferto per le piogge e le inondazioni. L’impatto di questi cattivi raccolti sull’offerta mondiale è stato inoltre largamente compensato dalle raccolte record in Cina, Argentina, Brasile ed altri paesi.

Ciò spiega perché il rapporto fra la produzione e l’offerta mondiale sia rimasto inalterato nel corso del 2010. I dati indicano anzi un indubbio aumento della produzione mondiale rispetto al 2008. In quell’anno la produzione mondiale di grano era stata di 1.697 milioni di tonnellate, mentre nel 2010 è salita a 1.793 milioni, secondo i dati dell’International Grains Council. Allo stesso modo, il consumo nel 2008 è stato di 1.684 milioni di tonnellate e nel 2010 è salito a 1.786 milioni.

Da questi numeri è possibile constatare come non ci sia stato alcun mutamento sostanziale tra offerta e domanda. Inoltre, nel 2008 le scorte di grano ammontavano a 282 milioni di tonnellate, per salire a 404 milioni lo scorso anno. La produzione di agrofuel, infine, non può essere considerata responsabile dell’aumento dei pezzi, perché durante il 2010 negli Stati Uniti, che sono i maggiori produttori, essa è rimasta stabile attorno ai 40 milioni di litri.

Di fronte a questo scenario, possiamo concludere che l’impennata dei prezzi è dovuta principalmente alla speculazione. Ciò purtroppo non rappresenta una novità. Oggi è infatti evidente come l’impennata e la successiva caduta dei prezzi dei beni alimentari nel 2008 fu dovuta proprio alle operazioni speculative. Non va dimenticata anche la svalutazione del dollaro che fa salire i prezzi dei beni scambiati in questa moneta, anche se essi rimangono stabili nelle altre valute. Nelle considerazioni di un organo delle Nazioni Unite come la FAO, d’altra parte, pesano le fortissime pressioni politiche che impediscono determinate conclusioni. Gli stessi vincoli agiscono anche sugli economisti legati all’establishment, sia pure autorevoli, come Krugman.

Anche l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ha preso in considerazione l’aumento dei prezzi. Il suo direttore, Pascal Lamy, ha citato come possibile causa la regolamentazione delle esportazioni dei prodotti alimentari che alcuni paesi attuano, chiedendo perciò una maggiore liberalizzazione in questo senso. Qual è la sua opinione in proposito?

Questa brusca impennata dei prezzi, cosi come quella del 2008, non può essere attribuita a simili politiche che sono in vigore da tempo. Il diritto dei paesi ad assicurare le risorse alimentari alla propia popolazione, prima di esportarle, è in ogni caso totalmente legittimo, come sancito anche dalle norme del WTO. Queste politiche di controllo sulle esportazioni stabilizzano i prezzi interni su livelli reali e costituiscono un freno alla speculazione.

È senz’altro vero, al contrario, che tali politiche danneggiano gli speculatori, così come sono un ostacolo al controllo mondiale dei cartelli dell’agroalimentare. Il direttore del WTO, Pascal Lamy, cerca di erodere tali protezioni nazionali per favorire i cartelli, un obiettivo perseguito anche nelle negoziazioni agricole del WTO che mirano allo smantellamento delle politiche nazionali. È singolare come, potendo ottenere l’autosufficienza e la stabilità dei prezzi interni a così buon mercato (attraverso la regolamentazione delle esportazioni), si spendano invece enormi quantità di denaro pubblico, ad esempio, con le sovvenzioni della Politica Agricola Comune (PAC) per assicurare l’autonomia alimentare europea.

Più precisamente, quale peso hanno sulla crisi alimentare globale i sussidi alle esportazioni che molti paesi (Stati Uniti e UE) garantiscono ai propri produttori?

I sussidi alle esportazioni agricole dell’Unione Europea e degli Stati Uniti di fatto hanno rovinato gli agricoltori che non possono competere con prezzi tenuti artificialmente bassi. Anche quelli più efficienti, nella migliore delle ipotesi, hanno visto ridurre drasticamente i loro profitti. Se sovvenzionare per garantire la propria sovranità alimentare è legittimo, decisamente meno lo è per favorire l’esportazione degli stessi prodotti agricoli sussidiati, in quanto essi determinano l’abbassamento dei prezzi internazionali a livelli rovinosi. Il crollo dei prezzi, a sua volta, rende necessarie le sovvenzioni, producendo un circolo vizioso. A peggiorare la situazione c’è poi il fatto che le sovvenzioni favoriscono principalmente il processo industriale e gli intermediari commerciali, piuttosto che i produttori.

A causa di questi sussidi molti paesi hanno visto lo spopolamento di intere zone rurali, con il conseguente spostamento di milioni di persone in aree urbane sempre più affollate. Per lo stesso motivo, paesi già esportatori di prodotti alimentari sono ora dipendenti dalle importazioni per il loro  sostentamento. Notissimo è il caso dei cosiddetti “quattro del cotone” (Benin, Burkina Faso, Mali e Ciad) che basavano appunto le loro economie sull’esportazione del cotone, e i cui governi sono costretti ora a spendere centinaia di milioni di dollari solo per mantenerne in vita la produzione. Un’evoluzione dovuta in primo luogo ai 25 miliardi di dollari in sussidi ai propri produttori di cotone che Washington ha assicurato negli ultimi 9 anni e che coprono ben il 68% del costo della produzione negli Stati Uniti.

Un altro esempio significativo è quello della produzione dello zucchero. La coltivazione più efficiente è quella derivata dalla canna da zucchero, tipica dei climi tropicali. L’Europa in teoria non potrebbe mai competere con questi paesi, tuttavia, grazie alle sovvenzioni della PAC, non solo da noi si produce zucchero di bietola, ma l’Europa ne è anche il maggiore esportatore mondiale. In definitiva, i contadini di qualsiasi paese - Europa compresa - vorrebbero semplicemente prezzi più alti, ovvero reali. Al contrario, il denaro dei contribuenti viene speso per abassare i prezzi dei beni alimentari, così da creare nuovi grandi mercati ed enormi guadagni per gli intermediari del commercio internazionale.

Tornando alla situazione attuale di rincari dei beni alimentari, può spiegare più nel dettaglio come la politica monetaria della Fed americana (con la svalutazione del dollaro) e la speculazione internazionale possono influire sull’aumento dei prezzi dei beni alimentari ?

Il ruolo della Banca Centrale Americana è innegabile. A partire dal 1971, quando gli USA abolirono la convertibilità del dollaro in oro, la Fed è in grado di emettere cifre astronomiche di denaro tramite una pratica definita “quantitative easing”. Con un semplice tocco sulla tastiera si mettono in circolazione cifre che superano di molto la capacita d’assorbimento dell’economia reale. Sono quantità di denaro molto piu grandi della vera economia mondiale e che si muovono tra i centri finanziari per essere investiti nelle borse valori.

Da tempo, infatti, si assiste alla salita del valore delle azioni senza una ragione apparente, come un aumento dei dividendi o nuovi investimenti, e lo stesso accade con altre proprietà o valori. Questo eccesso di denaro virtuale causa un succedersi di bolle speculative che possono riguardare qualsiasi bene scambiabile, compresi quelli alimentari, i cui prezzi fanno segnare impennate come quella in corso. Quando queste bolle esplodono e i prezzi cadono, il denaro immesso artificialmente sul mercato si volatilizza. La Fed allora interviene nuovamente per erogare altro denaro virtuale a beneficio degli speculatori di Wall Street affinchè facciano risalire i prezzi e possano recuperare le perdite creando sempre nuove bolle.

Che a produrre il rialzo del prezzo del cibo sia la speculazione o le catastrofi ambientali, quel che è certo è che dalla metà dello scorso anno 44 milioni di residenti dei paesi più poveri sono stati spinti in condizioni che la Banca Mondiale definisce di “estrema povertà”, cioè costretti a sopravvivere con meno di 1,25 dollari al giorno. Di fronte ad una comunità internazionale pressoché impotente, il numero delle persone malnutrite sulla terra tocca oggi i 925 milioni e, con l’attuale tendenza dei prezzi dei beni alimentari, è probabile che entro la fine dell’anno verrà superato il miliardo, vale a dire quasi un sesto della popolazione della terra.